Ritratto fotorealistico di un uomo anziano, circa 75 anni, etnia ispanica, seduto da solo nel suo soggiorno modestamente arredato nel Bronx, guardando verso la telecamera con un'espressione neutra a leggermente malinconica. La luce morbida e naturale di una finestra vicina si illumina metà del viso. Utilizzare una lente primaria, 35 mm, profondità di campo creando uno sfondo leggermente sfocato che mostra mobili semplici. Concentrati sul trasporto di vulnerabilità e l'impostazione domestica.

Anziani Soli a Casa? Scopriamo i Rischi Nascosti di Solitudine e Isolamento nell’Assistenza Domiciliare

Ciao a tutti, amici lettori! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi sta molto a cuore e che, purtroppo, tocca da vicino tantissime famiglie: la solitudine e l’isolamento sociale tra i nostri anziani, specialmente quelli che, dopo un ricovero in ospedale, ricevono assistenza direttamente a casa. Sembra un controsenso, vero? Assistiti, ma potenzialmente soli. Eppure, è una realtà più diffusa di quanto pensiamo.

Mi sono imbattuto in uno studio affascinante che ha cercato di fare luce proprio su questo fenomeno, analizzando i dati di oltre 2000 anziani residenti nel Bronx, a New York, una zona incredibilmente variegata dal punto de vista etnico e sociale. E i risultati, ve lo dico subito, fanno riflettere parecchio.

Ma prima, capiamoci: Solitudine e Isolamento sono la stessa cosa?

Spesso usiamo questi termini come sinonimi, ma in realtà c’è una bella differenza. L’isolamento sociale è una condizione oggettiva: riguarda la mancanza concreta di contatti, il numero ridotto di persone nella nostra rete sociale, il vivere da soli o non essere sposati. La solitudine, invece, è un sentimento soggettivo: è quella sensazione spiacevole di insoddisfazione per la qualità o la quantità delle nostre relazioni. Si può essere circondati da persone e sentirsi terribilmente soli, così come si può vivere da soli senza provare solitudine. Certo, le due cose spesso vanno a braccetto, ma non sono la stessa medaglia.

Perché proprio gli anziani in assistenza domiciliare?

Questo gruppo di persone è particolarmente vulnerabile. Pensateci: spesso reduci da un ricovero, magari con più patologie (la cosiddetta multimorbilità) e con una ridotta capacità di muoversi o di svolgere le attività quotidiane (il declino funzionale). La casa diventa un po’ una prigione dorata e il bisogno di supporto – non solo fisico, ma anche emotivo e sociale – diventa enorme. Hanno bisogno di aiuto per le medicine, per le faccende, per andare alle visite, ma anche, e forse soprattutto, di una compagnia, di una parola amica. Questo periodo di transizione dall’ospedale a casa è delicatissimo.

Cosa ha scoperto lo studio nel Bronx?

Analizzando i dati raccolti durante le visite di assistenza domiciliare (grazie a un sistema chiamato OASIS-E e alle cartelle cliniche elettroniche), i ricercatori hanno fotografato una situazione interessante:

  • Circa il 29,5% degli anziani viveva da solo.
  • Solo il 33,5% era sposato (il che significa che due terzi non lo erano, tra vedovi, divorziati, single…).
  • L’11,6% ha dichiarato di sentirsi solo “almeno qualche volta”.

Un momento… solo l’11,6% si sente solo? Questo dato mi ha colpito. Altre ricerche a livello nazionale negli USA parlano di percentuali molto più alte, fino al 43%! Come mai questa differenza? Gli autori dello studio suggeriscono alcune ipotesi: forse la domanda specifica usata (“Quanto spesso si sente solo o isolato?”) può essere percepita come stigmatizzante, portando le persone a non ammettere questo sentimento. Oppure, la raccolta dati durante visite mediche intense potrebbe non essere il momento ideale per esplorare a fondo un tema così personale. È anche possibile che in contesti di grande difficoltà economica e sociale, come il Bronx (che è una delle aree più povere degli Stati Uniti), le preoccupazioni primarie siano altre, legate alla sopravvivenza quotidiana. Resta il fatto che i fattori di rischio per l’isolamento (vivere soli, non essere sposati) sono molto presenti in questo gruppo.

Fotografia di ritratto di una donna anziana, di circa 80 anni, che guardava in modo pensamente fuori dalla sua finestra di appartamento nel Bronx in una giornata leggermente nuvolosa. Concentrati sulla sua espressione che trasmette un mix di resilienza e forse un pizzico di solitudine. Usa una lente primaria, 35 mm, profondità di campo, illuminazione naturale, colori leggermente desaturati.

Chi rischia di più? Identikit dell’anziano a rischio

Lo studio non si è fermato ai numeri generali, ma ha cercato di capire quali caratteristiche fossero associate alla solitudine e ai fattori di rischio per l’isolamento. E qui le cose si fanno ancora più interessanti e complesse:

Chi si sente solo?

