Il Valore Nascosto della Fatica: Perché Resistere alle Tentazioni Ci Rende Migliori (e Più Consapevoli)
La Pillola Magica Anti-Tentazione: La Prendereste?
Immaginate per un attimo: state lavorando sodo per raggiungere un obiettivo importante, magari una laurea, un progetto lavorativo, o semplicemente per mantenere uno stile di vita più sano. Lungo il percorso, però, le tentazioni sono ovunque: l’amico che vi chiama per uscire proprio la sera che avevate dedicato allo studio, l’ultima stagione della vostra serie preferita che vi chiama dal divano, persino passare l’aspirapolvere sembra improvvisamente un’attività irresistibile quando siete bloccati su un compito difficile.
Ora, pensate se esistesse una pillola magica. Una pillola gustosa, gratuita, senza effetti collaterali, capace di eliminare *ogni* futura tentazione. Vi permetterebbe di seguire sempre il vostro giudizio migliore, senza mai sentire il minimo desiderio di deviare. La prendereste? Perderemmo qualcosa di prezioso ingoiando quella pillola?
Io credo di sì. E in questo articolo voglio esplorare proprio questo: i valori unici e nascosti che emergono quando scegliamo di resistere direttamente alle tentazioni, valori che non possiamo ottenere semplicemente cercando di evitarle a priori.
Ma Davvero Evitare è Sempre Meglio?
Negli ultimi tempi, sia in psicologia che in filosofia, si è diffusa l’idea che resistere attivamente alle tentazioni (quella che chiameremo “resistenza diretta”) non sia poi così vantaggioso. Anzi, viene spesso descritta come una strategia inefficiente, che non contribuisce al nostro benessere e può persino causare una sorta di “frammentazione mentale”. Alcuni sostengono che quasi tutti i benefici del controllo di sé si possano ottenere semplicemente stando alla larga dalle tentazioni, modificando l’ambiente o coltivando buone abitudini.
Certo, evitare le tentazioni è utile, non lo nego. Ma siamo sicuri che sia tutto lì? Alcuni ricercatori, come Irving e colleghi (2022), hanno già fatto notare che spesso, per riuscire a *evitare* una tentazione futura, dobbiamo prima esercitare una resistenza diretta nel presente (ad esempio, resistere all’impulso di girare a sinistra per non passare davanti alla nostra pasticceria preferita).
Io però voglio andare oltre e guardare la questione da un punto di vista valoriale, axiologico per usare un termine più tecnico. Voglio sostenere che, anche se potessimo magicamente evitare ogni tentazione senza mai dover lottare, perderemmo qualcosa di importante. E la chiave, secondo me, sta nello sforzo.
Lo Sforzo: Un Costo o una Risorsa?
Parliamoci chiaro: resistere a una tentazione richiede sforzo. È una sensazione che conosciamo bene, quella fatica mentale, quella tensione nel contrastare un desiderio immediato. Lo sforzo è qualcosa che facciamo attivamente, una sorta di azione diretta a un obiettivo, spesso accompagnata da quella sensazione di “fatica”.
La cosa curiosa è che abbiamo un rapporto ambivalente con lo sforzo. Da un lato, è spiacevole, faticoso, stressante. Istintivamente, cercheremmo di evitarlo. In psicologia ed economia, si parla spesso dello sforzo come di un “costo intrinseco”: preferiamo fare meno fatica per ottenere la stessa ricompensa (la famosa “legge del minimo sforzo” di Hull).
Dall’altro lato, però, c’è qualcosa di profondamente soddisfacente nello sforzarsi. A volte cerchiamo attivamente esperienze faticose. Pensate agli alpinisti studiati da Loewenstein (1999): affrontano freddo, fatica estrema, pericoli, fame, non per grandi ricompense esterne, ma proprio per il valore che attribuiscono alla difficoltà e alla sfida della scalata. Come si spiega questa apparente contraddizione, questo “paradosso dello sforzo”?

