Decisioni Condivise in Oncologia: Ma i Pazienti Capiscono Davvero le Domande del Questionario SDM-Q-9?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che mi sta molto a cuore e che riguarda un aspetto fondamentale della cura, specialmente in ambiti delicati come l’oncologia: la decisione condivisa (o Shared Decision-Making, SDM, se preferite l’inglese). È quel processo bellissimo, almeno in teoria, in cui medico e paziente collaborano, scambiano informazioni, esprimono preferenze e arrivano insieme a una scelta terapeutica che vada bene a entrambi. Diciamocelo, è considerato un po’ il “non plus ultra” della cura centrata sul paziente.
Ma come facciamo a sapere se questo processo avviene davvero? Beh, usiamo degli strumenti, come i questionari. Uno dei più famosi è l’SDM-Q-9, un questionario di 9 domande pensato proprio per chiedere ai pazienti come hanno vissuto il processo decisionale durante una visita medica. È usato tantissimo, tradotto in un sacco di lingue (ben 24!), e sulla carta sembra funzionare bene: buona affidabilità, buona accettazione da parte dei pazienti.
Però, c’è un “ma”. Siamo sicuri che quando un paziente risponde a quelle 9 domande, stia interpretando l’item esattamente come lo intendevamo noi ricercatori quando lo abbiamo creato? Capisce davvero cosa gli stiamo chiedendo? Questa è la domanda sulla validità del processo di risposta, un concetto fondamentale che, ammettiamolo, a volte trascuriamo un po’. È un po’ come chiedere: “Stiamo parlando la stessa lingua?”.
La nostra indagine: entrare nella testa dei pazienti oncologici
Proprio per rispondere a questa domanda, abbiamo deciso di fare uno studio un po’ particolare. Invece di limitarci a raccogliere numeri e punteggi, siamo andati a parlare direttamente con i pazienti. Abbiamo coinvolto 11 pazienti seguiti in un centro oncologico universitario in Germania (l’University Cancer Center Hamburg). Si trattava di persone che avevano avuto un colloquio medico riguardante la loro malattia oncologica al massimo due settimane prima.
Cosa abbiamo fatto? Abbiamo usato una tecnica chiamata intervista cognitiva. In pratica, abbiamo chiesto ai pazienti di compilare il questionario SDM-Q-9 “pensando ad alta voce”, cioè verbalizzando tutto quello che passava loro per la testa mentre leggevano e rispondevano a ogni domanda. Poi, noi intervistatori (sotto la supervisione di esperti, ovviamente!) facevamo domande mirate per approfondire: “Cosa significa per te questa domanda?”, “Cosa ti farebbe dare il punteggio massimo o minimo?”, “Hai trovato difficoltà?”.
L’obiettivo era proprio capire il loro processo mentale, le loro interpretazioni, le loro eventuali fatiche nel rispondere. Abbiamo registrato tutto, trascritto e poi analizzato i contenuti con un metodo rigoroso (l’analisi qualitativa del contenuto secondo Mayring).
Cosa abbiamo scoperto? La necessità di una “scelta” reale
Una delle prime cose emerse in modo prepotente è stata questa: per poter rispondere sensatamente al questionario SDM-Q-9, i pazienti sentivano la necessità di avere avuto una scelta reale tra più opzioni terapeutiche. Se percepivano che c’era una sola strada percorribile, o se per loro scartare un’opzione terapeutica (anche se teoricamente disponibile) non era contemplabile data la gravità della malattia, allora rispondere diventava difficile, quasi senza senso.
Questa è una cosa importante, perché l’SDM si basa proprio sull’esistenza di un “equipoise”, cioè di un’incertezza su quale sia l’opzione migliore tra più alternative valide. Se questa condizione manca (o il paziente non la percepisce), il questionario rischia di misurare… beh, non si sa bene cosa.
Un’altra difficoltà emersa è stata quella di valutare un singolo incontro medico. Molti pazienti tendevano a mescolare le esperienze avute con quel medico in più occasioni, piuttosto che focalizzarsi sull’ultima visita. Questo è comprensibile, perché la relazione e il processo decisionale spesso si costruiscono nel tempo, ma complica la misurazione puntuale che il questionario vorrebbe fare.
Le domande del questionario: luci e ombre
Passando alle singole domande (i famosi 9 item), la buona notizia è che per la maggior parte di esse (item 1, 3, 4, 7, 8, 9), l’interpretazione dei pazienti corrispondeva abbastanza bene a quello che era l’intento teorico dietro la domanda. Ad esempio, quando si chiedeva se il medico avesse spiegato le opzioni (item 4) o aiutato a pesare pro e contro (item 7), i pazienti capivano cosa si intendeva.
