Siccità Fatale? No, Trasformazione! Come le Foreste Catalane Cambiano Volto Sotto Stress Climatico
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ particolare, nel cuore delle foreste di pino silvestre (*Pinus sylvestris*) della Catalogna, nel nord-est della Spagna. Luoghi magnifici, certo, ma che stanno vivendo momenti difficili a causa di un nemico sempre più pressante: la siccità, resa ancora più cattiva dai cambiamenti climatici.
Sapete, si parla tanto di come la siccità faccia morire gli alberi, ed è vero, è un dramma che vediamo ripetersi in tutto il mondo. Ma mi sono sempre chiesto: cosa succede *dopo*? Quando una parte della foresta muore, cosa prende il suo posto? La foresta si arrende o trova un modo per reagire, magari cambiando pelle?
Proprio per rispondere a queste domande, ho seguito da vicino uno studio affascinante che ha monitorato queste foreste catalane per ben 10 anni, dopo un brutto episodio di moria causato dalla siccità del 2012 (e aggravato, come spesso accade, da attacchi di insetti come il bostrico). L’idea era semplice ma potente: confrontare le zone dove i pini erano morti (chiamiamole “zone die-off”) con zone vicine rimaste più o meno intatte (le “zone di controllo”). Volevamo capire se e come la diversità delle piante legnose (alberi, arbusti, giovani piantine) stesse cambiando nel tempo, tenendo anche conto delle differenze climatiche locali – perché, ovviamente, non tutte le zone sono uguali, alcune sono più calde e secche di altre.
Quando la foresta si apre: più spazio, più vita?
La prima cosa che è saltata all’occhio, monitorando le aree anno dopo anno (nel 2013, 2017 e 2022), è stata una sorpresa, almeno per me. Nelle zone colpite dalla moria, dopo 5 e 10 anni, la ricchezza di specie arboree e la diversità generale erano *maggiori* rispetto alle zone di controllo! Sembra un paradosso, vero? La morte che porta più vita?
In realtà, ha un suo senso. Quando i pini dominanti muoiono, si aprono spazi nella chioma. Meno alberi significa meno competizione per la luce, l’acqua e i nutrienti. È un po’ come se si liberasse un appartamento in un condominio affollato: subito qualcuno cerca di occuparlo! E chi arriva? Beh, qui le cose si fanno interessanti, soprattutto guardando le zone più calde e aride lungo il gradiente climatico studiato.
Proprio in queste aree più “difficili”, l’aumento della diversità è stato più marcato. Non solo più specie diverse, ma anche una distribuzione più “equa” tra le specie presenti (quella che noi scienziati chiamiamo “evenness” o equitabilità). Cosa significa tutto questo? Che la foresta non stava semplicemente “ricrescendo a caso”, ma stava subendo una vera e propria trasformazione.

Il Pino Silvestre cede il passo: arriva la macchia mediterranea?
E qui arriva il bello. Le specie che approfittavano degli spazi lasciati liberi dai pini silvestri morti non erano (solo) altri pini silvestri. Anzi! Abbiamo visto un aumento significativo di specie tipiche di climi più caldi e secchi, quelle che associamo alla macchia mediterranea o sub-mediterranea. Parliamo di querce come il leccio (*Quercus ilex*) e la roverella (*Quercus humilis*), ma anche aceri (*Acer monspessulanum*), biancospini (*Crataegus monogyna*), frassini (*Fraxinus excelsior*), ilatri (*Phillyrea latifolia*), ciliegi selvatici (*Prunus mahaleb*) e sorbi (*Sorbus aria*).
In pratica, nelle zone più esposte alla siccità e al caldo, la moria dei pini stava accelerando una transizione verso un tipo di foresta potenzialmente più adatta alle nuove condizioni climatiche. Il pino silvestre, che magari si trovava già al limite della sua area di distribuzione in quelle zone, soffriva di più la siccità, moriva, e lasciava spazio a specie più resistenti o tolleranti. È affascinante pensare a come la natura, anche attraverso eventi traumatici come una moria, trovi strade per adattarsi.
