Voci dal Porto: Specie Aliene Marine e Chi Ne Sa Davvero in Spagna
Avete mai pensato a chi, o meglio, *cosa* vive attaccato sotto la chiglia della vostra barca o tra le cime d’ormeggio nel porto? Non parlo dei soliti noti, ma di ospiti inattesi, a volte arrivati da molto lontano: le specie aliene marine (o Non-Indigenous Species, NIS). Non sono extraterrestri, ovviamente, ma organismi che si trovano in un luogo dove prima non c’erano, spesso trasportati involontariamente dalle attività umane, come la navigazione da diporto.
Recentemente, mi sono imbattuto in uno studio affascinante che ha cercato di capire quanto ne sappiamo davvero, qui nel Mediterraneo e in particolare in Spagna, su questi “intrusi” marini. Perché è importante? Perché il nostro mare è un tesoro di biodiversità, ma è anche considerato uno dei più “invasi” al mondo. E indovinate un po’? Le nostre amate barche da diporto possono essere, senza volerlo, delle vere e proprie “autostrade” per queste specie.
La sfida della biosicurezza marina: un problema sottovalutato?
Pensateci: mentre in paesi come la Nuova Zelanda o alcune zone dell’Australia esistono controlli di biosicurezza abbastanza rigidi per le imbarcazioni da diporto, qui in Europa, e specialmente nel Mediterraneo, la gestione di questo rischio si basa quasi esclusivamente sulla buona volontà. Siamo noi, proprietari di barche e gestori di marine, i principali responsabili nel prevenire la diffusione di queste specie, adottando comportamenti “pro-ambiente”. Ma siamo davvero consapevoli del problema? Sappiamo cosa fare?
Ecco dove entra in gioco lo studio “Mapping the voices”. I ricercatori hanno voluto “mappare le voci”, cioè capire cosa sanno e pensano i diretti interessati – diportisti, gestori di porti turistici e anche il pubblico generico che frequenta le coste – in tre paesi con storie e approcci diversi alla biosicurezza marina: Spagna, Australia e Nuova Zelanda. La Spagna è stata scelta come caso studio chiave, essendo un punto caldo per l’introduzione di NIS nel Mediterraneo e affidandosi, come detto, a misure volontarie.
Ma sappiamo davvero di cosa parliamo? La grande illusione
I risultati, ve lo dico, sono stati piuttosto sorprendenti, soprattutto per la Spagna. La prima cosa che salta all’occhio è un forte disallineamento tra quanto pensiamo di sapere e quanto sappiamo realmente. La stragrande maggioranza degli intervistati spagnoli (oltre l’83%, addirittura di più che in Australia!) ha dichiarato con sicurezza: “Sì, so cosa sono le specie aliene marine!”. Un’ottima notizia, penserete. E invece no.
Quando si è trattato di fare esempi concreti, la percentuale di chi riusciva a nominare correttamente una specie aliena marina crollava drasticamente: solo il 17% in Spagna (contro il 32% in Nuova Zelanda e l’11% in Australia). C’è una bella differenza tra aver sentito parlare di un problema e capirlo davvero! In Spagna, molti citavano alghe generiche, meduse (spesso il nativo “polmone di mare” o la “caravella portoghese”, che non è nemmeno una medusa!), o addirittura specie d’acqua dolce come il gambero rosso della Louisiana. Questo suggerisce che forse l’informazione che riceviamo è frammentaria o non specifica per l’ambiente marino.
Ancora più preoccupante: una buona parte degli spagnoli intervistati (il 60% in meno rispetto ai neozelandesi) non era consapevole che queste specie aliene possano effettivamente vivere e prosperare proprio lì, nei porti e nelle marine. Sembra esserci una sorta di “cecità” verso quello che si nasconde sotto il pelo dell’acqua nel nostro solito posto barca.

Chi ci informa? I canali della conoscenza (e della confusione)
Da dove arrivano le nostre informazioni (o disinformazioni) sulle specie aliene marine? Anche qui, la Spagna si distingue. Mentre in Australia e Nuova Zelanda la televisione, le guide di pesca/nautica e le riviste specializzate giocano un ruolo primario, in Spagna sembriamo affidarci di più a:
- Internet (siti web generici)
- Il passaparola tra familiari e amici
- I social network
Il settore marittimo stesso (club nautici, personale delle marine, guide specifiche) sembra avere un ruolo molto più marginale nell’informare i diportisti spagnoli rispetto agli altri paesi. È come se mancasse un canale diretto e autorevole proprio lì dove il problema è più tangibile.
Non tutte le fonti sono uguali: dove trovare informazioni affidabili
E qui arriva un punto cruciale. Lo studio ha rivelato un’associazione interessante:
- Chi si informava tramite riviste/articoli specifici, guide di pesca/nautica o parlando con altri diportisti esperti tendeva ad avere una conoscenza più accurata e una maggiore consapevolezza del problema nei porti.
