Aula universitaria moderna con studenti di medicina attenti durante una lezione di anatomia, proiettore acceso sullo sfondo mostra una slide complessa, luce ambientale brillante, obiettivo grandangolare 24mm, messa a fuoco nitida sull'intera scena.

Medicina: Ma Serve Davvero Tutta Quella Scienza di Base Iniziale?

Ciao a tutti! Oggi voglio chiacchierare con voi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, scommetto, ha fatto dannare parecchi studenti di medicina (e forse anche qualche docente!): il valore della scienza di base nel curriculum medico. Parliamoci chiaro, chi non si è mai chiesto, seduto sui banchi dei primi anni, “Ma tutta questa biochimica, questa fisiologia, questa anatomia super dettagliata… mi servirà davvero quando sarò un medico con pazienti veri davanti?”. È una domanda legittima, che serpeggia tra le aule universitarie, a volte quasi come una forma di resistenza silenziosa.

Vedete, le lauree in medicina sono pensate, almeno in teoria, per mostrarci il legame indissolubile tra la ricerca scientifica e l’applicazione clinica. Il mantra è la “medicina basata sull’evidenza” (evidence-based medicine), quel principio sacro secondo cui le decisioni cliniche migliori, quelle che portano a risultati migliori per i pazienti, si fondano su solide prove scientifiche. Organismi come il General Medical Council nel Regno Unito basano tutto su questo. Eppure, l’esperienza sul campo, quella che sentiamo raccontare e che magari abbiamo vissuto, ci dice che gli studenti spesso percepiscono i corsi pre-clinici, quelli pieni zeppi di scienza pura, come un ostacolo, quasi un pedaggio da pagare prima di arrivare al “vero” lavoro.

La Prospettiva degli Studenti vs. Quella dei Docenti

Finora, gran parte della ricerca si è concentrata sul perché gli studenti vivano questa specie di scollamento. Ma se provassimo a ribaltare la prospettiva? Cosa ne pensano i docenti, specialmente quelli che sono anche medici, che hanno fatto lo stesso percorso e ora si trovano dall’altra parte della cattedra? Qual è il valore che *loro* attribuiscono a quella formazione biomedica pre-clinica che hanno ricevuto e che ora insegnano?

È proprio quello che ha cercato di esplorare uno studio interessante condotto in due prestigiose università britanniche ad alta intensità di ricerca. Hanno raccolto le storie, le riflessioni di docenti universitari con formazione clinica. Attraverso interviste approfondite, hanno cercato di capire cosa, nel loro percorso formativo, avesse lasciato davvero il segno. E sapete cosa è emerso? Fattori come la presenza di mentori illuminanti, la motivazione personale all’apprendimento (che spesso cambia nel tempo) e l’influenza di modelli di ruolo positivi sono stati cruciali.

Quello che trovo affascinante è che l’analisi suggerisce una cosa fondamentale: la vera comprensione e interiorizzazione di una medicina guidata dalla scienza, basata sull’evidenza, richiede molto più tempo di quello di un corso di laurea. È un processo lungo, che matura con l’esperienza. E, cosa forse ancora più importante per chi progetta i corsi, emerge che un fattore chiave per rendere l’insegnamento più efficace è dare ai docenti stessi il tempo e lo spazio per riflettere sul valore di ciò che insegnano. Sembra banale, ma pensateci: come posso trasmettere l’importanza di qualcosa se io per primo non ho avuto modo di metabolizzarne il senso profondo nel mio percorso?

Ritratto di un docente di medicina esperto che riflette nel suo studio, luce soffusa da una finestra laterale, profondità di campo, obiettivo 50mm prime, atmosfera pensierosa.