Il futuro è già qui? Cosa ci dicono le giovani piantine
Ma un conto sono gli alberi adulti, un altro è capire se questo cambiamento ha radici profonde, se è destinato a durare. Per questo, nel 2022, abbiamo guardato con attenzione anche il “vivaio” della foresta: le giovani piantine e gli alberelli (i cosiddetti “recruits”). E anche qui, i risultati sono stati illuminanti.
Nelle zone die-off, la ricchezza di specie e l’equitabilità tra le specie erano significativamente più alte (rispettivamente +36% e +42%) tra le piantine più grandi (quelle già alte più di 130 cm ma non ancora considerate alberi adulti). Questo suggerisce che non solo arrivano semi di specie diverse, ma queste nuove arrivate riescono a sopravvivere e crescere meglio dove c’è meno competizione con i pini adulti. Forse anche grazie alla maggiore complessità creata dal legno morto a terra, che può trattenere umidità e proteggere le piantine.
Ancora più importante: nelle zone colpite dalla moria, la somiglianza tra le specie presenti nello strato arboreo adulto e quelle presenti tra le giovani leve era maggiore (+29%) rispetto alle zone di controllo. Questo è un indizio forte! Ci dice che le nuove specie che si stanno affermando tra gli adulti (le querce, gli aceri…) sono anche ben rappresentate tra i giovani. Non è solo un cambiamento temporaneo, ma un vero e proprio processo di sostituzione e consolidamento della nuova composizione forestale. C’è una maggiore “continuità” tra presente e futuro in queste aree trasformate dalla siccità. Nelle zone di controllo, invece, sembra esserci più “scollamento” tra chi domina sopra e chi cresce sotto.

Non solo alberi: anche gli arbusti cambiano volto
E gli arbusti? Anche loro seguono un copione simile. Nelle zone die-off situate ai margini più secchi del gradiente climatico, abbiamo trovato una maggiore ricchezza, diversità ed equitabilità di specie arbustive rispetto alle zone di controllo nelle stesse condizioni. Specie come l’erica (*Erica scoparia*), il ligustro (*Ligustrum vulgare*) e le rose selvatiche (*Rosa spp.*), tipiche di ambienti più mediterranei, sembravano avvantaggiate dall’apertura della foresta. Nelle zone più umide, invece, tendeva a dominare il bosso (*Buxus sempervirens*), riducendo la diversità arbustiva. Anche il sottobosco, quindi, racconta una storia di cambiamento guidato dal clima e dalla mortalità degli alberi.
Un’eredità inaspettata: la siccità come motore di adattamento?
Quindi, cosa ci portiamo a casa da questo viaggio nelle foreste catalane? Che la siccità, pur essendo un fattore di stress e mortalità enorme, può innescare processi inaspettati. In questo caso, sembra stia agendo come un filtro selettivo, accelerando la transizione delle foreste di pino silvestre verso composizioni più ricche di specie latifoglie, tipiche di climi più caldi e secchi, proprio dove queste condizioni si fanno sentire di più.
Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle aree al limite dell’areale del pino silvestre, dove questa specie è più vulnerabile. La moria apre la porta a specie come le querce, che magari erano già presenti nel sottobosco in attesa della loro occasione, o che arrivano da zone vicine. Queste specie, spesso dotate di strategie per resistere meglio alla siccità (come radici profonde o capacità di ricacciare dopo un danno), trovano terreno fertile per crescere e affermarsi.
Il fatto che questo cambiamento si rifletta anche nelle giovani generazioni (i recruits) e che ci sia una maggiore somiglianza tra adulti e giovani nelle aree colpite, suggerisce che non si tratta di un fenomeno effimero. La foresta si sta riorganizzando, sta “imparando” a convivere con un clima che cambia.
Certo, questo non significa che la siccità sia una “cosa buona”. La perdita di alberi ha impatti ecologici ed economici enormi. E il futuro di queste foreste trasformate è ancora tutto da scrivere. Serviranno monitoraggi a lungo termine per capire la traiettoria definitiva di questi ecosistemi. Ma è fondamentale riconoscere questa dinamica: la natura, di fronte a una sfida come il cambiamento climatico, non è solo vittima passiva, ma può mettere in campo strategie di adattamento complesse e affascinanti. E studiarle ci aiuta a capire meglio come gestire le nostre foreste in un futuro che si preannuncia sempre più caldo e secco.
Fonte: Springer
