Storie che Salvano? Come le Narrazioni sulla Dipendenza Influenzano le Politiche di Riduzione del Danno
La Crisi Silenziosa e il Potere delle Parole
Parliamoci chiaro: quando sentiamo parlare di dipendenza da sostanze, specialmente da oppioidi come l’eroina, cosa ci viene in mente? Spesso, purtroppo, scattano giudizi, idee preconcette sulla “forza di volontà” o sulla “colpa”. Eppure, negli Stati Uniti (ma il problema è globale), la crisi degli oppioidi è stata dichiarata un’emergenza sanitaria pubblica già da anni, con un numero spaventoso di morti per overdose. Io mi sono imbattuto in uno studio affascinante che esplora proprio questo: come il modo in cui raccontiamo la dipendenza possa influenzare il supporto a politiche che potrebbero salvare vite. Parliamo delle cosiddette politiche di riduzione del danno (HRP).
Cosa Sono Esattamente le Politiche di Riduzione del Danno?
Magari il termine suona un po’ tecnico, ma l’idea di fondo è semplice e pragmatica. Si tratta di un insieme di strategie mirate a ridurre le conseguenze negative del consumo di droghe, senza necessariamente richiedere l’astinenza totale come unico obiettivo. Pensiamo a cose come:
- Programmi di distribuzione di naloxone (il farmaco salvavita per le overdose) e formazione su come usarlo.
- Centri di consumo sicuro (luoghi dove le persone possono usare sostanze sotto supervisione medica).
- Distribuzione di siringhe sterili per prevenire malattie come HIV ed epatite C.
- Kit per testare le sostanze e verificare la presenza di adulteranti pericolosi (come il fentanyl).
- Depenalizzazione del possesso di piccole quantità per uso personale.
- Programmi di mantenimento con metadone o eroina prescritta in casi specifici.
- Leggi del “Buon Samaritano” che proteggono chi chiama i soccorsi per un’overdose.
Queste politiche, supportate da numerose evidenze scientifiche sulla loro efficacia, sono spesso finanziate e regolamentate a livello statale e locale negli USA, seguendo linee guida federali. Ma, nonostante i benefici dimostrati, il supporto pubblico è tutt’altro che unanime. Perché?
Lo Stigma: Quel Muro Invisibile
Una delle ragioni principali sembra essere lo stigma. L’idea che la dipendenza sia una “colpa”, una mancanza di volontà, qualcosa che la persona “potrebbe controllare se solo volesse”. Questa convinzione, che gli psicologi chiamano “credenza sulla controllabilità”, è un ostacolo enorme. Se pensiamo che qualcuno sia responsabile della propria condizione e possa semplicemente “smettere”, siamo meno inclini a supportare politiche che offrono aiuto e riducono i rischi, preferendo magari un approccio punitivo.
La teoria dell’attribuzione dello stigma di Weiner, ad esempio, suggerisce proprio che le nostre supposizioni sulla causa e sulla controllabilità di una condizione influenzano pesantemente la nostra disponibilità ad aiutare. E purtroppo, lo stigma verso la dipendenza da sostanze è spesso ancora più forte di quello verso altre malattie mentali. Questo si traduce non solo in discriminazione diretta (nel lavoro, nell’accesso alla casa o alle cure), ma anche in un minor supporto a politiche e finanziamenti per i programmi di trattamento e riduzione del danno.
Alcuni studi qualitativi hanno proprio evidenziato questa mentalità del “tirarsi su da soli”, con frasi tipo: “Non capisco come la vita possa andare così male. Per me è semplice: smetti di drogarti, rimettiti in sesto, trovati un lavoro”. Frasi che ignorano la complessità neurobiologica e psicosociale della dipendenza.