Qualcuno ha suggerito che superare ostacoli renda le attività più piacevoli, perché le cose troppo facili diventano noiose. Può essere vero per un videogioco, ma dubito che resistere alla tentazione di mangiare una fetta di torta sia piacevole di per sé. Anzi, spesso è il contrario.
Il Primo Tesoro Nascosto: Il Significato
Qui entra in gioco una prospettiva affascinante proposta da Inzlicht, Campbell e colleghi. Suggeriscono che lo sforzo abbia due caratteristiche chiave spesso trascurate. La prima è il suo ruolo nel “conferire significato” (meaning imbuing). Nel linguaggio psicologico, il “significato” esistenziale è quella sensazione soggettiva che ci informa su tre aspetti della nostra vita: scopo, coerenza e rilevanza.
Secondo questi studi, quando scegliamo liberamente di sforzarci, questo sforzo è spesso collegato a un senso di significato. Gli alpinisti trovano significato nella difficoltà della scalata. In uno studio di Olivola e Shafir (2013), le persone che facevano più fatica per donare in beneficenza (ad esempio partecipando a una corsa di raccolta fondi) percepivano quella causa come più significativa. Addirittura, in un altro studio (Wu et al., 2023), le persone preferivano svolgere un compito cognitivo faticoso (come il test di Stroop) piuttosto che guardare lo stesso compito completarsi automaticamente, perché lo trovavano più significativo, nonostante l’apparente inutilità del compito in sé!
Sembra quasi che lo sforzo “infonda” significato nelle nostre azioni. E questo, credo, si applica perfettamente alla resistenza alle tentazioni. Torniamo all’esempio della studentessa di dottorato, Ann.
- Scenario A (Ann): Ann lavora alla sua tesi. Affronta continuamente tentazioni (amici, serie TV, procrastinazione) e le supera con sforzo, resistendo attivamente.
- Scenario B (Ann*): Ann* prende la pillola magica. Lavora alla sua tesi senza mai affrontare ostacoli motivazionali, completando tutto con estrema facilità.
Se c’è davvero un legame tra sforzo e significato, è plausibile ipotizzare che Ann percepirà il completamento del suo dottorato come più significativo rispetto ad Ann*. Perché? Perché gli sforzi ripetuti per superare gli ostacoli avranno infuso quel percorso di un senso di significato che ad Ann* mancherà (o sarà presente in misura minore). E avere una vita ricca di significato è, senza dubbio, qualcosa di prezioso, sia che lo consideriamo un bene strumentale (porta felicità) o intrinseco. Il punto chiave è che è proprio l’atto di resistere direttamente, con fatica, a creare questo valore aggiunto.
Certo, potreste obiettare: e se resisto a una tentazione per perseguire un obiettivo che in fondo non mi appartiene, come nel caso di Emily (citato da Nomy Arpaly) che si sforza di finire un dottorato in chimica che odia? In quel caso, lo sforzo aumenterebbe l’alienazione, non il significato. Verissimo. La teoria non dice che *ogni* sforzo crea significato sempre e comunque. Dice che lo sforzo ha la tendenza, in circostanze favorevoli (ad esempio, quando l’obiettivo è allineato con i nostri valori profondi e lo sforzo non è eccessivo), a suscitare sentimenti di significato. Quindi, la resistenza diretta non garantisce sempre valore aggiunto, ma *tende* a farlo, rendendola preziosa in molti casi rispetto alla semplice elusione.
Il Secondo Tesoro Nascosto: Conoscere Se Stessi
Ma non è finita qui. Inzlicht e colleghi sottolineano un’altra funzione importante dello sforzo: quella di segnale. Lo sforzo è facilmente riconoscibile, sia in noi stessi (sentiamo la fatica) sia negli altri (vediamo l’impegno, è difficile da fingere). Questo lo rende un ottimo strumento per comunicare cose come dedizione, intenzione, impegno.
