Fotografia realistica di due mani, una con guanto da paramedico di colore blu e l'altra, di carnagione più scura, appartenente a una persona indigena, che si stringono delicatamente e con rispetto. Lo sfondo è neutro e caldo, leggermente sfocato. Obiettivo prime 50mm, profondità di campo ridotta per mettere a fuoco le mani, luce morbida e diffusa che simboleggia fiducia, comprensione e connessione umana.

Soccorritori e Sicurezza Culturale: Ma Ci Capiamo Davvero Quando l’Emergenza Chiama?

Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in una riflessione che, lo ammetto, mi ha fatto parecchio pensare. Parliamo di un tema tosto, di quelli che toccano corde profonde sia a livello umano che professionale: la sicurezza culturale nell’assistenza sanitaria, e in particolare nel mondo, spesso frenetico e ad alta tensione, dei paramedici. Mi sono imbattuto in uno studio australiano che ha messo il dito proprio lì, in quella che sembra essere una piaga, o quantomeno un’area grigia, nel rapporto tra chi soccorre e chi viene soccorso, specialmente quando si tratta di popolazioni indigene come gli Aborigeni e gli Isolani dello Stretto di Torres.

Vi siete mai chiesti cosa significhi davvero “sicurezza culturale”? Non è solo una bella parola da inserire nei manuali, o almeno non dovrebbe esserlo. È qualcosa di molto più profondo, che affonda le radici nel riconoscimento della storia, del potere e delle dinamiche sociali che influenzano la salute e il benessere delle persone. E, a quanto pare, nel contesto dei paramedici australiani, c’è ancora molta strada da fare.

Una Ferita Storica Ancora Aperta

Prima di addentrarci nello studio, facciamo un passo indietro. Le popolazioni Aborigene e Isolane dello Stretto di Torres abitano l’Australia da oltre 65.000 anni. La colonizzazione, come ben sappiamo, ha portato distruzione, frammentazione delle comunità, perdita delle terre e delle pratiche culturali. Un trauma intergenerazionale che si riflette ancora oggi in tassi più alti di disoccupazione, incarcerazione, problemi abitativi e malattie croniche. Nonostante queste comunità abbiano una visione olistica della salute – che include benessere mentale, fisico, culturale e spirituale – l’impatto del colonialismo è devastante e si traduce in tassi di morbilità e mortalità sproporzionatamente alti.

La società odierna, spesso, perpetua una narrazione dominante basata su “verità” occidentali, alimentando un discorso che sminuisce queste culture e, di fatto, continua ad applicare approcci coloniali. Si è tentato, nel tempo, di affrontare queste disparità con concetti come “consapevolezza culturale”, “sensibilità culturale” o “competenza culturale”. Ma, diciamocelo francamente, spesso queste etichette si sono rivelate un po’ superficiali, promuovendo una visione ristretta della cultura, normalizzando stereotipi e minimizzando l’influenza delle strutture socio-politiche. Insomma, non hanno scalfito le radici del problema.

La Sicurezza Culturale: Un Cambio di Paradigma?

Ed è qui che entra in gioco la sicurezza culturale. Nata in Nuova Zelanda grazie all’infermiera e studiosa Māori, la Dott.ssa Irihapeti Ramsden, questo approccio si fonda sulla teoria sociale critica e si colloca in un contesto post-coloniale. Il suo cuore pulsante? Il riconoscimento delle strutture di potere socio-politiche esistenti e la consapevolezza che le popolazioni indigene ricevono cure in un contesto segnato dal colonialismo e dal razzismo sistemico. Non si tratta solo di “essere gentili”, ma di decolonizzare l’assistenza, essere consapevoli delle relazioni di potere e implementare pratiche riflessive.

In Australia, sia gli ordini degli infermieri e delle ostetriche che quello dei paramedici hanno inserito la sicurezza culturale tra gli standard professionali. I paramedici, ad esempio, dovrebbero riconoscere la storia coloniale, essere consapevoli dei propri pregiudizi, valorizzare l’autodeterminazione dei pazienti indigeni e creare un ambiente sicuro. Bello sulla carta, vero? Ma la ricerca, soprattutto in ambito infermieristico, mostra che la comprensione e l’applicazione della sicurezza culturale sono spesso carenti. E per i paramedici? Fino a poco tempo fa, un grande vuoto.

Fotografia realistica di un paramedico in divisa, pensieroso, che guarda fuori dal finestrino di un'ambulanza in una zona rurale australiana al tramonto. Obiettivo prime 35mm, profondità di campo che sfoca leggermente lo sfondo, luce calda del tramonto che crea un'atmosfera riflessiva, duotone seppia e blu scuro.