  • Chi vive da solo ha una probabilità 3,22 volte maggiore di sentirsi solo.
  • Chi ha sintomi depressivi (anche lievi, rilevati con un questionario chiamato PHQ-2) ha una probabilità più di 10 volte maggiore di sentirsi solo. La depressione e la solitudine spesso si alimentano a vicenda.
  • Avere più malattie croniche (comorbidità) aumenta leggermente il rischio.
  • Avere bisogno di aiuto per attività molto personali come lavarsi e curare l’igiene personale (grooming e bathing) quadruplica quasi il rischio di solitudine. Questo forse perché intacca l’autonomia più profonda e cambia le dinamiche relazionali. Curiosamente, chi aveva bisogno di aiuto per andare in bagno (toileting) aveva meno probabilità di sentirsi solo – un dato difficile da interpretare, forse legato a livelli diversi di assistenza ricevuta.
  • Avere una migliore funzione cognitiva (valutata con il test BIMS) sembra essere leggermente protettivo contro la solitudine.
  • Un dato inaspettato: dopo aver considerato tutti gli altri fattori, gli anziani afroamericani avevano minori probabilità di sentirsi soli rispetto ai bianchi caucasici. Questo contrasta con altre ricerche e merita approfondimenti; forse entrano in gioco reti di supporto comunitario o familiare specifiche.

Chi vive da solo?

  • Le donne sono molto più propense a vivere da sole rispetto agli uomini (quasi il 70% di chi viveva solo era donna).
  • Chi è sposato ha l’87% di probabilità in meno di vivere da solo (ovviamente!).
  • Gli anziani di origine asiatica avevano meno probabilità di vivere da soli rispetto ai bianchi caucasici.
  • Chi aveva sintomi depressivi o bisogno di aiuto per la cura personale (grooming) aveva meno probabilità di vivere da solo, forse perché condizioni più gravi rendono necessaria la convivenza con qualcuno.

Chi è sposato?

  • Gli ultraottantenni avevano meno probabilità di essere sposati rispetto alla fascia 65-79 anni.
  • Le donne avevano il 72% di probabilità in meno di essere sposate rispetto agli uomini (probabilmente per la maggiore longevità femminile e la tendenza degli uomini a risposarsi).
  • Essere sposati, come visto, riduceva il rischio di vivere da soli e anche, seppur in misura minore dopo aver considerato altri fattori, il rischio di sentirsi soli.

Questi risultati ci dicono che solitudine, vivere da soli e stato civile sono cose diverse, con fattori associati differenti. Non possiamo fare di tutta l’erba un fascio!

Immagine fotorealistica di un'infermiera di salute a domicilio compassionevole, a metà degli anni '40, diversa etnia (ad esempio, ispanico), controllando delicatamente la pressione sanguigna di un anziano uomo di colore seduto comodamente sulla sedia del suo soggiorno in un modesto appartamento del Bronx. Illuminazione interna calda e morbida da una lampada. Concentrati sull'interazione e il senso della cura e della fiducia. Utilizzare una lente Prime da 50 mm, profondità di campo poco profonda per offuscare leggermente lo scaffale di sfondo.

Cosa possiamo fare? L’importanza dell’assistenza domiciliare

Questo studio sottolinea una cosa fondamentale: l’assistenza sanitaria domiciliare (HHS) è un’occasione d’oro. Gli operatori sanitari entrano nelle case di persone altrimenti difficili da raggiungere, spesso fragili e isolate. Hanno la possibilità non solo di curare il corpo, ma anche di cogliere i segnali di disagio sociale ed emotivo.

Certo, ci sono sfide. Come abbiamo visto, usare una singola domanda sulla solitudine potrebbe non bastare. Servirebbero forse strumenti di valutazione più completi e meno stigmatizzanti, integrati magari nelle cartelle cliniche elettroniche (EHR). Queste cartelle sono una miniera di dati, ma vanno usate con cautela: non nascono per la ricerca e possono contenere errori o informazioni incomplete. Bisogna anche formare gli operatori a riconoscere e affrontare questi temi, superando eventuali imbarazzi o la sensazione che non sia “compito loro”.

La ricerca sta andando avanti per capire quali interventi funzionano meglio contro solitudine e isolamento: gruppi di incontro, supporto individuale, uso della tecnologia… Non c’è una ricetta unica, l’importante è personalizzare l’approccio. E poi c’è il ruolo delle politiche sociali: servono risorse per potenziare i servizi sul territorio, migliorare i trasporti, creare spazi di aggregazione accessibili a tutti, specialmente nelle aree più svantaggiate come quella dello studio.

Un pensiero finale

La solitudine e l’isolamento non sono un destino inevitabile dell’invecchiamento, ma sono rischi concreti, specialmente per chi affronta malattia e fragilità. Hanno un impatto pesante sulla salute fisica e mentale, aumentando il rischio di depressione, declino cognitivo, e persino mortalità. Occuparcene non è solo un atto di umanità, ma un investimento sulla salute della nostra comunità. Lo studio del Bronx, con i suoi dati su una popolazione così specifica e spesso trascurata dalla ricerca, ci lancia un messaggio forte: dobbiamo aprire gli occhi su questa realtà silenziosa e agire, sfruttando ogni occasione, come quella preziosa offerta dall’assistenza domiciliare, per non lasciare indietro nessuno.

Fonte: Springer

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