E qui arriva il bello: questi segnali non sono solo per gli altri. Sono, forse soprattutto, per noi stessi. Parliamo di “auto-segnalazione” (self-signalling). A volte compiamo azioni per ottenere informazioni su noi stessi, per confermare (o smentire) credenze che abbiamo sul nostro conto. Magari crediamo di essere ambientalisti, ma abbiamo dubbi; allora compriamo prodotti “green” anche per segnalare a noi stessi che ci teniamo davvero.

Applicando questo alla nostra discussione: gli sforzi che facciamo per resistere alle tentazioni (“sforzi di autocontrollo”) possono funzionare come segnali potenti della solidità del nostro impegno verso gli obiettivi che ci siamo prefissati.
Riprendiamo Ann. Decide di dedicare le sere dei giorni feriali alla tesi. È una risoluzione, un impegno. Ma dentro di sé, potrebbe non essere sicura. “Ci tengo davvero a questo dottorato? È la strada giusta per me? Sarò all’altezza?”. Sono dubbi normalissimi.
Ora, arriva la tentazione: l’amico chiama per un drink il martedì sera. Cedere per una sera non comprometterebbe il dottorato, il costo sembra minimo. Perché resistere? Certo, c’è la risoluzione presa. Ma forse c’è anche un’altra ragione: resistere con successo le fornisce una prova. Una prova, per se stessa, che al suo obiettivo ci tiene davvero. È un modo per zittire i dubbi, per raccogliere evidenze sulla sua reale motivazione, sui suoi valori, sulle sue capacità.
Pensate di nuovo alla pillola magica. Se Ann* la prende, non avrà tentazioni. Ma i dubbi potrebbero restare. “Sto facendo la cosa giusta? Sono portata per la filosofia?”. Come può Ann* trovare risposte? Ripetere a se stessa le ragioni della sua scelta iniziale probabilmente non basterà.
Ann (senza pillola), invece, ha uno strumento in più. Quando il dubbio si unisce alla tentazione (l’invito dell’amico), la sua reazione diventa informativa. Se resiste costantemente, facendo sforzi di autocontrollo, ottiene prove della sua dedizione. Questo può trasformare il dubbio in determinazione. Se invece cede spesso, o resiste solo con sforzi minimi e svogliati, ottiene prove del contrario: forse quell’obiettivo non è davvero allineato con ciò che vuole. Questa consapevolezza la spinge a riconsiderare le sue scelte.
In entrambi i casi, osservando e interpretando i propri sforzi di autocontrollo (o la loro mancanza), Ann impara qualcosa di fondamentale su se stessa: sui suoi valori, le sue capacità, il suo carattere. Acquisisce quella che Cassam (2014) chiama “autoconoscenza sostanziale”. E questa conoscenza è incredibilmente preziosa. Senza lo sforzo della resistenza diretta, questo canale di autoscoperta sarebbe precluso.
Tiriamo le Somme: Perché Quella Fatica Conta
Quindi, tornando alla domanda iniziale: perderemmo qualcosa prendendo la pillola anti-tentazione? Assolutamente sì. Resistere direttamente alle tentazioni, con tutto lo sforzo che comporta, ci offre almeno due doni preziosi che la semplice elusione non può darci:
- Un potenziale aumento del senso di significato nelle nostre attività e nella nostra vita.
- Una forma unica e preziosa di autoconoscenza, che ci rivela la vera natura dei nostri impegni e desideri.
Certo, questa è una prospettiva basata su ricerche psicologiche ancora in evoluzione e su riflessioni filosofiche che meritano approfondimento. Ma credo metta in luce un aspetto cruciale spesso ignorato: la fenomenologia della resistenza, come la viviamo, come la sentiamo.
Forse, come disse l’economista e giornalista Walter Bagehot: “È bene essere senza vizi, ma non è bene essere senza tentazioni”. Quella fatica, quella lotta interiore, alla fine, potrebbe essere molto più preziosa di quanto pensiamo.
Fonte: Springer
