Immagine macro ad alta definizione di una singola microcapsula di plastica traslucida, parzialmente erosa e circondata da batteri stilizzati su uno sfondo acquatico scuro e sfocato. Lente macro 100mm, illuminazione drammatica laterale che evidenzia la texture della capsula e i batteri, messa a fuoco selettiva sulla capsula.

Microplastiche: Davvero Biodegradabili? Il Mistero Svelato dai Test (e Perché Dobbiamo Guardare Oltre la CO2!)

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta molto a cuore e che, ammettiamolo, ci riguarda tutti da vicino: le microplastiche. Ormai le troviamo ovunque, dalle cime delle montagne agli abissi oceanici, e la preoccupazione per i loro effetti sull’ambiente e sulla nostra salute è alle stelle.

L’Europa Corre ai Ripari (Ma è Abbastanza?)

Per fortuna, qualcosa si muove. La Commissione Europea ha deciso di dare una stretta all’aggiunta intenzionale di microplastiche in prodotti come detergenti, cosmetici a risciacquo, fertilizzanti a rilascio controllato… insomma, in un sacco di cose che usiamo quotidianamente. C’è però una scappatoia: se le particelle sono fatte di polimeri che soddisfano certi criteri di biodegradabilità, allora via libera.

E qui casca l’asino. Come si fa a dimostrare che una microplastica è davvero biodegradabile? Il criterio principale, secondo le linee guida ufficiali (come le famose OECD 301B citate nel regolamento REACH), è il tasso di mineralizzazione. In parole povere, si misura quanta anidride carbonica (CO2) viene prodotta quando i microbi “mangiano” il polimero. Se si raggiunge almeno il 60% di mineralizzazione in un periodo definito (tipo 28-60 giorni), il polimero passa il test. Semplice, no? Beh, non proprio.

Il Problema dei Test Standard

Il punto è che questi test sono stati pensati e validati per sostanze semplici, solubili, a basso peso molecolare. Applicarli così come sono a particelle polimeriche complesse, come le microplastiche, è un po’ come usare le istruzioni di montaggio di una bicicletta per assemblare un’astronave. Molti prodotti, poi, sono un mix di componenti diversi, con forme, dimensioni e composizioni chimiche variegate, che potrebbero degradarsi in modi e tempi differenti. Il rischio di interpretare male i risultati è altissimo.

Dal punto di vista scientifico, la biodegradazione di un polimero è un processo a più fasi:

  • Biodeterioramento: il materiale inizia a rovinarsi in superficie.
  • Depolimerizzazione: le lunghe catene polimeriche si spezzano in pezzi più piccoli.
  • Bioassimilazione: i microbi assorbono questi pezzi più piccoli.
  • Mineralizzazione: i microbi trasformano completamente i pezzi assorbiti in CO2, acqua e nuova biomassa.

I test attuali si concentrano quasi solo sull’ultima fase, la mineralizzazione. Ma che ne è delle altre? Trascurare il deterioramento, la frammentazione (quella che viene chiamata degradazione primaria, anche se manca ancora una definizione ufficiale chiara) e l’assimilazione potrebbe darci un quadro incompleto, facendoci sottovalutare la persistenza delle microplastiche o la formazione di frammenti ancora più piccoli e potenzialmente problematici.

Primo piano macro di frammenti di microplastica colorati e di varie forme sparsi su un terreno scuro e umido. Lente macro 90mm, alta definizione, messa a fuoco precisa su alcuni frammenti, illuminazione controllata da studio per evidenziare le texture.

Il Nostro Esperimento: Microcapsule Sotto la Lente (Radioattiva!)

Per capirci qualcosa di più, abbiamo deciso di mettere alla prova un tipo specifico di microplastica: delle microcapsule di poliurea (PUA), simili a quelle usate per incapsulare pesticidi. La sfida qui è doppia: il polimero che forma il guscio della capsula è solo una piccolissima parte del prodotto (meno dell’1%!), il resto è principalmente acqua e un solvente organico contenuto all’interno. Come facciamo a misurare la degradazione specifica del guscio senza essere ingannati dal resto?

La soluzione è stata usare un trucco: la marcatura radioattiva. Abbiamo sintetizzato le nostre microcapsule usando un monomero (un “mattoncino” base del polimero) contenente Carbonio-14 (¹⁴C), un isotopo radioattivo. In questo modo, potevamo tracciare specificamente la CO2 (¹⁴CO₂) derivante dalla degradazione del *solo* polimero, con una sensibilità e una specificità pazzesche.

