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Ebola: Quattro Farmaci Sotto la Lente, Ma la Vittoria è Ancora Lontana

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che mi appassiona e mi tiene sveglio la notte: la lotta contro l’Ebola. È un nemico temibile, un virus che ha causato sofferenza e morte, specialmente in Africa. Ma la scienza non si arrende, e negli ultimi anni abbiamo fatto passi da gigante nello sviluppo di terapie. Ricordo bene il trial clinico PALM, condotto durante la terribile epidemia nella Repubblica Democratica del Congo tra il 2018 e il 2020. Un momento cruciale in cui si sono confrontate quattro speranze terapeutiche: l’antivirale remdesivir e tre cocktail di anticorpi monoclonali, ZMapp, mAb114 (ora noto come Ebanga) e REGN-EB3 (Inmazeb).

Il Contesto: Il Trial PALM e i Dubbi Sollevati

I risultati del PALM furono, in un certo senso, una svolta. Decretarono che mAb114 e REGN-EB3 erano superiori a ZMapp e remdesivir nel ridurre la mortalità. Una notizia fantastica, certo, ma come spesso accade nella ricerca, emerse un “ma”. Analizzando i dati, sembrò che i pazienti trattati con ZMapp e remdesivir potessero essere, in media, in condizioni più gravi già all’inizio della terapia. Questo è un problema comune negli studi clinici sul campo, specialmente durante epidemie caotiche: non tutti i pazienti arrivano nello stesso momento o nelle stesse condizioni. Questo dubbio ci ha lasciato con una domanda fondamentale: se messi alla prova nelle stesse identiche condizioni, come si comporterebbero questi quattro trattamenti?

L’Esperimento: Mettiamo alla Prova i Farmaci in Laboratorio

Ed è qui che entriamo in gioco noi, con i nostri modelli preclinici. Per cercare di rispondere a questa domanda, abbiamo progettato uno studio rigoroso utilizzando macachi rhesus, un modello animale molto affidabile per studiare l’Ebola perché la malattia progredisce in modo molto simile a quella umana. La chiave era la standardizzazione:

  • Abbiamo usato lo stesso ceppo virale di Ebola (una variante Kikwit a basso passaggio, molto “cattiva” e vicina a quella che circola in natura).
  • Abbiamo infettato tutti gli animali con la stessa dose e per la stessa via (intramuscolare).
  • Abbiamo iniziato il trattamento per tutti al giorno 5 dopo l’infezione, un momento in cui la malattia è già avanzata e il virus si sta replicando attivamente. Questo simula i pazienti che arrivano in ospedale già sintomatici.
  • Tutto è stato fatto nello stesso laboratorio di massima sicurezza (BSL-4), dallo stesso personale esperto.

L’obiettivo era eliminare quante più variabili possibili per confrontare direttamente l’efficacia di remdesivir, mAb114, REGN-EB3 e ZMapp (sia nella versione prodotta da piante, ZMP, che da cellule CHO, ZMC).

Primo piano di una mano guantata da laboratorio (in tuta BSL-4) che tiene delicatamente una scimmia rhesus per un esame clinico all'interno di un isolatore di contenimento biologico, luce focalizzata sull'interazione, sfondo sfocato con attrezzature di laboratorio, lente prime 50mm, profondità di campo ridotta.

I Risultati Sorprendenti: Un Pareggio Inaspettato

E qui arriva la sorpresa. Nonostante i risultati del PALM trial negli umani, nel nostro modello animale super controllato, tutti e quattro i trattamenti hanno mostrato un’efficacia simile, ma parziale. Circa il 40% degli animali è sopravvissuto in ciascun gruppo trattato (37.5% per ZMapp combinato, 40% per remdesivir, 40% per REGN-EB3, 40% per mAb114). Questo è significativamente meglio rispetto agli animali di controllo non trattati, che purtroppo sono morti tutti rapidamente (il tempo medio di sopravvivenza era di circa 7 giorni), ma è lontano dalla protezione completa che tutti speravamo e che alcuni studi precedenti, condotti in condizioni diverse, avevano suggerito per alcuni di questi farmaci. È stato un risultato che ci ha fatto riflettere: forse la superiorità vista nel trial clinico era davvero influenzata dalle condizioni dei pazienti o da altri fattori, e in una situazione di malattia avanzata e uniforme, queste terapie, prese singolarmente, hanno dei limiti simili.