Pensate che uno studio ha rivelato come alcuni infermieri non riuscissero a distinguere la sicurezza culturale da altri concetti simili, o pur definendola correttamente, mancavano di riflessione critica, cadendo in stereotipi razziali. Addirittura, in un’altra ricerca, su dieci infermieri specializzati intervistati, nove hanno risposto “no” alla domanda “Fornisci cure culturalmente sicure?”. Cifre che fanno riflettere, no?

Lo Studio Pilota: Voce ai Paramedici

Ed eccoci allo studio che ha catturato la mia attenzione. Un piccolo studio pilota, qualitativo, che ha voluto esplorare proprio come i paramedici australiani comprendono e percepiscono la sicurezza culturale e la sua applicazione pratica. Hanno intervistato sei paramedici con esperienza variabile (da 5 a 17 anni), sia da zone metropolitane che rurali. Le interviste, semi-strutturate, sono state trascritte e analizzate a fondo, cercando di far emergere i temi ricorrenti.

L’obiettivo era chiaro: capire cosa sanno i paramedici della sicurezza culturale per poter, un domani, migliorare davvero gli esiti di salute delle popolazioni Aborigene e Isolane dello Stretto di Torres nel contesto pre-ospedaliero. Un compito non da poco, considerando che il tempo e le risorse erano quelle di un progetto pilota.

I Risultati: Un Quadro a Luci e Ombre (Più Ombre, a Dire il Vero)

Dall’analisi dei dati sono emersi quattro temi principali. E qui, preparatevi, perché la situazione non è rosea.

  • Caratteristiche dell’assistenza culturalmente sicura: I partecipanti hanno parlato di rispetto (anche se alcuni lo consideravano un dovere generico verso tutti i pazienti, non specifico per la sicurezza culturale), non maleficenza (cioè non nuocere, non offendere, agire con consenso) e rispondere ai bisogni individuali. Un partecipante ha però sottolineato come l’ambiente pre-ospedaliero spesso non offra opportunità in linea con i valori e i bisogni dei pazienti indigeni.
  • Approcci alla pratica clinica: Qui le cose si complicano. È emerso che le priorità cliniche spesso sovrastano le considerazioni culturali, specialmente in situazioni critiche (“Più un paziente è grave, meno viene trattato come un individuo”, ha detto uno). L’identità culturale del paziente non è “in cima ai pensieri”; spesso si aspettano “indizi visivi” per attivarla. Si percepisce molta cautela e timore di sbagliare, di offendere. E, dato preoccupante, alcuni hanno affermato di trattare tutti allo stesso modo, senza specifiche considerazioni culturali, convinti di fornire comunque uno standard elevato.
  • Stereotipi di inferiorità: Questo è un tasto dolente. Tre partecipanti hanno riconosciuto la presenza di pregiudizi e giudizi nella pratica paramedica. Alcuni hanno attribuito questi stereotipi negativi alla natura stessa del lavoro del paramedico, chiamato solo per le emergenze, che possono essere di natura violenta, creando così percezioni distorte. E sì, gli stereotipi negativi verso le popolazioni indigene sono ancora presenti, con commenti del tipo “l’alcol era sempre coinvolto… con queste particolari persone”. Frasi che gelano il sangue.
  • Formazione: Un coro quasi unanime sulla mancanza di formazione adeguata, sia a livello universitario che continuo. E quella poca ricevuta, spesso non era specifica per il contesto paramedico, ma generica per l’assistenza sanitaria. Di conseguenza, emerge forte il bisogno di più formazione.

Macro fotografia di un manuale di formazione per paramedici aperto su una pagina intitolata 'Sicurezza Culturale'. Accanto, una penna e degli appunti scritti a mano. Illuminazione da studio controllata, alta definizione, obiettivo macro 100mm per evidenziare il testo e la texture della carta.

L’Analisi Critica: Quando le Parole Nascondono Altro

Ora, la parte più interessante. I ricercatori hanno analizzato questi temi alla luce dei cinque principi chiave della sicurezza culturale: decolonizzazione, squilibri di potere, riflessività, dialogo e cura rispettosa. E indovinate un po’? I principi di decolonizzazione, squilibri di potere e riflessività erano praticamente assenti nelle parole dei paramedici. Nessun riferimento alla storia coloniale o al suo impatto. Nessuna consapevolezza degli squilibri di potere, anzi, a volte emergevano visioni basate sul deficit. E la riflessività? Poca o nulla. Si riconoscevano i pregiudizi altrui, ma non i propri, né come questi potessero influenzare l’interazione con i pazienti.