Abbiamo quindi preso la nostra sospensione di microcapsule ¹⁴C-marcate e l’abbiamo sottoposta al test standard OECD 301B, con qualche modifica. Abbiamo usato un inoculo microbico filtrato (per ridurre le interferenze della matrice) e abbiamo prolungato un po’ i tempi. Oltre a misurare la ¹⁴CO₂ prodotta, abbiamo anche monitorato come cambiava la distribuzione delle dimensioni delle particelle nel tempo, usando una serie di filtrazioni sequenziali.

Risultati Iniziali: Sembrava Funzionare…

All’inizio, i risultati sembravano incoraggianti. Dopo 28 giorni, circa il 19% della radioattività applicata era stata convertita in ¹⁴CO₂. Non male, considerando che la poliurea è un materiale piuttosto robusto! Abbiamo pensato: forse le modifiche che avevamo introdotto nella struttura del polimero (inserendo legami estere, noti per essere più facilmente “attaccabili” dall’acqua e dai microbi) stavano funzionando, rendendolo più biodegradabile.

Ma la scienza è fatta di dubbi e verifiche. E la filtrazione sequenziale ci ha riservato una sorpresa. All’inizio del test (giorno 0), la radioattività si divideva quasi equamente tra due frazioni: circa il 55% era trattenuto da un filtro da 12 µm (quindi particelle più grandi, presumibilmente le nostre microcapsule intatte) e quasi il 50% passava attraverso tutti i filtri, finendo nel filtrato finale (< 0.2 µm). Quest'ultima frazione rappresentava quindi materiale molto piccolo, probabilmente molecole o oligomeri solubili. Scienziato in camice bianco che osserva attentamente una beuta contenente un liquido torbido in un incubatore da laboratorio. Sullo sfondo, altre attrezzature scientifiche. Luce da laboratorio controllata, profondità di campo media, obiettivo prime 50mm, focus sulla beuta.

Dopo 28 giorni, la quantità di ¹⁴CO₂ prodotta (il 19%) corrispondeva quasi perfettamente alla diminuzione della radioattività nella frazione più piccola (< 0.2 µm), che era scesa di circa il 18%. Sembrava quindi che la mineralizzazione provenisse quasi interamente da questa frazione solubile. Curiosamente, anche la frazione più grande (> 12 µm) era diminuita un po’ (circa del 12%). Questo ci ha fatto chiedere: anche le capsule si stanno degradando in frammenti più piccoli o addirittura mineralizzando?

Il Colpo di Scena: Non Era la Plastica a Degradarsi!

Per vederci chiaro, abbiamo fatto un secondo esperimento. Questa volta, prima di iniziare il test di biodegradazione, abbiamo separato fisicamente la sospensione iniziale in due frazioni: quella trattenuta dal filtro da 12 µm (> 12 µm, le nostre capsule) e quella che passava attraverso (< 12 µm, che include la frazione solubile). Poi abbiamo testato la biodegradabilità di queste due frazioni separatamente. E qui è arrivato il colpo di scena: la frazione < 12 µm ha mostrato una mineralizzazione simile a quella della sospensione originale. Ma la frazione > 12 µm, quella contenente le nostre microcapsule di poliurea ¹⁴C-marcate… non ha mostrato praticamente nessuna mineralizzazione! Zero ¹⁴CO₂ prodotta.

Era chiaro: la biodegradazione che avevamo osservato nel primo esperimento non era dovuta alle microcapsule stesse, ma a qualcos’altro presente nella sospensione, qualcosa di molto più piccolo e solubile.

L’Identikit del “Colpevole”

Ma cos’era questo “qualcos’altro”? Per scoprirlo, abbiamo analizzato la frazione ultra-filtrata (< 0.2 µm) della sospensione originale usando una tecnica super potente: la cromatografia liquida ad altissime prestazioni accoppiata alla spettrometria di massa ad alta risoluzione e a un rilevatore di radioattività (UHPLC-HRMS-radio). L'analisi ha rivelato la presenza di una molecola specifica ¹⁴C-marcata: l'acido aminocaproico. Questa molecola è un derivato ossidato del monomero ¹⁴C-esamimetilendiammina che avevamo usato per sintetizzare il polimero. In pratica, era un residuo di sintesi, rimasto “intrappolato” nella sospensione. E indovinate un po’? L’acido aminocaproico è classificato come facilmente biodegradabile (mineralizza al 76% in 28 giorni secondo un altro test standard, l’OECD 301D).

