Fotografia naturalistica molto realistica della tartaruga d'acqua dolce Myuchelys georgesi nel suo habitat naturale, il fiume Bellinger, con acqua limpida e rocce. Obiettivo teleobiettivo zoom, 200mm, alta velocità dell'otturatore per catturare il movimento, dettagli nitidi.

SOS Tartaruga: Un Viaggio nel DNA di una Specie sull’Orlo del Baratro

Amici appassionati di natura e scoperte scientifiche, oggi voglio portarvi con me in un’avventura che ha dell’incredibile, un vero e proprio thriller genetico che si svolge nelle acque di un singolo fiume australiano. Parliamo della tartaruga del fiume Bellinger (Myuchelys georgesi), una creatura affascinante che, purtroppo, si trova in pericolo critico di estinzione. Immaginate una specie che vive solo lì, in quel fazzoletto di mondo, e che improvvisamente si trova a lottare per la sopravvivenza contro un nemico invisibile: un virus.

Un SOS dal Fiume Bellinger

La situazione è davvero drammatica. Nel 2015, un’epidemia causata da un nidovirus ha decimato la popolazione di queste tartarughe, riducendola del 90%! Un colpo durissimo. E come se non bastasse, ci sono state altre ondate epidemiche più recenti. Di fronte a una tale emergenza, noi scienziati ci siamo rimboccati le maniche. L’obiettivo? Capire cosa sta succedendo a livello genetico. Perché questa specie è così vulnerabile? C’è qualcosa nel suo DNA che possiamo decifrare per aiutarla?

Per rispondere a queste domande, abbiamo intrapreso un viaggio affascinante nel genoma della Myuchelys georgesi. Abbiamo analizzato il DNA di 31 esemplari “puri” e, per avere un termine di paragone, anche quello di 4 individui un po’ speciali: dei “backcross”, ovvero discendenti di ibridi tra la nostra tartaruga e una sua parente più fortunata, la tartaruga del fiume Murray (Emydura macquarii), che sembra resistere a questi virus.

Scavando nel DNA: Il Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC)

Una delle nostre principali aree di indagine è stata il Complesso Maggiore di Istocompatibilità, o MHC. Lo so, il nome è un po’ ostico, ma l’MHC è una superstar nel sistema immunitario! È un gruppo di geni fondamentali che aiutano il corpo a riconoscere gli “invasori”, come virus e batteri, e a scatenare una risposta difensiva. Più variabilità c’è in questi geni, maggiore è la capacità di un organismo di affrontare un’ampia gamma di patogeni.

Con un lavoro certosino, abbiamo identificato e “mappato” manualmente i geni MHC della tartaruga del Bellinger: cinque geni di classe I e dieci di classe II. E qui arriva una delle prime sorprese: sebbene la diversità genetica a livello dell’intero genoma della Myuchelys georgesi pura sia risultata criticamente bassa (un dato preoccupante, che vi spiegherò meglio tra poco), la regione del genoma che ospita l’MHC (localizzata sullo “scaffold 10”, una sorta di macro-cromosoma) ha mostrato una variabilità superiore rispetto ad altre grandi porzioni del genoma. È come trovare un piccolo tesoro di diversità in un deserto genetico!

Abbiamo scoperto che la struttura dei geni MHC in questa tartaruga è abbastanza conservata, raggruppati in un’unica regione centrale, un po’ come accade in molti altri vertebrati amnioti (rettili, uccelli e mammiferi). I geni di classe I e di classe II formano due raggruppamenti distinti, senza mescolarsi, una caratteristica osservata anche nell’alligatore cinese. Curiosamente, gli introni (sequenze non codificanti all’interno dei geni) dei geni MHC di classe I sono risultati notevolmente più lunghi di quelli di classe II, un’architettura che ricorda quella degli anfibi.

Fotografia naturalistica molto realistica della tartaruga d'acqua dolce Myuchelys georgesi, in pericolo critico, che nuota lentamente tra le rocce ricoperte di alghe in un'acqua limpida e poco profonda del fiume Bellinger, Australia. La luce del sole filtra attraverso la superficie dell'acqua creando giochi di luce. Obiettivo teleobiettivo zoom, 150mm, alta velocità dell'otturatore per congelare il movimento, dettagli nitidi del carapace e della pelle.

Un Passato Difficile Scritto nei Geni

Ma perché questa tartaruga ha una diversità genetica così bassa in generale? Per capirlo, abbiamo ricostruito la sua storia demografica, un po’ come fare un albero genealogico che va indietro per migliaia di anni. I risultati sono stati illuminanti, e un po’ tristi. Sembra che la dimensione effettiva della popolazione di Myuchelys georgesi abbia iniziato un lento ma costante declino circa 110.000 anni fa, in coincidenza con l’ultimo periodo interglaciale. Questo declino è proseguito, con accelerate più recenti.

Pensateci: un isolamento prolungato, magari dovuto a cambiamenti climatici che hanno frammentato il suo habitat, e una popolazione sempre più piccola. Queste condizioni sono la ricetta perfetta per l’aumento della consanguineità (inbreeding) e la perdita di varianti genetiche preziose. È un po’ come se la specie fosse entrata in un vortice di impoverimento genetico molto prima che l’uomo iniziasse a impattare pesantemente sull’ambiente.

