Immagine concettuale che mostra una mano umana che lascia cadere una polvere grigio-metallica scintillante (simbolo delle Terre Rare) in acqua limpida contenuta in un becher da laboratorio, l'acqua inizia a intorbidirsi leggermente nella zona di caduta. Illuminazione da laboratorio, obiettivo 50mm, profondità di campo media per mantenere a fuoco sia la mano che l'acqua.

Terre Rare: Miracolo Tecnologico o Bomba Ecologica per i Nostri Fiumi? Lo Sveliamo con Daphnia magna!

Ciao a tutti! Guardatevi intorno: smartphone, computer, auto elettriche, turbine eoliche… la tecnologia fa passi da gigante e permea ogni aspetto della nostra vita. Fantastico, vero? Ma vi siete mai chiesti cosa c’è *dentro* questi gioiellini hi-tech? Spesso, troviamo ingredienti un po’ speciali, quasi “magici”: le Terre Rare (o REE, dall’inglese Rare Earth Elements).

Cosa sono le Terre Rare e perché dovremmo preoccuparcene?

Non fatevi ingannare dal nome, non sono poi così “rare” nella crosta terrestre. Si tratta di un gruppo di 17 elementi chimici (15 lantanidi più scandio e ittrio) con proprietà uniche, fondamentali per magneti potentissimi, batterie efficienti, schermi luminosi e tanto altro. Senza di loro, addio a gran parte della tecnologia moderna a cui siamo abituati.

Il problema? Tutta questa tecnologia diventa obsoleta velocemente. E così, produciamo montagne di rifiuti elettronici (e-waste). Pensate che dal 2014 la produzione globale di e-waste è cresciuta di oltre 9 milioni di tonnellate e si prevede che raddoppierà entro il 2030, arrivando a quasi 75 milioni di tonnellate! Una cifra spaventosa.

E qui casca l’asino. Smaltire questi rifiuti non è semplice. Metodi antiquati e pericolosi, come bruciare all’aperto le schede elettroniche, liberano nell’ambiente un cocktail micidiale di sostanze tossiche: diossine, furani, metalli pesanti e, appunto, le nostre Terre Rare. Questi elementi, che in natura si trovano in concentrazioni bassissime (parliamo di nanogrammi o microgrammi per litro in fiumi e laghi), a causa dell’attività industriale, mineraria e dello smaltimento scorretto, stanno aumentando la loro presenza nell’ambiente.

Una montagna di rifiuti elettronici (e-waste) ammassati in una discarica a cielo aperto, con dettagli visibili di schede madri, cavi e monitor rotti. Illuminazione drammatica del tardo pomeriggio. Obiettivo grandangolare 24mm per catturare l'ampiezza del problema, focus nitido.

L’allarme degli scienziati e il nostro piccolo “tester”

Da tempo, noi ricercatori ci chiediamo: che impatto hanno queste Terre Rare sugli ecosistemi, specialmente quelli acquatici? Studi precedenti hanno già mostrato effetti preoccupanti su diverse creature, da batteri luminosi (Aliivibrio fischeri) ad alghe (Raphidocelis subcapitata, Ulva lactuca), fino a organismi più complessi come ostriche (Crassostrea gigas) e pesci zebra (Danio rerio). Si parla di crescita inibita, malformazioni, problemi di movimento… insomma, niente di buono.

Il guaio è che i risultati degli studi spesso non combaciano. Le concentrazioni tossiche sembrano variare tantissimo a seconda della specie, ma anche del tipo di acqua usata negli esperimenti (la sua composizione chimica, il pH) e della forma chimica specifica della Terra Rara. Un bel rompicapo! Serve chiarezza, servono dati affidabili e standardizzati per capire davvero il rischio.

Ed è qui che entra in gioco la nostra piccola, ma fondamentale, protagonista: la Daphnia magna. È un minuscolo crostaceo d’acqua dolce, una specie di “pulce d’acqua”, considerata un organismo modello in ecotossicologia. Perché? Perché è molto sensibile a diverse sostanze inquinanti ed è relativamente facile da allevare in laboratorio in condizioni controllate. È un po’ il nostro “canarino nella miniera” per l’ambiente acquatico.

L’esperimento: le Terre Rare sotto la lente d’ingrandimento

Cosa abbiamo fatto, quindi? Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo deciso di testare la tossicità acuta (cioè gli effetti a breve termine, 48 ore) di ben 16 diverse Terre Rare su Daphnia magna. Abbiamo usato: lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb), lutezio (Lu), scandio (Sc) e ittrio (Y). Praticamente tutta la famiglia!

Abbiamo preparato diverse concentrazioni di ciascun elemento, sciogliendoli in un’acqua specifica standardizzata (chiamata “ASTM hard water”), un ambiente controllato che ci permette di confrontare i risultati in modo più affidabile. Poi abbiamo messo le nostre giovani Daphnie (meno di 24 ore di vita!) in queste soluzioni e abbiamo osservato cosa succedeva dopo 48 ore. L’obiettivo era trovare la EC50 (Concentrazione Efficace 50%): la concentrazione di ogni Terra Rara capace di immobilizzare o uccidere il 50% delle Daphnie esposte.

Microfotografia di Daphnia magna che nuota in una goccia d'acqua sotto la luce di un microscopio. Obiettivo macro 105mm, alta definizione, illuminazione da laboratorio controllata, messa a fuoco precisa sul crostaceo trasparente, mostrando i suoi organi interni.

I risultati: chi è il “cattivo” e chi il “buono”?