Abbiamo stimato che questo acido aminocaproico costituisse oltre l’80% della radioattività presente nella frazione solubile (< 0.2 µm), che a sua volta rappresentava circa il 50% della radioattività totale della sospensione. Facendo due conti, circa il 41% della radioattività totale della nostra sospensione era dovuta a questo residuo solubile e biodegradabile! Ecco spiegata la mineralizzazione osservata: non era la microplastica, ma un suo "parente" molecolare rimasto dalla produzione. Schema grafico che illustra il processo di filtrazione sequenziale: un liquido contenente particelle di diverse dimensioni passa attraverso filtri con pori progressivamente più piccoli (12µm, 5µm, 0.45µm, 0.2µm), separando le particelle in base alla loro dimensione. Stile infografica pulita.

Lezioni Imparate e la Strada da Seguire

Questa storia ci insegna una lezione fondamentale: quando si testa la biodegradabilità delle microplastiche, bisogna stare attentissimi alle impurità! Residui di sintesi, additivi, o altri componenti del prodotto possono essere facilmente scambiati per il polimero stesso e portare a conclusioni completamente sbagliate sulla sua reale degradabilità.

Quindi, cosa fare? Le raccomandazioni che emergono da questo studio sono due, e mi sembrano cruciali:

  1. Purificare o Caratterizzare a Fondo: Prima di fare un test di biodegradabilità, il materiale plastico andrebbe purificato il più possibile per eliminare contaminanti. Se non è possibile, bisogna almeno caratterizzare in modo super dettagliato la composizione del prodotto che si sta testando, per sapere cosa c’è dentro e poter interpretare correttamente i risultati. Nel nostro caso, abbiamo dimostrato che una semplice filtrazione con lavaggio può isolare le microcapsule.
  2. Diversificare gli Endpoint: Guardare Oltre la CO2: Non possiamo basarci solo sulla mineralizzazione. È fondamentale monitorare anche altri parametri, come i cambiamenti nella distribuzione delle dimensioni delle particelle. Questo ci dà informazioni sulla frammentazione (la degradazione primaria) e ci aiuta a capire meglio l’intero processo. Integrare analisi sulla morfologia (come cambia la forma delle particelle), sulla chimica della superficie e sulla possibile formazione di prodotti intermedi ci darebbe un quadro molto più completo e affidabile.

La marcatura con ¹⁴C si è rivelata uno strumento potentissimo per svelare questi meccanismi e distinguere la degradazione del polimero da quella di altri componenti, specialmente in prodotti complessi. Certo, è una tecnica costosa e richiede laboratori specializzati, quindi non è praticabile per i test di routine. Ma è fondamentale per la ricerca e per validare nuovi metodi.

In futuro, dovremo esplorare e implementare tecniche analitiche alternative che possano darci informazioni simili senza bisogno della radioattività. Tecniche come la spettroscopia infrarossa (FTIR) o Raman, e la microscopia elettronica a scansione (SEM), potrebbero aiutarci a seguire i cambiamenti chimici e morfologici delle microplastiche durante la degradazione.

Immagine al microscopio elettronico a scansione (SEM) in bianco e nero che mostra particelle di microplastica con superfici irregolari e segni di erosione batterica. Alta magnificazione, dettagli superficiali molto evidenti.

In Conclusione

Insomma, la faccenda della biodegradabilità delle microplastiche è più complicata di quanto sembri. I test standard attuali, focalizzati solo sulla produzione di CO2, rischiano di darci risposte parziali o addirittura fuorvianti, soprattutto a causa delle impurità e della complessità dei materiali. È ora di cambiare approccio: dobbiamo purificare meglio i campioni, caratterizzarli a fondo e, soprattutto, diversificare i parametri che misuriamo, andando a guardare anche la frammentazione e i cambiamenti fisici e chimici delle particelle. Solo così potremo avere una valutazione davvero accurata e affidabile della sorte delle microplastiche nell’ambiente e prendere decisioni informate per proteggerlo.

Fonte: Springer

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