Pacemaker Sotto Lente: Il Monitoraggio Remoto è Davvero l’Eroe che Ci Aspettiamo? Lo Studio HERO Indaga!
Amici della scienza e del cuore che batte forte (ma nel modo giusto!), oggi voglio parlarvi di una faccenda che mi sta particolarmente a cuore, è proprio il caso di dirlo: i nostri fidati pacemaker e come la tecnologia moderna sta cercando di renderli ancora più “intelligenti” e, soprattutto, più efficaci nel tenerci in salute. Immaginate di avere un piccolo angelo custode elettronico nel petto; ora immaginate che questo angelo possa comunicare direttamente con i medici, quasi in tempo reale. Fantascienza? Non proprio, si chiama monitoraggio remoto (RM), e sta diventando sempre più una realtà consolidata.
Le linee guida degli esperti, quelle che i medici seguono con attenzione, dicono a gran voce: “Usate il monitoraggio remoto per i dispositivi cardiaci impiantabili (CIEDs)!”. E fin qui, tutto bene. Il “problema”, se così vogliamo chiamarlo, è che questa raccomandazione si basa soprattutto su studi fatti su un tipo specifico di dispositivo, il defibrillatore cardiaco impiantabile (ICD). Ma che dire dei “semplici” pacemaker, quelli che aiutano il cuore a mantenere il ritmo giusto senza la funzione di defibrillazione? Ecco, qui la faccenda si fa interessante ed è proprio qui che entra in gioco lo studio di cui vi voglio parlare oggi: il registro HERO (HEart Rhythm management Optimisation of pacemaker recipients using remote monitoring). Un nome che è tutto un programma, vero?
L’Obiettivo dello Studio HERO: Pacemaker e Monitoraggio Remoto Sotto Esame
Lo scopo principale dello studio HERO, condotto con meticolosità olandese, era proprio quello di capire se il monitoraggio remoto potesse fare la differenza anche per chi porta un pacemaker, soprattutto per quanto riguarda la diagnosi precoce di aritmie. Immaginate: il vostro pacemaker rileva un’anomalia nel ritmo cardiaco e, grazie al monitoraggio remoto, invia subito un segnale all’ospedale. I medici possono intervenire prima, magari aggiustare una terapia, o semplicemente rassicurarvi. Sembra fantastico, no?
I ricercatori hanno coinvolto 203 pazienti, tutti con un rischio aumentato di ictus (calcolato con un punteggio chiamato CHA2DS2-VASc ≥ 2, per i più tecnici tra voi) ma senza una storia pregressa di fibrillazione atriale o flutter. Questi pazienti avevano ricevuto un pacemaker tra il gennaio 2016 e l’aprile 2018. Li hanno poi divisi, per così dire, in due squadre: 60 pazienti con monitoraggio remoto (li chiameremo RM+) e 143 senza (RM-). L’età media era di 80 anni, quindi parliamo di una popolazione in cui tenere sotto controllo il cuore è fondamentale, e circa il 55% erano uomini.
Cosa hanno guardato? Principalmente, il tempo che passava dall’impianto del pacemaker alla prima rilevazione di un’aritmia, sia atriale che ventricolare. Ma non solo: hanno anche tenuto d’occhio gli eventi avversi legati al dispositivo, il numero di visite cardiologiche e gli eventuali aggiustamenti nella terapia anticoagulante.
I Risultati: Sorprese e Conferme dal Campo
E qui, amici, arriva il bello. Dopo un follow-up mediano di ben 5 anni (un bel po’ di tempo!), cosa è emerso? Beh, prima di tutto una cosa importante: ben il 53,7% dei pazienti ha avuto almeno un evento aritmico. Questo ci dice che, anche in pazienti senza storia nota di fibrillazione atriale, il rischio di sviluppare aritmie dopo l’impianto di un pacemaker non è affatto trascurabile. Nel gruppo RM+ la percentuale è stata del 60%, mentre nel gruppo RM- del 51%, una differenza non statisticamente significativa.
Ma la domanda cruciale era: il monitoraggio remoto ha permesso di scoprire queste aritmie prima? Tenetevi forte: lo studio HERO non ha dimostrato una differenza significativa nel tempo di rilevamento del primo evento aritmico tra i due gruppi. Nel gruppo RM+, il tempo mediano è stato di 2,5 anni, mentre nel gruppo RM- è stato di 2,8 anni. Una differenza minima, che le analisi statistiche hanno confermato non essere rilevante (hazard ratio 0.89; p=0.58).
Anche per quanto riguarda gli eventi avversi legati al dispositivo o gli aggiustamenti della terapia anticoagulante, non sono emerse differenze sostanziali. Un dato interessante, però, è che i pazienti nel gruppo RM+ hanno avuto più consultazioni telefoniche legate al loro dispositivo. Questo ha senso: se il sistema invia un alert, è normale che ci sia un contatto telefonico per capire cosa sta succedendo.