- Al contrario, chi riceveva informazioni principalmente da TV e social network mostrava una correlazione significativa con una conoscenza meno accurata e una minore consapevolezza.
Questo non significa demonizzare TV o social, ma suggerisce che l’informazione su questi canali potrebbe essere più generica, sensazionalistica o semplicemente meno precisa riguardo alle specifiche problematiche della biosicurezza marina. Pensiamo al caso dell’alga aliena Rugulopteryx okamurae, citata da molti spagnoli: ha avuto una grande copertura mediatica per i danni causati, ma forse l’attenzione si è concentrata più sull’impatto che sulla prevenzione legata alla nautica.
Identikit dell’esperto (o quasi)
Chi tende a saperne di più? I risultati confermano un po’ quello che potevamo immaginare:
- I proprietari di barche sono generalmente più informati e consapevoli del pubblico generico.
- Chi pratica attivamente pesca e attività subacquee ha una probabilità quasi doppia di avere conoscenze accurate. Vivere il mare da vicino fa la differenza!
- L’età gioca un ruolo: le persone sopra i 36 anni, e in particolare sopra i 46, dichiarano e dimostrano maggiore conoscenza.
- Gli uomini dichiarano più conoscenza delle donne, ma attenzione: questa conoscenza non è risultata significativamente più accurata. Forse un pizzico di eccesso di confidenza?
- Sentirsi fortemente connessi all’ambiente marino è un fattore positivo associato a una maggiore conoscenza dichiarata.

Fidarsi è bene… ma di chi?
Un dato molto interessante riguarda la fiducia. A chi crediamo quando si parla di ambiente marino e specie aliene? In tutti e tre i paesi, la fiducia maggiore è riposta in:
- Pubblicazioni scientifiche
- Organizzazioni ambientaliste
In Spagna, queste due fonti godono praticamente della stessa altissima credibilità. Al contrario, siamo più neutrali verso le informazioni ricevute da contatti personali (amici, familiari, altri diportisti) e decisamente poco fiduciosi nei confronti dei social media, che risultano la fonte meno credibile. Eppure, come abbiamo visto, sono uno dei canali da cui attingiamo di più… un bel paradosso!
Perché dovremmo preoccuparci?
Tutto questo cosa significa in pratica? Significa che in Spagna, nonostante la grande importanza economica e sociale della nautica da diporto e la vulnerabilità del Mediterraneo, c’è una pericolosa lacuna di conoscenza e consapevolezza proprio tra coloro che potrebbero giocare un ruolo chiave nella prevenzione. Se non sappiamo riconoscere una specie aliena, se non siamo consapevoli che la nostra barca può trasportarla, se non sappiamo che i porti sono habitat ideali per questi organismi, come possiamo adottare le giuste precauzioni? Rischiamo di vanificare gli sforzi di gestione e di contribuire involontariamente a danneggiare l’ecosistema marino che tanto amiamo.
Cosa possiamo fare? Consigli pratici per la Spagna
Lo studio non si limita a fotografare la situazione, ma offre anche preziose raccomandazioni, che provo a riassumere in modo pratico:
1. Parliamo chiaro e senza dare nulla per scontato: Bisogna spiegare meglio cosa si intende per “specie aliena marina” nel contesto spagnolo o mediterraneo. Non basta dire “specie invasiva”. E bisogna sottolineare il legame diretto tra barche, porti e diffusione di NIS.
2. Coinvolgiamo il settore nautico: È fondamentale che l’informazione passi attraverso i canali che si sono dimostrati più efficaci per raggiungere i diportisti con conoscenze accurate: club nautici, associazioni di pesca, guide specifiche, personale delle marine. Bisogna creare un dialogo e una collaborazione più stretta tra scienziati, gestori e utenti.
3. Usiamo internet con intelligenza: Visto che internet è un canale molto usato, sfruttiamolo meglio. Promuoviamo contenuti accurati su siti web affidabili, magari creando partnership tra scienziati e professionisti della comunicazione digitale (riviste online di settore, documentari, podcast).
4. Sfruttiamo la fiducia: Le organizzazioni ambientaliste e le istituzioni scientifiche godono di grande fiducia. Collaborare con loro per diffondere messaggi sulla biosicurezza marina o organizzare iniziative locali (workshop, citizen science) può essere molto efficace.
5. Social sì, ma con cautela: I social network sono potentissimi e raggiungono tutti, ma sono anche fonte di disinformazione e godono di bassa fiducia. L’idea è usarli come “megafono” per veicolare contenuti provenienti dalle fonti più credibili (scienziati, ONG, club nautici affidabili) o per promuovere iniziative concrete.
Insomma, la sfida è aperta. Proteggere il nostro splendido mare dalle invasioni biologiche richiede uno sforzo collettivo, e il primo passo è proprio questo: sapere, capire, essere consapevoli. Solo così potremo navigare in modo davvero sostenibile e responsabile.
Fonte: Springer