Esperimento 1: Cambiare le Convinzioni Cambia il Supporto?
Partendo da queste premesse, i ricercatori si sono chiesti: se usassimo delle narrazioni umanizzanti, delle storie che mostrano la dipendenza come risultato di una complessa interazione di fattori personali e ambientali, potremmo ridurre queste credenze sulla controllabilità e, di conseguenza, aumentare il supporto alle HRP?
Hanno quindi condotto uno studio (Studio 1) su circa 320 adulti statunitensi, dividendoli casualmente in tre gruppi:
- Gruppo di controllo: Leggeva solo dati statistici sulla pericolosità dell’eroina e sull’efficacia delle HRP.
- Narrativa ad alta controllabilità percepita: Leggeva i dati statistici seguiti dalla storia (fittizia ma presentata come reale) di una persona che, dopo un incidente e una fase di depressione, inizia a “sperimentare con droghe e alcol per far fronte alle circostanze” finendo dipendente dall’eroina. La depressione, spesso vista come qualcosa su cui si ha più controllo, rendeva la situazione apparentemente più “controllabile”.
- Narrativa a bassa controllabilità percepita: Leggeva i dati statistici seguiti da una storia simile, ma dove la dipendenza iniziava a causa del dolore cronico post-incidente e della difficoltà nel gestire il dolore, senza menzionare la depressione come causa scatenante dell’uso iniziale. Un percorso percepito come meno “colpevole” o controllabile.
L’ipotesi era che le narrazioni (specialmente quella a bassa controllabilità) avrebbero ridotto le credenze sulla controllabilità della dipendenza e aumentato il supporto alle HRP rispetto al gruppo di controllo. Cosa è successo?
I risultati sono stati… interessanti e un po’ spiazzanti. Le narrazioni hanno effettivamente ridotto le credenze sulla controllabilità della dipendenza rispetto al gruppo di controllo. Le persone che leggevano una storia erano più propense a pensare che la dipendenza non fosse una semplice scelta. Ma, e questo è il punto cruciale, questo cambiamento nelle credenze non si è tradotto in un maggiore supporto per le politiche di riduzione del danno. Non c’erano differenze significative nel supporto alle HRP tra i tre gruppi. Sembrava quasi che sfidare l’idea della colpa non bastasse a convincere le persone a sostenere soluzioni concrete.
Esperimento 2: E se Parlassimo di Vita o di Morte?
Questa scoperta ha sollevato nuove domande. Forse concentrarsi sulla “controllabilità” non era la leva giusta? I ricercatori hanno ipotizzato che, forse, enfatizzare le conseguenze più estreme della dipendenza, come la morte per overdose, potesse essere più efficace nell’influenzare il supporto alle HRP.
Hanno quindi progettato un secondo studio (Studio 2) con circa 215 partecipanti, confrontando due narrazioni:
- Narrativa con esito “dipendenza”: Era la stessa storia a bassa controllabilità dello Studio 1, che si concludeva con la persona ancora intrappolata nel ciclo della dipendenza.
- Narrativa con esito “mortalità”: Era la stessa storia, ma con un finale diverso: “…Questo ciclo di tentativi di smettere e ricadute è andato avanti per diversi mesi, finché la famiglia non ha ricevuto una telefonata inaspettata una mattina che li informava che la persona era morta per overdose di eroina.”
L’ipotesi (Ipotesi 2) era che la narrazione che terminava con la morte avrebbe suscitato un maggiore supporto per le HRP. E questa volta… bingo!
I risultati dello Studio 2 hanno mostrato che i partecipanti che leggevano la storia con l’esito mortale esprimevano un supporto significativamente maggiore per le politiche di riduzione del danno rispetto a quelli che leggevano la storia che si concludeva “solo” con la dipendenza cronica. Sembra che mettere le persone di fronte alla realtà più dura, alla possibilità concreta della morte, abbia attivato una risposta diversa, forse più emotiva, che ha superato le resistenze legate alle convinzioni sulla controllabilità.

Cosa Ci Portiamo a Casa?
Questi studi, secondo me, ci dicono qualcosa di fondamentale per chi si occupa di comunicazione sulla salute pubblica e per i gruppi che promuovono la riduzione del danno. Tentare di scardinare le convinzioni sulla “colpa” o sulla “controllabilità” della dipendenza, pur essendo importante per ridurre lo stigma in generale, potrebbe non essere la strategia più efficace per ottenere supporto specifico per le politiche di riduzione del danno.
Invece, parlare apertamente della letalità della dipendenza da oppioidi, delle vite spezzate dall’overdose, sembra toccare corde più profonde e motivare un maggiore sostegno a interventi salvavita. Forse perché attiva empatia, compassione, o semplicemente un senso di urgenza che la discussione sulla “controllabilità” non riesce a generare nello stesso modo. È possibile che l’impatto emotivo della mortalità sia la chiave per superare le barriere cognitive e ideologiche.
Certo, la ricerca ha i suoi limiti: è stata condotta negli USA, si è concentrata sull’eroina (e non su altri oppioidi come quelli sintetici, oggi diffusissimi), ha misurato gli effetti a breve termine e non ha controllato perfettamente la familiarità pregressa dei partecipanti con le HRP. Serviranno altri studi per capire meglio le reazioni emotive specifiche in gioco e come questi risultati si applichino ad altri contesti e tipi di sostanze.

In Conclusione: Storie Potenti, Scelte Strategiche
La conclusione che traggo è che le storie hanno un potere immenso. Le narrazioni umanizzanti possono aiutare a combattere lo stigma. Ma se l’obiettivo è smuovere l’opinione pubblica e ottenere supporto per politiche concrete come quelle di riduzione del danno, forse dobbiamo essere più diretti, più crudi nel mostrare le conseguenze estreme. Non per spaventare fine a se stesso, ma per sottolineare l’urgenza e il valore di interventi che, letteralmente, possono fare la differenza tra la vita e la morte. Un promemoria importante per chiunque voglia comunicare efficacemente su temi così delicati e vitali.
Fonte: Springer
