Anziani Soli a Casa? Scopriamo i Rischi Nascosti di Solitudine e Isolamento nell’Assistenza Domiciliare
Ciao a tutti, amici lettori! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi sta molto a cuore e che, purtroppo, tocca da vicino tantissime famiglie: la solitudine e l’isolamento sociale tra i nostri anziani, specialmente quelli che, dopo un ricovero in ospedale, ricevono assistenza direttamente a casa. Sembra un controsenso, vero? Assistiti, ma potenzialmente soli. Eppure, è una realtà più diffusa di quanto pensiamo.
Mi sono imbattuto in uno studio affascinante che ha cercato di fare luce proprio su questo fenomeno, analizzando i dati di oltre 2000 anziani residenti nel Bronx, a New York, una zona incredibilmente variegata dal punto de vista etnico e sociale. E i risultati, ve lo dico subito, fanno riflettere parecchio.
Ma prima, capiamoci: Solitudine e Isolamento sono la stessa cosa?
Spesso usiamo questi termini come sinonimi, ma in realtà c’è una bella differenza. L’isolamento sociale è una condizione oggettiva: riguarda la mancanza concreta di contatti, il numero ridotto di persone nella nostra rete sociale, il vivere da soli o non essere sposati. La solitudine, invece, è un sentimento soggettivo: è quella sensazione spiacevole di insoddisfazione per la qualità o la quantità delle nostre relazioni. Si può essere circondati da persone e sentirsi terribilmente soli, così come si può vivere da soli senza provare solitudine. Certo, le due cose spesso vanno a braccetto, ma non sono la stessa medaglia.
Perché proprio gli anziani in assistenza domiciliare?
Questo gruppo di persone è particolarmente vulnerabile. Pensateci: spesso reduci da un ricovero, magari con più patologie (la cosiddetta multimorbilità) e con una ridotta capacità di muoversi o di svolgere le attività quotidiane (il declino funzionale). La casa diventa un po’ una prigione dorata e il bisogno di supporto – non solo fisico, ma anche emotivo e sociale – diventa enorme. Hanno bisogno di aiuto per le medicine, per le faccende, per andare alle visite, ma anche, e forse soprattutto, di una compagnia, di una parola amica. Questo periodo di transizione dall’ospedale a casa è delicatissimo.
Cosa ha scoperto lo studio nel Bronx?
Analizzando i dati raccolti durante le visite di assistenza domiciliare (grazie a un sistema chiamato OASIS-E e alle cartelle cliniche elettroniche), i ricercatori hanno fotografato una situazione interessante:
- Circa il 29,5% degli anziani viveva da solo.
- Solo il 33,5% era sposato (il che significa che due terzi non lo erano, tra vedovi, divorziati, single…).
- L’11,6% ha dichiarato di sentirsi solo “almeno qualche volta”.
Un momento… solo l’11,6% si sente solo? Questo dato mi ha colpito. Altre ricerche a livello nazionale negli USA parlano di percentuali molto più alte, fino al 43%! Come mai questa differenza? Gli autori dello studio suggeriscono alcune ipotesi: forse la domanda specifica usata (“Quanto spesso si sente solo o isolato?”) può essere percepita come stigmatizzante, portando le persone a non ammettere questo sentimento. Oppure, la raccolta dati durante visite mediche intense potrebbe non essere il momento ideale per esplorare a fondo un tema così personale. È anche possibile che in contesti di grande difficoltà economica e sociale, come il Bronx (che è una delle aree più povere degli Stati Uniti), le preoccupazioni primarie siano altre, legate alla sopravvivenza quotidiana. Resta il fatto che i fattori di rischio per l’isolamento (vivere soli, non essere sposati) sono molto presenti in questo gruppo.
Chi rischia di più? Identikit dell’anziano a rischio
Lo studio non si è fermato ai numeri generali, ma ha cercato di capire quali caratteristiche fossero associate alla solitudine e ai fattori di rischio per l’isolamento. E qui le cose si fanno ancora più interessanti e complesse:
Chi si sente solo?
- Chi vive da solo ha una probabilità 3,22 volte maggiore di sentirsi solo.
- Chi ha sintomi depressivi (anche lievi, rilevati con un questionario chiamato PHQ-2) ha una probabilità più di 10 volte maggiore di sentirsi solo. La depressione e la solitudine spesso si alimentano a vicenda.
- Avere più malattie croniche (comorbidità) aumenta leggermente il rischio.
