L’Eco della Battaglia nell’Anima: Veterani Israeliani e la Sfida dell’Identità
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi tocca particolarmente, perché riguarda qualcosa di profondamente umano: la costruzione della nostra identità. Immaginate per un attimo di aver vissuto esperienze talmente intense e trasformative da plasmare una parte di voi in modo indelebile. Questo è ciò che accade a molti veterani di combattimento, in particolare, come vedremo, nel contesto israeliano.
Il servizio militare, si sa, può essere un’esperienza che forgia il carattere, infondendo un senso di efficacia, autostima e appartenenza. Ma quando questo servizio implica l’esposizione diretta alla violenza e alla cultura militare, può anche lasciare cicatrici profonde, stress prolungato e un bel po’ di conflitti interiori. E qui arriva il bello, o meglio, la sfida: come si fa a rimettere insieme i pezzi della propria identità una volta smessa l’uniforme?
Ma cosa succede quando l’uniforme viene riposta nell’armadio?
Per i veterani di combattimento, formare un’identità adulta dopo il servizio è un percorso particolarmente accidentato. Le esperienze vissute al fronte possono infatti influenzare pesantemente sia la percezione che hanno di sé (l’identità personale) sia come si presentano al mondo (l’identità pubblica). C’è poi una discrepanza che complica ulteriormente le cose: da un lato i loro punti di forza, la resilienza che spesso gli viene attribuita (e che loro stessi sentono di dover mostrare), dall’altro le loro vulnerabilità nascoste. Un bel groviglio, non trovate?
Mi sono imbattuto in uno studio affascinante che ha cercato di capire proprio questo: come i veterani di combattimento israeliani gestiscono la necessità di integrare queste diverse facce della loro identità dopo il congedo. E, cosa non meno importante, come il lavoro sociale clinico può aiutarli in questo processo. La ricerca, basata sulla teoria dei molteplici stati del sé di Bromberg e su approcci psicologici relazionali, ha coinvolto 14 veterani maschi israeliani attraverso interviste semi-strutturate. E i risultati, credetemi, aprono finestre importanti sulla complessità di queste vite.
Prima di addentrarci nelle strategie che questi uomini hanno adottato, è interessante notare come il servizio militare in Israele sia una realtà pervasiva. È obbligatorio per uomini e donne ebree e per gli uomini drusi, iniziando a 18 anni e proseguendo con periodi di riserva fino ai 40. Questo significa che l’esercito è un vero e proprio crogiolo di identità culturali israeliane. Il congedo porta un alleggerimento, certo, ma il servizio di riserva continuo crea uno stato un po’ paradossale, un “dentro e fuori” che può complicare la transizione alla vita civile e viceversa. E le amicizie nate sotto le armi? Spesso durano una vita, rendendo il ritorno a casa un potenziale momento di crisi emotiva.
Le tre strade (non sempre facili) per ritrovarsi
Dallo studio sono emerse principalmente tre strategie di adattamento che i partecipanti hanno messo in campo. È come se, di fronte a un bivio emotivo e identitario, avessero scelto percorsi diversi per cercare un equilibrio.
1. L’identità del soldato che non tramonta
Alcuni veterani tendono a preservare un’identità da soldato dominante, che finisce per mettere in ombra tutte le altre. Pensateci: per molti, l’ingresso nell’esercito coincide con il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Come ha detto Gil, uno dei partecipanti di 29 anni: “Alla fine, quando arrivi nell’esercito, ognuno è solo un bambino. E solo dopo il congedo ti rendi conto di che bambino eri… Ma cresci molto in fretta nell’esercito. Vedi cose, fai cose, e ti viene data molta responsabilità“.
Questa maturazione accelerata, spesso “innaturale e per lo più irreversibile”, come sottolinea lo studio, porta alla formazione di un’identità da soldato matura che domina quelle precedenti. Tom, 33 anni, ha raccontato di aver cercato qualcosa di simile all’esercito anche nella vita civile, unendosi ai vigili del fuoco subito dopo il congedo: “Mi mancava l’adrenalina, la sensazione di far parte di qualcosa di grande, come eravamo nell’esercito“. È un tentativo, forse, di colmare un vuoto e mantenere centrale quell’identità che tanto li ha definiti.
2. Vivere in due mondi: la scissione come scudo
Un’altra strategia emersa è quella della scissione tra identità divergenti, utilizzando la dissociazione per gestire esperienze traumatiche e aspetti conflittuali del sé. È un meccanismo di difesa, un modo per tenere a distanza il dolore. Paz, 33 anni, ha descritto questa sensazione lucidamente: “Durante il servizio e per molti anni dopo, non ho davvero capito cosa avevo passato. È stato come se mi fossi svegliato da un sogno a 45 anni per realizzare: ‘Cavolo! Cosa ho fatto quando avevo 18 anni?’ Ed è stata una presa di coscienza dura e dolorosa“.
Gil, che abbiamo già incontrato, ha parlato del desiderio di “cancellare” i ricordi difficili, di disconnettersi da quelle emozioni. Immaginate la fatica di questo continuo sforzo di repressione. Ha anche usato una metafora potentissima, paragonando le sue esperienze a un videogioco come GTA (Grand Theft Auto): “Ti nascondi, cerchi, guidi attraverso molotov. Sembra davvero un gioco. Anche ora, guardando indietro, sembra che fosse in un’altra vita. Come se vivessi in due mondi separati: uno ero io civile e l’altro ero io come soldato“. Questa scissione, questo vivere su due piani di realtà, sembra averli protetti da un sovraccarico emotivo, permettendo loro di funzionare in momenti estremi.
