Un medico con mascherina protettiva e guanti tiene in mano una siringa con il vaccino COVID-19, pronto per l'inoculazione, simboleggiando la speranza e la ricerca scientifica contro il Long COVID. Portrait photography, prime lens, 35mm, depth of field, duotone blu e bianco per un effetto pulito e medico.

Vaccino COVID e Long COVID: Buone Notizie (con Cautela) da uno Studio Americano

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che, ahimè, tocca ancora da vicino molti di noi: il Long COVID. Sapete, quella serie di sintomi persistenti che possono rendere la vita un vero percorso a ostacoli dopo aver contratto il SARS-CoV-2. E una domanda che molti si sono posti, soprattutto all’inizio della campagna vaccinale, era: “Ma se ho il Long COVID e mi vaccino, cosa succede? Miglioro, peggioro, o non cambia nulla?”.

Beh, mettere un po’ di luce su questo interrogativo è esattamente ciò che ha cercato di fare uno studio prospettico, i cui risultati sono stati pubblicati su Springer. Anche se il campione è piccolo, solo 16 persone “vaccine-naïve” (cioè che non avevano mai ricevuto un vaccino COVID prima) con Long COVID, le osservazioni sono decisamente interessanti e meritano una chiacchierata.

Lo studio: un’occhiata da vicino

Immaginatevi questi 16 partecipanti, tutti con una storia di Long COVID, che decidono di fare la prima dose del vaccino. I ricercatori li hanno seguiti passo passo, raccogliendo dati sui loro sintomi e analizzando il loro sangue prima della vaccinazione e poi a 2, 6 e 12 settimane dopo la prima dose. L’obiettivo? Capire se e come il vaccino influenzasse i sintomi del Long COVID e il loro profilo immunitario.

È importante sottolineare che lo studio è stato interrotto prima del previsto per difficoltà nel reclutare persone eleggibili – evidentemente, trovare chi soffriva di Long COVID e non si era ancora vaccinato stava diventando una rarità. Ma quei 16 partecipanti ci hanno comunque fornito dati preziosi.

Come sono cambiati i sintomi? Un quadro variegato

Allora, cosa è successo a queste persone dopo il vaccino? A 12 settimane dalla prima dose, il quadro era il seguente:

  • 10 partecipanti su 16 (il 62%) hanno riferito un miglioramento del loro stato di salute generale. Una bella notizia!
  • 3 partecipanti (il 19%) non hanno notato nessun cambiamento significativo.
  • 3 partecipanti (il 19%) hanno invece riferito un peggioramento. È importante notare che due di questi avevano inizialmente riportato un miglioramento transitorio dopo il vaccino, per poi peggiorare. Uno di questi tre, purtroppo, è stato ricoverato due volte per dolore toracico (dopo ogni dose), un problema che, a quanto pare, aveva già sperimentato poco dopo l’infezione acuta da COVID-19, con una probabile miocardite.

Quindi, la maggioranza ha visto un miglioramento o è rimasta stabile, il che è incoraggiante. Certo, i casi di peggioramento ci ricordano che ogni individuo reagisce a modo suo e che il Long COVID è una bestia complessa.

Analizzando più nel dettaglio, i ricercatori hanno visto una tendenza alla diminuzione del “peso” dei sintomi, sia in termini di disagio fisico che di impatto sulla vita sociale e familiare. Ad esempio, prima del vaccino, i partecipanti avevano in media 23 sintomi persistenti. Dopo la vaccinazione, c’è stata una tendenza alla risoluzione o al miglioramento di diversi di questi sintomi per molti di loro.

Cosa è successo al sistema immunitario?

Qui la faccenda si fa ancora più tecnica, ma cercherò di semplificare. Il vaccino, come ci si aspetterebbe, ha fatto il suo lavoro nel “risvegliare” il sistema immunitario contro il SARS-CoV-2. Infatti, nella maggior parte dei partecipanti si è osservato:

  • Un aumento significativo degli anticorpi IgG specifici contro la proteina Spike del virus (la “chiave” che il virus usa per entrare nelle nostre cellule). Questi anticorpi sono quelli che ci proteggono dall’infezione o ne mitigano la gravità. I livelli hanno raggiunto un picco a 6 settimane, per poi calare leggermente a 12 settimane, ma rimanendo comunque più alti rispetto a prima del vaccino.
  • Un’espansione delle cellule T specifiche per il SARS-CoV-2. Le cellule T sono un altro braccio fondamentale del nostro esercito immunitario, capaci di riconoscere e distruggere le cellule infettate.