Cosa Fa la Differenza? La Carica Virale è Cruciale

Se l’efficacia tra i farmaci era simile, cosa distingueva gli animali che sopravvivevano da quelli che non ce la facevano all’interno dello stesso gruppo di trattamento? La risposta è stata chiara e netta: la carica virale al momento dell’inizio della terapia (giorno 5). Gli animali che avevano livelli più bassi di RNA virale (vRNA) e di virus infettivo circolante nel sangue al giorno 5 avevano una probabilità significativamente maggiore di sopravvivere, indipendentemente dal farmaco ricevuto. Questo conferma quanto visto anche nel trial PALM: iniziare il trattamento il prima possibile, quando il virus non ha ancora preso il sopravvento, è assolutamente fondamentale. Anche alcuni marcatori biochimici nel siero (come ALT, AST, creatinina), indicatori di danno a fegato e reni, tendevano ad essere più bassi nei sopravvissuti al momento dell’inizio della terapia, ma la correlazione era meno forte rispetto alla carica virale.

Micrografia elettronica a trasmissione del virus Ebola, particelle filamentose virali colorate artificialmente per chiarezza, sfondo scuro, altissima risoluzione, dettaglio delle strutture virali, illuminazione scientifica precisa.

Uno Sguardo Approfondito: Cosa Succede nei Tessuti?

Abbiamo analizzato i tessuti degli animali dopo la morte (per malattia o al termine dello studio per i sopravvissuti). Negli animali che non ce l’hanno fatta, abbiamo trovato le lesioni tipiche e gravi dell’Ebola in vari organi (fegato, milza, linfonodi, ecc.), con abbondante presenza di antigene virale rilevato tramite immunoistochimica (IHC). Nei sopravvissuti, la situazione era molto migliore, con lesioni quasi assenti o lievi alla fine dello studio (28 o 35 giorni). Tuttavia, un dato interessante è che abbiamo trovato RNA virale residuo (vRNA) in molti tessuti dei sopravvissuti, anche se in quantità molto inferiori rispetto agli animali deceduti. Questo vRNA non corrispondeva necessariamente a virus infettivo attivo, ma la sua persistenza, specialmente in siti “immuno-privilegiati” come il sistema nervoso centrale (cervello, midollo spinale) e gli occhi, è qualcosa da tenere d’occhio. In alcuni sopravvissuti abbiamo persino osservato segni di infiammazione e presenza di antigene virale in queste aree (come meningite o uveite), anche se gli animali apparivano clinicamente guariti. Questo fenomeno non sembrava specifico di un trattamento, ma solleva preoccupazioni sulla possibilità che il virus possa nascondersi e potenzialmente riattivarsi, come purtroppo è già stato documentato in alcuni sopravvissuti umani all’Ebola.

Mutazioni in Vista? Il Pericolo della Resistenza

Un’altra domanda cruciale quando si usano terapie mirate, specialmente anticorpi monoclonali, è il rischio che il virus muti per “sfuggire” al trattamento. Abbiamo usato il deep sequencing (sequenziamento profondo) per analizzare il genoma virale nei tessuti degli animali deceduti. I risultati sono stati illuminanti: abbiamo trovato una tendenza ad avere più varianti (mutazioni presenti in almeno il 10% della popolazione virale) nel gruppo trattato con mAb114, che è un singolo anticorpo monoclonale. Tre di queste mutazioni erano “non sinonime” (cioè cambiavano l’aminoacido corrispondente) e si trovavano proprio nella regione della proteina GP del virus a cui mAb114 si lega. Al contrario, nei gruppi trattati con i cocktail di anticorpi (ZMapp e REGN-EB3, che contengono tre anticorpi diversi ciascuno) e nel gruppo remdesivir, abbiamo trovato pochissime o nessuna variante significativa. Questo suggerisce che usare un singolo anticorpo potrebbe esercitare una pressione selettiva maggiore, favorendo l’emergere di mutanti resistenti. I cocktail di anticorpi, colpendo il virus in più punti contemporaneamente, sembrano più robusti da questo punto di vista.

