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Sepsi: Sopravvivere è Solo l’Inizio – Un Anno Dopo la Terapia Intensiva in Giappone

Amici lettori, parliamo di qualcosa di serio, ma che tocca la vita di milioni di persone: la sepsi. Spesso la consideriamo una battaglia combattuta e vinta (o persa) tra le mura di un ospedale, in particolare in terapia intensiva (ICU). Ma cosa succede *dopo*? Cosa succede quando le luci dell’ospedale si spengono e si torna a casa? Beh, ho dato un’occhiata a uno studio giapponese recente che getta una luce, a volte un po’ cruda, su quello che accade nell’anno successivo alla dimissione, e credetemi, c’è molto di cui parlare.

Lo studio, pubblicato su Springer, è un lavoro multicentrico prospettico che ha coinvolto 21 unità di terapia intensiva in 20 ospedali terziari in Giappone. Hanno seguito per un anno intero pazienti adulti a cui era stata diagnosticata la sepsi (secondo la definizione Sepsis-3) al momento del ricovero in ICU. L’obiettivo? Capire quali fossero gli esiti a lungo termine, sia in termini di sopravvivenza che di funzionalità. Perché, vedete, in Giappone mancavano dati specifici su questo fronte, e senza dati è difficile creare soluzioni mirate.

Cos’è la Sepsi e Perché Dovremmo Preoccuparci (Anche Dopo)?

Prima di tuffarci nei risultati, rinfreschiamoci la memoria. La sepsi non è un’infezione specifica, ma la risposta *esagerata* del nostro corpo a un’infezione. Questa reazione immunitaria fuori controllo può danneggiare i nostri stessi tessuti e organi, portando a disfunzioni potenzialmente letali. Parliamo di numeri globali spaventosi: quasi 49 milioni di casi e 11 milioni di morti all’anno, circa il 20% di tutti i decessi nel mondo!

Grazie ai progressi nella gestione della sepsi, i tassi di sopravvivenza sono migliorati. Ma, come accennavo, sopravvivere non è sempre sinonimo di tornare alla vita di prima. Molti sopravvissuti si portano dietro un fardello pesante, noto come Sindrome Post-Terapia Intensiva (PICS). Questa sindrome è un cocktail amaro di problemi:

  • Disfunzioni fisiche (difficoltà nei movimenti, debolezza)
  • Disfunzioni cognitive (problemi di memoria, concentrazione)
  • Disturbi mentali (ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico – PTSD)

Questi problemi possono durare anni e impattano pesantemente sulla qualità della vita (QOL), sulla capacità di lavorare e sulle attività quotidiane più semplici. Ecco perché studiare cosa succede *dopo* è fondamentale.

Lo Studio Giapponese: Uno Sguardo da Vicino

I ricercatori hanno arruolato 339 pazienti tra novembre 2020 e aprile 2022. L’età media era piuttosto alta, 74 anni, con una prevalenza maschile (60%) e un indice di massa corporea (BMI) tendenzialmente basso. La maggior parte (77%) aveva uno shock settico, una forma particolarmente grave di sepsi.

Hanno seguito questi pazienti a 3, 6 e 12 mesi dalla dimissione ospedaliera, tramite telefono e posta. L’outcome primario era un composito: morte o incidenza di PICS. La PICS veniva definita dalla presenza di almeno una delle tre disfunzioni (fisica, cognitiva, mentale) misurate con scale specifiche (Barthel Index ≤ 90, Short Memory Questionnaire < 40, HADS ≥ 8 per ansia/depressione o IES-R ≥ 25 per PTSD).

Hanno anche guardato altri aspetti importanti: qualità della vita (con EQ-5D-5L e EQ-VAS), ritorno al lavoro, riammissioni in ospedale, uso del pronto soccorso, accesso a riabilitazione e servizi psichiatrici.

Fotografia di un letto vuoto in un'unità di terapia intensiva moderna e luminosa, messa a fuoco selettiva sull'attrezzatura di monitoraggio, obiettivo 35mm, luce soffusa e controllata, atmosfera di quiete dopo la tempesta.

I Numeri Che Fanno Riflettere: Mortalità e PICS

E qui arrivano i dati che, lo ammetto, mi hanno colpito. La mortalità alla dimissione ospedaliera era del 23%. Ma non finiva lì. A un anno di distanza, era salita al 37%. Quasi quattro pazienti su dieci non ce l’hanno fatta nel primo anno dopo la battaglia iniziale.

Ma la vera “bomba” è l’incidenza combinata di morte o PICS. Alla dimissione, l’89% dei pazienti o era deceduto o soddisfaceva i criteri per la PICS. A 3, 6 e 12 mesi, questa percentuale rimaneva altissima: rispettivamente 73%, 64% e 65%. Avete letto bene: a un anno dalla dimissione, quasi due terzi dei pazienti iniziali erano morti o convivevano con significative disfunzioni fisiche, cognitive o mentali.

Un altro dato interessante: la percentuale di sopravvissuti con PICS diminuiva nel tempo (dal 66% alla dimissione al 28% a 12 mesi), ma sembrava stabilizzarsi, raggiungere un plateau, tra i 6 e i 12 mesi. Come a dire che il grosso del recupero funzionale, se avviene, si concentra nei primi sei mesi. Dopo, la strada si fa più pianeggiante, ma non necessariamente più facile.