Interessante notare che non ci sono stati cambiamenti significativi nelle reattività anticorpali contro altri virus comuni, come quelli della famiglia degli herpesvirus (tipo Epstein-Barr, EBV), né contro auto-antigeni (cioè molecole del nostro stesso corpo). Questo suggerisce che il vaccino ha agito in modo mirato contro il SARS-CoV-2, senza scatenare reazioni “collaterali” su quel fronte, almeno nei tempi osservati.

Un'immagine al microscopio elettronico a scansione che mostra linfociti T (in falsi colori vivaci come blu e verde) che interagiscono con una cellula infettata dal virus SARS-CoV-2 (in rosso). Macro lens, 100mm, high detail, precise focusing, controlled lighting, per evidenziare l'interazione cellulare.

La persistenza virale o frammenti virali (“viral ghost”) sono una delle ipotesi per spiegare il Long COVID. L’idea è che il vaccino, potenziando la risposta immunitaria, potrebbe aiutare a eliminare questi residui virali. Sebbene questo studio non possa confermarlo direttamente, l’aumento delle risposte specifiche anti-SARS-CoV-2 va in quella direzione teorica.

Biomarcatori: una possibile chiave di lettura per il futuro?

Forse la parte più intrigante dello studio riguarda i cosiddetti biomarcatori plasmatici, cioè molecole misurabili nel sangue che potrebbero darci indizi su come una persona risponderà. I ricercatori hanno analizzato ben 162 di queste molecole!

E cosa hanno scoperto? Che alcune di queste “firme immunitarie” nel plasma erano associate all’esito dei sintomi dopo la vaccinazione:

  • Livelli basali più alti di sIL-6R (il recettore solubile dell’interleuchina-6, una proteina con un ruolo nel modulare l’infiammazione, spesso con effetti anti-infiammatori) erano associati a un miglioramento dei sintomi. In pratica, chi aveva più sIL-6R prima del vaccino, stava meglio dopo.
  • Al contrario, livelli stabilmente elevati di IFN-β (interferone-beta, una citochina pro-infiammatoria importante nella risposta antivirale) e di CNTF (fattore neurotrofico ciliare, un neuropeptide) erano associati a un mancato miglioramento o addirittura a un peggioramento.

Queste scoperte sono preliminari, data la dimensione ridotta del campione, ma aprono scenari affascinanti. Immaginate se, in futuro, potessimo analizzare questi biomarcatori per prevedere chi potrebbe beneficiare maggiormente della vaccinazione in caso di Long COVID, o chi potrebbe aver bisogno di un approccio diverso.

Un profilo citochinico persistentemente elevato, specialmente per quanto riguarda gli interferoni e i neuropeptidi, in chi non migliora, potrebbe suggerire un processo infiammatorio o virale ancora attivo che il vaccino da solo non riesce a risolvere, o forse una disregolazione immunitaria più radicata. L’sIL-6R, d’altro canto, potrebbe rappresentare un meccanismo protettivo o di risoluzione dell’infiammazione.

Limiti e prospettive future

Come dicevo, lo studio è piccolo e non aveva un gruppo di controllo (cioè persone con Long COVID non vaccinate seguite nello stesso periodo). Questo rende difficile dire con certezza assoluta che i cambiamenti osservati siano dovuti esclusivamente al vaccino e non, ad esempio, al naturale decorso del Long COVID, che può avere alti e bassi. Inoltre, i partecipanti dovevano recarsi a New Haven per i prelievi, il che potrebbe aver selezionato persone con una forma di Long COVID non estremamente invalidante o con maggiori risorse economiche e flessibilità lavorativa.

Nonostante questi limiti, lo studio è prezioso perché ha esaminato una popolazione sempre più rara (vaccine-naïve con Long COVID) e ha combinato dati sui sintomi con analisi immunologiche approfondite. È un tassello in più nel complesso puzzle del Long COVID.

In conclusione, per la maggior parte dei partecipanti a questo piccolo studio, la vaccinazione anti-COVID-19 è stata associata a un miglioramento o a nessuna variazione dei sintomi del Long COVID, insieme a una robusta risposta immunitaria specifica per il virus. I biomarcatori come sIL-6R, IFN-β e CNTF emergono come candidati interessanti da studiare ulteriormente per capire meglio chi risponde e perché.

C’è ancora tanta strada da fare, servono studi più ampi e con gruppi di controllo per confermare queste osservazioni e per capire appieno l’impatto della vaccinazione (e di eventuali richiami) sulla salute di chi convive con il Long COVID. Ma ogni passo avanti, anche piccolo, ci avvicina a risposte più chiare e, speriamo, a strategie terapeutiche più efficaci. Incrociamo le dita!

Una scienziata in un laboratorio di ricerca osserva attentamente una provetta contenente un campione di sangue, con strumentazione high-tech sullo sfondo. Portrait photography, zoom lens, 35mm, depth of field, luce soffusa che illumina il viso concentrato della ricercatrice.

Fonte: Springer

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