Questo è confermato dall’analisi dei cosiddetti “tratti di omozigosità” (ROH). Immaginate lunghi tratti del DNA in cui le due copie di ogni cromosoma (una ereditata dal padre, una dalla madre) sono identiche. Nelle tartarughe pure, ben il 90% del genoma è costituito da questi ROH, sia corti (che indicano una parentela antica) sia lunghi (che riflettono una consanguineità più recente). È un segno inequivocabile di una lunga storia di accoppiamenti tra parenti stretti. Al contrario, negli individui backcross, questi ROH sono quasi assenti, grazie all’apporto di “sangue nuovo” dalla Emydura macquarii.

L’Impatto del Virus: Cosa è Cambiato (o Non è Cambiato)?

Una delle domande cruciali era: l’epidemia di nidovirus del 2015 ha lasciato un segno genetico immediato? Abbiamo confrontato campioni raccolti prima dell’epidemia (19 individui) con campioni raccolti dopo (12 individui). Sorprendentemente, non abbiamo rilevato cambiamenti significativi a breve termine né nella diversità genomica generale né in quella dei geni MHC.

Questo potrebbe sembrare strano, ma bisogna considerare che queste tartarughe hanno tempi di generazione lunghi. Gli effetti genetici di un evento così catastrofico potrebbero non essere immediatamente visibili, ma manifestarsi nelle generazioni future. È come se il virus avesse colpito una popolazione già geneticamente fragile, e le conseguenze a lungo termine potrebbero essere ancora più gravi. Tuttavia, analizzando più da vicino i geni MHC, abbiamo notato che gli individui del gruppo “post-epidemia” mostravano un numero leggermente inferiore di varianti genetiche (SNP), mutazioni non sinonime (quelle che cambiano l’aminoacido e quindi potenzialmente la funzione della proteina) e alleli in alcuni dei 15 geni MHC rispetto al gruppo “pre-epidemia”. Potrebbe essere un artefatto dovuto al campionamento, oppure un primissimo, debole segnale di perdita di alleli. Sarà fondamentale continuare a monitorare la situazione.

È interessante notare che, nonostante la bassissima diversità genomica generale, i geni MHC sembrano essere relativamente conservati. E la regione dello scaffold 10, dove risiedono, mostra una notevole assenza di ROH rispetto ad altri macrocromosomi. Questo suggerisce che la sola diversità a livello di SNP (singole variazioni nucleotidiche) potrebbe non essere il fattore principale della suscettibilità della specie alle malattie, come avevamo ipotizzato inizialmente. Forse la diversità introdotta dall’ibridazione con E. macquarii, che coinvolge anche altri tipi di variazioni genetiche non esplorate a fondo in questo studio (come le varianti strutturali), contribuisce alla resilienza degli individui backcross.

Visualizzazione concettuale di un laboratorio di genetica con uno scienziato che analizza sequenze di DNA su un monitor. In primo piano, una rappresentazione artistica di una doppia elica di DNA con specifiche regioni (geni MHC) evidenziate in colori brillanti. Illuminazione controllata, obiettivo macro 60mm per dettagli nitidi sulle strutture del DNA.

Cosa ci Insegna questa Storia?

Questo studio è un primo, fondamentale passo per capire la complessa situazione genetica della tartaruga del fiume Bellinger. Abbiamo scoperto che la sua diversità genomica è ai minimi storici, frutto di un lungo declino e isolamento. L’MHC, pur mostrando una certa variabilità, opera all’interno di questo contesto di generale impoverimento.

Le informazioni che abbiamo raccolto sono cruciali. Ci dicono che gli stress attuali, come le epidemie virali, stanno agendo su una popolazione già geneticamente indebolita. È una corsa contro il tempo. Comprendere a fondo la genetica di questa specie, inclusa la struttura e la variabilità dei suoi geni immunitaria, è essenziale per sviluppare strategie di conservazione efficaci. Forse, in futuro, si potrebbero considerare approcci come l’introduzione controllata di variabilità genetica, magari proprio sfruttando la resilienza osservata negli ibridi, anche se queste sono decisioni complesse e da valutare con estrema cautela.

Certo, ci sono delle limitazioni. La scarsità di dati genomici completi per altre specie di tartarughe e rettili rende difficili i confronti evolutivi dettagliati. Inoltre, lavorare con dati da “short-read” (frammenti corti di DNA) per confrontare individui puri e backcross può presentare delle sfide nell’identificare accuratamente tutte le differenze, specialmente quelle strutturali. Studi futuri potrebbero concentrarsi sull’annotazione dei geni MHC anche in Emydura macquarii e utilizzare tecniche di sequenziamento mirato per confrontare con precisione l’impatto dell’ibridazione.

Il nostro lavoro, però, getta le basi per future ricerche e, speriamo, per dare una possibilità in più a questa straordinaria tartaruga. È una testimonianza di come la genetica possa svelare storie nascoste e offrire strumenti preziosi per la salvaguardia della biodiversità. La battaglia per la Myuchelys georgesi è appena iniziata, e la scienza è in prima linea.

Fonte: Springer

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