Il Monitoraggio Remoto: Accettazione e Potenziale
Nonostante il risultato “sorprendente” sul tempo di diagnosi, lo studio HERO ci ha regalato anche delle ottime notizie sul monitoraggio remoto. Prima fra tutte, l’altissima accettazione da parte dei pazienti: ben il 95% di coloro a cui è stato proposto ha accettato di usarlo! E il tasso di abbandono? Minimo, solo il 7%, e in un solo caso su 60 si è dovuto interrompere per un malfunzionamento tecnico. Questo è un segnale fortissimo: i pazienti sono pronti e disponibili ad abbracciare questa tecnologia.
Pensateci: se il monitoraggio remoto è ben accettato e facile da usare, e se altri studi (come citato dai ricercatori stessi) dimostrano che è sicuro ridurre la frequenza delle visite di controllo in ospedale per chi lo usa, capite bene che questo potrebbe tradursi in un significativo alleggerimento del carico sul sistema sanitario. Meno code, meno stress per i pazienti (soprattutto quelli più anziani o con difficoltà motorie), e medici che possono concentrarsi sui casi che richiedono davvero un intervento immediato.
Limiti dello Studio e Prospettive Future
Come ogni studio scientifico che si rispetti, anche HERO ha i suoi limiti. Essendo retrospettivo e condotto in un singolo centro, i risultati vanno presi con la dovuta cautela. I ricercatori stessi sottolineano una moderata comparabilità tra i due gruppi. Ad esempio, c’era un certo “bias di selezione”: ai pazienti già in terapia anticoagulante prima dell’impianto del pacemaker raramente veniva offerto il monitoraggio remoto, perché il beneficio clinico di rilevare precocemente un’aritmia atriale in questi casi è considerato minore. Inoltre, il gruppo RM+ aveva più pazienti con ipertensione, mentre il gruppo RM- aveva una maggiore prevalenza di insufficienza cardiaca e pacemaker per la terapia di resincronizzazione cardiaca (CRT). Questo è in parte dovuto al fatto che una quota maggiore di pazienti con insufficienza cardiaca ha ricevuto pacemaker di marca Boston Scientific (che erano tutti nel gruppo RM-).
Quest’ultimo punto è interessante: i pazienti con pacemaker Boston Scientific hanno avuto un numero significativamente maggiore di eventi aritmici rilevati. Questo potrebbe dipendere sia dal fatto che l’insufficienza cardiaca è un fattore di rischio per le aritmie, sia da differenze nel software di rilevamento (il software Boston Scientific classifica le aritmie ventricolari in modo leggermente diverso da quello Biotronik, usato per i pazienti RM+).
Un altro aspetto da considerare è che il 37,6% dei primi eventi aritmici è stato rilevato entro 6 mesi dall’impianto, un periodo in cui, tipicamente, le visite di controllo sono più frequenti. Questo potrebbe aver ridotto il potenziale “guadagno” di tempo del monitoraggio remoto, specialmente considerando che il tempo mediano tra impianto e attivazione dell’RM era di 76 giorni.
Nonostante queste limitazioni, i dati descrittivi, come l’alta incidenza di aritmie rilevate dai dispositivi (53,7%), probabilmente riflettono bene la realtà della popolazione di portatori di pacemaker. E il fatto che meno pazienti nel gruppo RM+ siano stati persi al follow-up potrebbe indicare una popolazione tendenzialmente più “sana” in quel gruppo, il che rende l’alta incidenza di aritmie anche tra loro ancora più significativa per il potenziale beneficio dell’RM.
Cosa Ci Portiamo a Casa dallo Studio HERO?
Quindi, cosa ci insegna lo studio HERO? Ci dice che, in questa specifica popolazione di pazienti olandesi con pacemaker e rischio di ictus, il monitoraggio remoto non ha dimostrato di anticipare significativamente la diagnosi della prima aritmia rispetto ai controlli standard. Tuttavia, ha confermato che le aritmie sono molto comuni in questi pazienti e che il monitoraggio remoto è una tecnologia ben accetta, facile da usare e con pochissimi problemi tecnici.
Questo non significa che il monitoraggio remoto sia inutile, anzi! Significa che forse dobbiamo capire meglio come e quando usarlo per massimizzarne i benefici. Come sottolineano gli stessi autori, c’è bisogno di ulteriori studi, magari prospettici e randomizzati, per chiarire definitivamente il ruolo del monitoraggio remoto nei portatori di pacemaker.
Una cosa è certa: la strada verso una gestione sempre più personalizzata e “connessa” della salute del cuore è tracciata. E anche se lo studio HERO non ha incoronato il monitoraggio remoto come l’eroe indiscusso per la diagnosi precoce in *tutti* i contesti pacemaker, ha sicuramente aggiunto un tassello importante alla nostra comprensione, mostrandoci il suo enorme potenziale in termini di accettabilità e possibile riduzione del carico sanitario. E questo, credetemi, è già un ottimo punto di partenza!
Fonte: Springer