Costruire un’Identità Professionale: Un Viaggio Lungo una Vita

Diventare medico, come per altre professioni (ingegneri, avvocati…), non è solo imparare nozioni e tecniche. È un processo di costruzione di un’identità professionale. Si mescolano i valori che ci trasmettono i nostri insegnanti con le nostre esperienze personali, il nostro codice etico. È un viaggio che inizia forse ancor prima di mettere piede all’università e dura tutta la vita. La teoria dell’autodeterminazione ci insegna quanto siano importanti la motivazione, il sentirsi competenti, autonomi e connessi agli altri in questo sviluppo.

Per gli studenti di medicina, questa costruzione dell’identità – le loro convinzioni, attitudini e la comprensione del loro ruolo – si plasma durante tutti gli anni di studio e specializzazione. E il modo in cui uno studente si percepisce influenza direttamente come affronta il curriculum, quanto si sente coinvolto. Ecco perché quella sensazione di “irrilevanza” di alcune materie può essere un problema. Se non vedo come la scienza di base si colleghi ai miei obiettivi futuri di clinico, la mia motivazione a impegnarmi cala.

Il Modello Flexner e i Suoi Limiti

La struttura classica di molti corsi di medicina, quella che deriva dal famoso rapporto Flexner di inizio ‘900, prevede spesso 2 anni di scienze di base seguiti da 2 o 3 anni di formazione clinica. L’idea era: prima impari le fondamenta scientifiche, poi le applichi in corsia. Bello sulla carta, no? Il problema, come evidenziato da diverse ricerche e anche dalle riflessioni raccolte nello studio, è che questa separazione netta non aiuta a trattenere le informazioni a lungo termine né a fare quei collegamenti cruciali tra teoria e pratica clinica. Quante volte ci siamo sentiti dire (o abbiamo pensato): “Ah, ecco a cosa serviva quella reazione biochimica!” solo anni dopo la laurea?

Ci sono prove che suggeriscono che modificare il curriculum, integrando maggiormente la scienza di base e la formazione clinica lungo tutti gli anni del corso, potrebbe essere molto più efficace. Pensate a modelli come il Problem Based Learning (PBL), dove si parte da un problema clinico per andare a cercare le conoscenze scientifiche necessarie, o a percorsi “sandwich” che alternano teoria e pratica fin dall’inizio. Questo aiuterebbe gli studenti a vedere subito l’applicabilità di ciò che studiano, rendendo l’apprendimento più significativo e meno mnemonico.

Studenti di medicina in un laboratorio moderno che lavorano insieme su un modello anatomico, alta definizione, illuminazione chiara e uniforme, obiettivo macro 60mm per dettagli.

Il Clinico-Ricercatore: Una Carriera Possibile (Ma Spesso Ignorata)

La formazione scientifica di base è ovviamente fondamentale per chi sogna una carriera da clinico-ricercatore, quella figura un po’ ibrida che divide il suo tempo tra la cura dei pazienti e la ricerca in laboratorio o sul campo. Ma quanti studenti all’inizio del percorso hanno chiara questa possibilità? Spesso, l’immagine dominante è quella del medico “puro”, e la ricerca sembra qualcosa di lontano, astratto, forse non così “utile” nell’immediato.

E qui torniamo ai docenti. Se loro stessi, pur essendo magari clinici-ricercatori, faticano a comunicare il valore di quella parte scientifica del curriculum, come possiamo aspettarci che gli studenti si appassionino? Ecco perché indagare le percezioni dei docenti sulla loro stessa formazione è così importante. Capire cosa li ha motivati, cosa li ha aiutati a fare quel “click” e a vedere il legame tra scienza e clinica, può darci spunti preziosi per migliorare l’insegnamento e coinvolgere di più gli studenti.

Cosa Ci Dicono le Storie dei Docenti?