Tuttavia, sono emerse delle criticità, soprattutto per tre item:
- Item 2 (Condividere la decisione): Qui c’è stato il “mismatch” più evidente. La teoria dietro questo item vorrebbe che il medico dichiarasse esplicitamente che la decisione va presa insieme, come partner alla pari. Ma i pazienti intervistati non ritenevano così necessario questo “invito formale”. Per loro, contava di più avere l’opportunità concreta di partecipare. Molti facevano fatica a valutare questo item perché, secondo loro, il medico magari non l’aveva chiesto esplicitamente proprio perché non lo ritenevano fondamentale. Questo item è risultato il più problematico.
- Item 5 (Supportare la comprensione): Qui la discordanza era più sottile e legata alla formulazione. L’item chiede se il medico si è assicurato che il paziente avesse capito tutto. La teoria sottostante, però, includerebbe anche l’indagare le aspettative del paziente. I pazienti si concentravano sulla comprensione (come chiede l’item), quindi la “colpa” del mismatch parziale è più della formulazione dell’item che non copre tutta la teoria, che non dell’interpretazione del paziente.
- Item 6 (Esplorare le preferenze): Simile all’item 5. L’item si focalizza sul chiedere le preferenze del paziente, mentre la teoria vorrebbe che si considerassero le preferenze di entrambe le parti (medico e paziente). Anche qui, i pazienti rispondevano correttamente a quanto chiesto dall’item, ma l’item stesso non copre l’intera base teorica.
Un’altra cosa interessante è stata la variabilità nei “content anchors”, cioè cosa spingeva un paziente a dare il punteggio massimo o minimo. A volte, la stessa situazione o comportamento del medico veniva descritta da un paziente come meritevole del massimo punteggio, e da un altro come degna del minimo! Questo suggerisce che la percezione è molto soggettiva e che un punteggio alto sull’SDM-Q-9 non si traduce automaticamente in una “performance” oggettivamente eccellente del medico vista da un osservatore esterno. E infatti, studi quantitativi mostrano scarse correlazioni tra l’SDM-Q-9 e strumenti di valutazione basati sull’osservazione.
Altre difficoltà e riflessioni
I pazienti hanno segnalato anche altre piccole (o grandi) difficoltà:
- Il termine tedesco per SDM (“Partizipative Entscheidungsfindung”) risultava un po’ ostico.
- Alcuni sentivano il bisogno di spiegare meglio le loro risposte, non solo barrare una casella.
- Il questionario non è specifico per l’oncologia.
- C’era una percezione di forte somiglianza e sovrapposizione tra gli item 6 (preferenze), 7 (pesare le opzioni) e 8 (arrivare a una decisione), quasi fossero difficilmente separabili.
- Un dubbio legittimo: come fa un paziente a sapere se ha ricevuto informazioni complete sui pro e contro (item 4)?
Cosa ci portiamo a casa da questo studio?
Questo studio, pur con i suoi limiti (piccolo numero di partecipanti, un solo centro, ecc.), ci ha dato delle indicazioni preziose. Ci dice che l’SDM-Q-9, pur essendo uno strumento valido per molti aspetti, va usato con cautela e consapevolezza.
Primo: Il contesto è tutto. Somministrare il questionario ha senso soprattutto quando c’è stata effettivamente una scelta tra più opzioni. Forse bisognerebbe verificarlo prima, o aggiungere un’opzione di risposta tipo “non applicabile”.
Secondo: L’item 2 sembra davvero problematico e merita ulteriori indagini, forse andrebbe rivisto o eliminato.
Terzo: La parziale incongruenza tra formulazione e teoria per gli item 5 e 6 andrebbe considerata.
Quarto: L’interpretazione dei punteggi deve tenere conto della soggettività del paziente e non va presa come misura diretta e oggettiva della competenza del medico nell’SDM.
Insomma, anche per strumenti consolidati e usatissimi come l’SDM-Q-9, fermarsi a chiedere ai diretti interessati – i pazienti – come vivono e interpretano le domande è fondamentale. È un passo cruciale per assicurarci che stiamo misurando davvero quello che vogliamo misurare e per migliorare continuamente i nostri strumenti di valutazione della qualità delle cure. La strada per capire a fondo il processo di risposta è ancora lunga, ma abbiamo acceso una luce importante.
Fonte: Springer