Il dialogo e la cura rispettosa sembravano presenti, ma in modo superficiale. Si parlava di importanza di non offendere e di rispettare, ma poi, nella pratica, si ammetteva di trattare tutti allo stesso modo. Una contraddizione bella e buona.

Ma non è finita qui. I ricercatori hanno usato anche la lente del “razzismo democratico“. Un concetto forte, che descrive come, in società democratiche e liberali, si tenda a ignorare le implicazioni persistenti delle ideologie razziste, considerando la società come giusta ed equa. Il razzismo palese è meno comune, ma si manifesta in discorsi ambivalenti e contraddittori che cercano di nascondere o giustificare certi sentimenti, normalizzando la discriminazione e negando il pregiudizio.

Ebbene, nelle parole dei paramedici sono emerse tracce di questo:

  • Linguaggio che crea un “noi” e un “loro” (othering) e visioni basate sul deficit (“quelle particolari persone”).
  • Negazione: nessun riferimento al colonialismo, minimizzazione del suo impatto. “La maggior parte delle persone sono brave persone che cercano di fare la cosa giusta. Ma se semplicemente non hanno sentito parlare di qualcosa… non penseranno a chiederlo”. Una giustificazione che sposta il focus dal sistema all’individuo ignaro.
  • Culturalismo: l’idea che una maggiore educazione sulle “diverse culture” sia la soluzione, distogliendo l’attenzione dalle influenze strutturali e ideologiche.
  • Correttezza politica: l’esitazione nel parlare, la paura di dire la cosa sbagliata, che paradossalmente evita di affrontare il razzismo.
  • Egalitarismo: “tratto tutti allo stesso modo”. Un approccio che suona bene, ma che ignora le disuguaglianze sistemiche e il fatto che per trattare le persone in modo equo, a volte bisogna trattarle in modo diverso, riconoscendo i loro specifici bisogni e contesti. L’assistenza orientata all’equità, non all’uguaglianza, è quella che produce risultati migliori.

Questo “trattare tutti allo stesso modo” nega l’impatto del contesto socio-politico e, di fatto, può peggiorare gli esiti di salute per le popolazioni indigene. Il discorso basato sul deficit, poi, sposta la colpa sul gruppo colpito (“sono loro il problema”), invece che sul sistema sanitario e sulle strutture socio-economiche.

Cosa Ci Dice Tutto Questo? Un Appello Urgente

Quello che emerge da questo studio pilota, seppur piccolo, è preoccupante. Suggerisce che la sicurezza culturale è ampiamente fraintesa e mal implementata dai paramedici coinvolti. I concetti espressi non riflettono i principi fondamentali di decolonizzazione, consapevolezza degli squilibri di potere e riflessività. Anzi, le pratiche descritte assomigliano più a quegli approcci basati sul deficit che la sicurezza culturale cerca di superare.

Se la sicurezza culturale è uno standard professionale, ma non viene compresa né applicata, allora l’assistenza pre-ospedaliera rischia di diventare un’altra vulnerabilità strutturale per le popolazioni Aborigene e Isolane dello Stretto di Torres. E questo è inaccettabile.

Fotografia grandangolare di un paesaggio australiano al crepuscolo, con un'ambulanza solitaria parcheggiata su una strada sterrata. Il cielo è drammatico, con nuvole illuminate dagli ultimi raggi di sole. Obiettivo grandangolare 16mm, lunga esposizione per catturare la luce residua e creare un senso di vastità e isolamento.

C’è un bisogno disperato di inserire discussioni sulla sicurezza culturale nella formazione e nella pratica quotidiana dei paramedici. Una formazione che non sia solo un’infarinatura, ma che scavi a fondo, che promuova la riflessività critica, che faccia comprendere il contesto coloniale e gli squilibri di potere. E, fondamentale, che sia co-progettata e guidata da gruppi di consulenza culturale Aborigeni e Isolani dello Stretto di Torres.

Questo studio è solo un inizio, una goccia nell’oceano, ma accende un faro su una questione cruciale. La speranza è che stimoli ricerche più ampie e, soprattutto, azioni concrete. Perché la salute è un diritto, e la sicurezza culturale è una componente imprescindibile per garantirlo a tutti, senza distinzioni, ma con la giusta attenzione alle specificità di ognuno. E voi, cosa ne pensate? Vi eravate mai soffermati su questo aspetto del soccorso?

Fonte: Springer

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