Il Profilo del Paziente Giapponese: Un Contesto Diverso

Un aspetto che lo studio sottolinea con forza è la differenza tra i pazienti giapponesi e quelli descritti in molti studi occidentali. I pazienti giapponesi erano mediamente più anziani e con un BMI più basso. Sappiamo che età avanzata e basso BMI sono fattori che possono influenzare negativamente gli esiti a lungo termine. Inoltre, molti pazienti erano già al limite della fragilità (valutata con la Clinical Frailty Score) prima ancora della sepsi.

Anche le fonti di infezione più comuni (addome, tratto urinario, tessuti molli/muscoloscheletrico) differivano un po’ da quelle prevalenti in altri contesti. Questo ci ricorda una cosa importante: non possiamo applicare pedissequamente i risultati e le linee guida basate su popolazioni diverse. Ogni contesto ha le sue specificità, e questo studio giapponese è prezioso proprio perché fotografa la realtà locale. C’è un bisogno urgente di approcci personalizzati, non “taglia unica”.

Ritratto fotografico di un uomo anziano giapponese (70 anni) seduto vicino a una finestra, sguardo pensieroso verso l'esterno, luce naturale laterale, obiettivo 50mm, profondità di campo ridotta, toni leggermente desaturati per trasmettere riflessione.

La Vita Dopo la Sepsi: Qualità della Vita, Lavoro e Cure

E la qualità della vita (QOL)? Migliorava leggermente nel corso dell’anno, ma non in modo eclatante, soprattutto secondo l’autovalutazione dei pazienti (EQ-VAS). Questo suggerisce che la sola riduzione dei sintomi PICS non basta a far sentire le persone “guarite” o tornate alla normalità. La QOL sembra essere l’ultimo indicatore a migliorare, forse solo dopo che altri problemi sono stati affrontati.

Il ritorno al lavoro è un altro tasto dolente. Tra coloro che avevano un impiego prima della sepsi, solo il 52% era tornato al lavoro a 3 mesi, e questa percentuale scendeva al 44% a 12 mesi. Quasi uno su cinque di quelli rientrati perdeva il lavoro tra il terzo e il dodicesimo mese. Un dato peggiore rispetto a quello riportato per la popolazione generale di pazienti post-ICU in Giappone, forse a indicare l’impatto particolarmente severo della sepsi.

Poi c’è l’utilizzo delle risorse sanitarie. Altissimo! Il 40% dei sopravvissuti ha avuto almeno una riammissione in ospedale nel primo anno, e quasi un terzo (31%) ha fatto ricorso al pronto soccorso. Questo fa capire il peso continuo della malattia sul sistema sanitario.

Ma la cosa che stride di più è questa: a fronte di un’alta incidenza di disfunzioni fisiche e mentali, l’utilizzo di servizi specifici come la riabilitazione fisica (15%) e le consulenze psichiatriche (7%) è rimasto bassissimo per tutto l’anno. Anche tra chi ne avrebbe avuto chiaramente bisogno! C’è uno squilibrio evidente tra il bisogno di cure e supporto e l’effettivo accesso o utilizzo di questi servizi.

Fotografia macro di mani anziane che cercano di abbottonare una camicia, dettaglio elevato sulle dita e sul tessuto, obiettivo macro 100mm, illuminazione controllata per evidenziare la difficoltà del gesto, messa a fuoco precisa.

Fattori di Rischio e Piste per il Futuro

Lo studio ha anche cercato di identificare i fattori di rischio. Un risultato consistente: avere una certa disfunzione (fisica, cognitiva o mentale) a un controllo era un forte predittore di averla anche al controllo successivo. Questo rafforza l’idea che intervenire presto, idealmente nei primi 6 mesi, potrebbe essere cruciale per interrompere questa spirale.

L’età è emersa come fattore di rischio indipendente per le disfunzioni fisiche e cognitive. Curiosamente, l’uso della cannula nasale ad alto flusso (HFNC) è risultato associato ai disturbi mentali. L’ipotesi è che i pazienti trattati con HFNC rimangano coscienti durante eventi potenzialmente traumatici, portando a ricordi distorti o angoscianti.

Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Che la sepsi lascia un’ombra lunga. Che sopravvivere è solo il primo passo di un percorso spesso arduo e pieno di ostacoli. Che i pazienti, soprattutto quelli più anziani e fragili come nel contesto giapponese, hanno bisogno di un supporto mirato e continuativo ben oltre la dimissione ospedaliera. C’è un urgente bisogno di colmare il divario tra le necessità dei pazienti (riabilitazione, supporto psicologico, aiuto per il reinserimento lavorativo) e i servizi effettivamente offerti o utilizzati.

Questo studio giapponese è un campanello d’allarme importante. Ci dice che dobbiamo guardare oltre la fase acuta della sepsi e investire di più nella comprensione e nella gestione delle sue conseguenze a lungo termine, adattando gli interventi alle caratteristiche specifiche dei pazienti in ogni contesto. La ricerca continua, e speriamo possa portare presto a strategie più efficaci per aiutare i sopravvissuti alla sepsi a ritrovare non solo la salute, ma una vita piena e soddisfacente.

Fonte: Springer

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