Visualizzazione 3D della proteina spike (GP) del virus Ebola con evidenziate le aree di legame degli anticorpi e le potenziali mutazioni di escape, colori vivaci su sfondo scuro, rendering scientifico dettagliato, stile infografica medica.

Perché Questi Risultati Differiscono? Il Fattore “Passaggio Virale”

Ma perché i nostri risultati di efficacia (circa 40% di sopravvivenza per tutti) differiscono da alcuni studi precedenti su NHP che riportavano protezioni molto più alte, a volte vicine al 100%, per questi stessi farmaci? Crediamo che una spiegazione chiave risieda nel ceppo virale utilizzato. Noi abbiamo volutamente usato un ceppo di EBOV Kikwit a “basso passaggio” (solo due passaggi in cellule Vero E6 dopo l’isolamento dal paziente). L’analisi genetica ha confermato che era al 100% di tipo “7U” nel sito di editing del gene GP. Questo è importante perché si sa che passaggi ripetuti del virus in laboratorio (specialmente in cellule Vero) possono portare all’accumulo di genomi virali con 8 Uridine (8U) in quel sito. Questi virus 8U tendono a produrre meno della forma secreta della proteina GP (sGP) e più della forma strutturale completa. Sebbene il ruolo esatto di sGP sia complesso, studi precedenti hanno mostrato che i ceppi prevalentemente 8U possono causare una malattia più lenta e meno letale nei macachi. Molti degli studi precedenti che mostravano alta efficacia potrebbero aver usato, magari involontariamente, ceppi virali con una storia di passaggi più lunga e/o una percentuale più alta di genomi 8U. Usando un ceppo 100% 7U a basso passaggio, abbiamo probabilmente sottoposto le terapie a una sfida più severa e forse più rappresentativa della malattia umana aggressiva.

Conclusioni e Prospettive Future: La Strada delle Terapie Combinate

Quindi, cosa ci portiamo a casa da questo studio intenso?

  • In condizioni rigorosamente controllate e con un ceppo virale aggressivo, remdesivir, mAb114, REGN-EB3 e ZMapp mostrano un’efficacia simile ma subottimale quando somministrati in una fase avanzata dell’infezione da Ebola (5 giorni post-infezione).
  • La carica virale al momento dell’inizio del trattamento è un fattore predittivo cruciale per la sopravvivenza.
  • L’uso di un singolo anticorpo (mAb114) potrebbe essere più suscettibile all’emergere di mutanti di escape rispetto ai cocktail di anticorpi.
  • La persistenza di vRNA e potenziali focolai di infiammazione in siti immuno-privilegiati nei sopravvissuti richiede attenzione.

Il messaggio più importante, secondo me, è che nessuna di queste terapie, da sola, è la bacchetta magica, specialmente per i pazienti che arrivano tardi alla cura. I tassi di mortalità osservati nel nostro studio (circa 60%) e anche nei bracci migliori del trial PALM (oltre il 30-35% in generale, e oltre il 60% nei pazienti con alta carica virale) sono ancora inaccettabilmente alti. La strada da percorrere, come suggerito anche da nostri studi recenti su altri filovirus come Marburg e Sudan, sembra essere quella delle terapie combinate. Unire un antivirale a piccola molecola come remdesivir (o il suo profarmaco orale, obeldesivir) con un potente anticorpo monoclonale o un cocktail di anticorpi potrebbe offrire benefici sinergici: meccanismi d’azione complementari, migliore distribuzione nei tessuti e minor rischio di resistenza. È questa la direzione in cui dobbiamo investire ulteriori ricerche per migliorare davvero le possibilità di sopravvivenza per chiunque si trovi ad affrontare l’incubo dell’Ebola. La lotta continua!

Team di ricercatori in camice bianco che discutono animatamente davanti a uno schermo che mostra dati complessi e grafici sulla cinetica virale dell'Ebola, ambiente di laboratorio moderno, luce brillante, focus sui volti concentrati, lente zoom 35mm.

Fonte: Springer

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