- Avere bisogno di aiuto per attività molto personali come lavarsi e curare l’igiene personale (grooming e bathing) quadruplica quasi il rischio di solitudine. Questo forse perché intacca l’autonomia più profonda e cambia le dinamiche relazionali. Curiosamente, chi aveva bisogno di aiuto per andare in bagno (toileting) aveva meno probabilità di sentirsi solo – un dato difficile da interpretare, forse legato a livelli diversi di assistenza ricevuta.
- Avere una migliore funzione cognitiva (valutata con il test BIMS) sembra essere leggermente protettivo contro la solitudine.
- Un dato inaspettato: dopo aver considerato tutti gli altri fattori, gli anziani afroamericani avevano minori probabilità di sentirsi soli rispetto ai bianchi caucasici. Questo contrasta con altre ricerche e merita approfondimenti; forse entrano in gioco reti di supporto comunitario o familiare specifiche.
Chi vive da solo?
- Le donne sono molto più propense a vivere da sole rispetto agli uomini (quasi il 70% di chi viveva solo era donna).
- Chi è sposato ha l’87% di probabilità in meno di vivere da solo (ovviamente!).
- Gli anziani di origine asiatica avevano meno probabilità di vivere da soli rispetto ai bianchi caucasici.
- Chi aveva sintomi depressivi o bisogno di aiuto per la cura personale (grooming) aveva meno probabilità di vivere da solo, forse perché condizioni più gravi rendono necessaria la convivenza con qualcuno.
Chi è sposato?
- Gli ultraottantenni avevano meno probabilità di essere sposati rispetto alla fascia 65-79 anni.
- Le donne avevano il 72% di probabilità in meno di essere sposate rispetto agli uomini (probabilmente per la maggiore longevità femminile e la tendenza degli uomini a risposarsi).
- Essere sposati, come visto, riduceva il rischio di vivere da soli e anche, seppur in misura minore dopo aver considerato altri fattori, il rischio di sentirsi soli.
Questi risultati ci dicono che solitudine, vivere da soli e stato civile sono cose diverse, con fattori associati differenti. Non possiamo fare di tutta l’erba un fascio!
Cosa possiamo fare? L’importanza dell’assistenza domiciliare
Questo studio sottolinea una cosa fondamentale: l’assistenza sanitaria domiciliare (HHS) è un’occasione d’oro. Gli operatori sanitari entrano nelle case di persone altrimenti difficili da raggiungere, spesso fragili e isolate. Hanno la possibilità non solo di curare il corpo, ma anche di cogliere i segnali di disagio sociale ed emotivo.
Certo, ci sono sfide. Come abbiamo visto, usare una singola domanda sulla solitudine potrebbe non bastare. Servirebbero forse strumenti di valutazione più completi e meno stigmatizzanti, integrati magari nelle cartelle cliniche elettroniche (EHR). Queste cartelle sono una miniera di dati, ma vanno usate con cautela: non nascono per la ricerca e possono contenere errori o informazioni incomplete. Bisogna anche formare gli operatori a riconoscere e affrontare questi temi, superando eventuali imbarazzi o la sensazione che non sia “compito loro”.
La ricerca sta andando avanti per capire quali interventi funzionano meglio contro solitudine e isolamento: gruppi di incontro, supporto individuale, uso della tecnologia… Non c’è una ricetta unica, l’importante è personalizzare l’approccio. E poi c’è il ruolo delle politiche sociali: servono risorse per potenziare i servizi sul territorio, migliorare i trasporti, creare spazi di aggregazione accessibili a tutti, specialmente nelle aree più svantaggiate come quella dello studio.
Un pensiero finale
La solitudine e l’isolamento non sono un destino inevitabile dell’invecchiamento, ma sono rischi concreti, specialmente per chi affronta malattia e fragilità. Hanno un impatto pesante sulla salute fisica e mentale, aumentando il rischio di depressione, declino cognitivo, e persino mortalità. Occuparcene non è solo un atto di umanità, ma un investimento sulla salute della nostra comunità. Lo studio del Bronx, con i suoi dati su una popolazione così specifica e spesso trascurata dalla ricerca, ci lancia un messaggio forte: dobbiamo aprire gli occhi su questa realtà silenziosa e agire, sfruttando ogni occasione, come quella preziosa offerta dall’assistenza domiciliare, per non lasciare indietro nessuno.
Fonte: Springer