Dalle interviste dello studio emergono temi ricorrenti davvero interessanti:

  • Rilevanza per la carriera: Quasi nessuno era entrato a medicina con l’idea di fare ricerca. La priorità era una professione definita. Il cambio di prospettiva è avvenuto dopo, a volte molto dopo, spesso grazie a incontri significativi.
  • Applicabilità alla pratica: Tutti, anche quelli più orientati alla ricerca, hanno ammesso che il collegamento tra le nozioni pre-cliniche e la pratica clinica non era chiaro all’inizio. È servito tempo, esperienza e, a volte, dover ristudiare le basi con una nuova consapevolezza. Un docente ha detto una cosa forte: “Ho imparato un sacco di fatti sospesi nel vuoto, senza contesto. Solo 10 anni dopo, rivedendo la scienza di base per gli esami post-laurea, con un punto di vista clinico, ho capito cosa era rilevante. È stata una revisione, non un apprendimento da zero.”
  • Il carico di lavoro e gli esami: Nessuno si è lamentato della quantità di lavoro (“Sapevamo che medicina era dura”), ma molti hanno ammesso di aver studiato principalmente per superare gli esami, quasi come un “rito di passaggio” per avvicinarsi alla clinica. La disciplina e la resilienza imparate erano viste come più importanti della conoscenza in sé, che spesso svaniva.
  • L’influenza dell’esposizione alla ricerca: L’incontro con team di specialisti appassionati, il ricevere feedback costruttivo (anche se non sempre positivo), l’avere esperienze positive in certi reparti o laboratori ha influenzato enormemente le scelte di carriera. La figura del mentore emerge come potentissima.
  • Difficoltà nel vedere i collegamenti: Tutti hanno sottolineato quanto sarebbe stato utile se i docenti avessero reso più espliciti i legami tra le diverse parti del curriculum. Sapere che alcuni insegnanti erano anche ricercatori attivi avrebbe potuto aprire gli occhi sulla possibilità di una carriera duale.
  • Riflessioni sull’insegnamento: Alcuni docenti, riflettendo sulla loro esperienza da studenti, hanno spontaneamente parlato di come cercano ora di migliorare l’insegnamento: collegando esplicitamente la teoria alla pratica clinica, usando esempi concreti, rendendo le lezioni più interattive, quasi come una “performance” per mantenere viva l’attenzione.
  • Motivazioni iniziali e prestigio: La scelta di medicina è stata spesso influenzata dal desiderio di “aiutare le persone”, ma anche dalla pressione familiare e dal prestigio associato alla professione e alle università più quotate (spesso senza piena consapevolezza che quel prestigio derivasse proprio dalla ricerca).

Fotografia di un gruppo diversificato di studenti di medicina che discutono animatamente attorno a un tavolo in biblioteca, luce naturale da grandi finestre, obiettivo 35mm, bianco e nero per un effetto documentaristico.

Allora, Come Possiamo Migliorare?

Queste riflessioni ci dicono chiaramente che non basta “insegnare la scienza”. Dobbiamo insegnare il perché di quella scienza nel contesto della medicina. Dobbiamo progettare percorsi formativi che rendano i collegamenti evidenti fin da subito, che aiutino gli studenti a costruire significato e non solo a memorizzare fatti.

Questo richiede un cambio di mentalità anche da parte delle istituzioni e dei docenti. Serve collaborazione tra chi insegna le materie di base e chi insegna quelle cliniche, per creare un flusso didattico coerente e integrato. E, come detto prima, serve dare ai docenti il tempo e le risorse per riflettere sulla propria pratica, per diventare non solo trasmettitori di sapere, ma veri e propri modelli di ruolo che incarnano il legame tra scienza e cura.

L’identità del medico, e in particolare quella del clinico-scienziato, si sviluppa nel tempo, attraverso l’esperienza, l’apprendimento significativo e l’interazione con figure ispiratrici. Il nostro compito, come educatori e come sistema formativo, è accompagnare questo sviluppo, aiutando gli studenti a navigare la complessità del sapere medico e a trovare il loro posto unico all’interno di questa professione affascinante e in continua evoluzione. Non si tratta solo di formare bravi tecnici, ma professionisti consapevoli, critici e capaci di far progredire la medicina stessa. E la scienza di base, quella che all’inizio sembra così ostica, è la chiave indispensabile per farlo.

Fonte: Springer

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