Ebbene, i risultati sono stati piuttosto chiari e, per certi versi, preoccupanti. Seguendo una classificazione standard, abbiamo potuto dividere le Terre Rare testate in base alla loro pericolosità per la nostra Daphnia:

  • Non tossico: Solo il Praseodimio (Pr) si è dimostrato relativamente innocuo, con una EC50 superiore a 100 mg/L (precisamente 130.81 mg/L).
  • Nocivo: La stragrande maggioranza degli elementi testati rientra in questa categoria (EC50 tra 10 e 100 mg/L). Tra questi troviamo, in ordine di tossicità crescente (dal meno al più tossico in questa fascia): Lantanio (La), Cerio (Ce), Samario (Sm), Terbio (Tb), Tulio (Tm), Itterbio (Yb), Gadolinio (Gd), Olmio (Ho), Neodimio (Nd), Lutezio (Lu), Europio (Eu) e Disprosio (Dy).
  • Tossico: Il “vincitore” in negativo è stato l’Ittrio (Y), con una EC50 di soli 7.2 mg/L, seguito a ruota dallo Scandio (Sc) con 14.00 mg/L. Questi due si sono rivelati i più pericolosi nel breve termine per le nostre Daphnie.

Questi risultati ci dicono una cosa importante: quasi tutte le Terre Rare che abbiamo testato hanno un effetto acuto negativo su un organismo chiave dell’ecosistema d’acqua dolce come Daphnia magna, almeno alle concentrazioni testate.

Perché i nostri risultati (forse) sono più stabili? Il ruolo dell’acqua

Come accennavo prima, uno dei grossi problemi negli studi sulle Terre Rare è la variabilità dei risultati. Spesso dipende dall’acqua usata. Alcune acque standard (come quella raccomandata dall’OECD) hanno un pH più basico e una durezza maggiore. In queste condizioni, le Terre Rare tendono a “precipitare”, cioè a formare composti insolubili che si depositano sul fondo o si attaccano alle pareti del contenitore. Questo significa che la concentrazione di elemento effettivamente disciolto e disponibile per gli organismi (la biodisponibilità) diminuisce, portando a sottostimare la tossicità reale.

Nel nostro studio, abbiamo usato l’acqua ASTM, che ha una durezza inferiore e un pH leggermente più acido (intorno a 7.0-7.5). Abbiamo verificato che, in queste condizioni, le Terre Rare rimanevano più stabili in soluzione per tutte le 48 ore del test (le perdite erano inferiori al 18-30%). Una simulazione chimica ha confermato che la maggior parte degli elementi rimaneva disciolta, principalmente come complessi con carbonati e solfati, o come ioni liberi (Ln3+). Questo potrebbe spiegare perché alcuni dei nostri valori di EC50 sono diversi da quelli trovati in altri studi che usavano acque diverse: forse nel nostro caso le Daphnie erano esposte a una concentrazione “reale” più alta e costante dell’elemento. Questo sottolinea quanto sia fondamentale usare metodi standardizzati e controllare attentamente le condizioni sperimentali!

Ad esempio, per il Lantanio (La), noi abbiamo trovato una EC50 di 97.23 mg/L (nocivo, ma quasi al limite del non tossico), mentre altri studi riportano valori molto più bassi (e quindi una tossicità maggiore), ma spesso usando acque diverse o specie diverse di Daphnia. Per Gadolinio (Gd), Neodimio (Nd) e Itterbio (Yb), abbiamo trovato valori di EC50 simili tra loro (tra 59 e 65 mg/L), confermando una tendenza vista anche in altri lavori, sebbene i nostri valori assoluti fossero più alti, probabilmente sempre per via delle diverse condizioni sperimentali. È interessante notare che per gli elementi risultati più tossici nel nostro studio (Y, Sc, Dy), non abbiamo trovato dati comparabili di tossicità acuta su Daphnia in letteratura, il che rende il nostro lavoro ancora più rilevante.

Primo piano di gocce d'acqua limpida su una foglia verde, simbolo di un ecosistema acquatico sano. Obiettivo macro 60mm, alta definizione, illuminazione naturale morbida, focus selettivo sulle gocce.

Cosa significa tutto questo per noi e per l’ambiente?

Questo studio è un primo passo importante (quello che tecnicamente chiamiamo “Tier 1” della valutazione del rischio ecologico). Ci fornisce dati di base, ottenuti in laboratorio in condizioni controllate, sulla pericolosità potenziale delle Terre Rare. Dimostra che, ad eccezione del Praseodimio, tutte le REE testate possono avere effetti acuti su Daphnia magna.

Con l’uso crescente di queste tecnologie e lo smaltimento non sempre corretto dei rifiuti elettronici, c’è il rischio concreto che le concentrazioni di Terre Rare nell’ambiente, specialmente vicino a discariche o siti di trattamento, possano aumentare fino a raggiungere i livelli che si sono dimostrati dannosi nei nostri test.

È chiaro che serve molta più ricerca. Dobbiamo capire gli effetti a lungo termine (cronici), studiare l’impatto su altre specie, investigare come questi elementi si accumulano negli organismi (bioaccumulo) e quali meccanismi biochimici scatenano a livello cellulare.

Ma intanto, questi dati sono un campanello d’allarme. Ci ricordano che il progresso tecnologico ha un costo ambientale che non possiamo ignorare. Serve più consapevolezza, una gestione più attenta dei rifiuti elettronici e un impegno continuo nella ricerca per proteggere i nostri preziosi ecosistemi acquatici. Il futuro hi-tech deve essere anche un futuro sostenibile!

Fonte: Springer

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