3. L’arte di tessere insieme i fili dell’esistenza
Infine, la terza via, forse la più evolutiva, è quella di fondere le identità conflittuali in modo equilibrato, attraverso la terapia, l’espressione creativa e il supporto tra pari. Savyon, 34 anni, ha descritto una sorta di rinascita dopo un incontro di gruppo in cui si parlava delle esperienze militari: “Qualcosa è nato dentro di me, come una nuova sezione nel mio cuore. Come se si fosse aperta una nuova strada per me, la strada del domani, in cui è possibile una visione più chiara“.
Questa integrazione può assumere forme diverse. Menachem, 30 anni, ha scelto la carriera medica, trovando in essa una responsabilità simile a quella vissuta nell’esercito, ma in un contesto civile. Tal, 31 anni, ha incanalato le sue esperienze scrivendo una sceneggiatura, esprimendo così le diverse parti di sé: il combattente e il soldato ferito. È un modo per rimanere connessi alla propria identità militare, elaborandola e integrandola con altre parti del sé, verso un’identità matura ed equilibrata. Certo, non è un processo facile né privo di dolore. Tom, pur avendo trovato un modo per mantenere viva la sua identità da soldato, ha espresso dubbi: “Non sono sicuro se vorrei familiarizzare con le parti di me legate al passato. Forse è più comodo per me che rimangano nell’ombra… Dopo averne discusso con i miei amici, queste parti sono tornate in vita. E purtroppo, non sono sicuro se sia un bene per me o no“.
Perché è così difficile? Uno sguardo più da vicino
Questi risultati ci dicono molto sulla complessa interazione tra servizio militare e sviluppo dell’identità. La transizione da “bambino” a soldato di combattimento è descritta come brusca e dicotomica, un fattore cruciale nell’evoluzione della dissociazione in queste circostanze. Come suggerisce Bromberg, quando parti mentali “indesiderate” vengono riconosciute coscientemente, spesso si sperimentano sentimenti di inferiorità, umiliazione, alienazione, vergogna, colpa e miseria. E sebbene integrare queste parti possa portare a una crescita post-traumatica, il contesto militare spesso respinge questo processo di integrazione.
C’è una sorta di pressione a mantenere la facciata del soldato forte, evitando critiche sociali e stigma. Questo “stereotipo eroico” ha implicazioni sia positive che negative, e i veterani spesso si sentono angosciati se non riescono a soddisfare questo standard. In Israele, poi, la frequenza con cui si può passare dalla vita civile al fronte (e viceversa) a causa del servizio di riserva rende particolarmente arduo bilanciare le contraddizioni tra l’identità di soldato e quella civile.
Il ruolo cruciale del supporto e della comprensione
Cosa possiamo trarre da tutto questo? Innanzitutto, l’importanza di offrire ai veterani opportunità per elaborare le esperienze legate al combattimento e raggiungere un senso di sé equilibrato e coerente. Qui entra in gioco il lavoro sociale clinico. I professionisti dovrebbero essere attenti ai potenziali conflitti identitari, utilizzando strumenti di valutazione che esplorino le percezioni dei veterani riguardo al loro sé personale e sociale, sia durante il servizio che nella vita civile.
È fondamentale affrontare le complessità emotive dell’integrazione dell’identità, inclusi sentimenti di colpa, vergogna o disconnessione. I gruppi di pari, ad esempio, possono fornire uno spazio prezioso per quel movimento mentale dialettico necessario allo sviluppo emotivo, spesso compromesso dalla delegittimazione dell’espressione del dolore. Diverse organizzazioni no-profit israeliane già offrono questi spazi, e i risultati di questo studio ne sottolineano l’importanza.
Gli assistenti sociali, con la loro prospettiva “persona-in-ambiente” e l’approccio basato sui punti di forza, sono in una posizione unica per aiutare i veterani in queste complesse transizioni. Devono anche farsi promotori di politiche che supportino transizioni più fluide alla vita civile, educare datori di lavoro e comunità sui punti di forza e sulle sfide uniche dei veterani, e ridurre lo stigma associato alla ricerca di aiuto.
Un messaggio che va oltre i confini
Sebbene questo studio si concentri sul contesto israeliano, con le sue specificità legate al servizio obbligatorio e alla riserva continua, le sfide dell’integrazione dell’identità hanno aspetti universali. I veterani di combattimento di tutto il mondo possono affrontare difficoltà simili. È cruciale, quindi, che gli interventi siano culturalmente competenti, riconoscendo sia gli aspetti universali che quelli specifici del contesto.
In definitiva, questa ricerca ci spinge a un cambio di paradigma: superare i modelli focalizzati sulla patologia per abbracciare approcci più olistici, centrati sull’identità, che riconoscano il complesso e continuo processo di integrazione delle esperienze militari nella vita civile. Investire in un supporto completo per l’integrazione dell’identità tra i veterani non è solo un atto di giustizia nei loro confronti, ma un modo per arricchire l’intera comunità con le loro prospettive ed esperienze uniche.
Spero che questa riflessione vi abbia offerto spunti interessanti. È un tema complesso, ma fondamentale per comprendere meglio chi ha servito il proprio paese e le sfide che affronta nel ritrovare se stesso.
Fonte: Springer