Liberia, Salute Mentale: Voci Diverse, Stesso Palcoscenico di Potere
Avete mai pensato a cosa succede quando si cerca di portare aiuto in contesti difficilissimi, magari su temi di cui nessuno vuole parlare? Ecco, oggi voglio portarvi con me in Liberia, un paese segnato da una guerra civile brutale, dove la salute mentale è un campo minato di stigma, traumi profondi e risorse quasi inesistenti. Qui, un’importante ONG internazionale, il Carter Center, ha lanciato un ambizioso programma di salute mentale. Ma, come spesso accade, le buone intenzioni si sono scontrate con una realtà complessa, fatta di significati diversi e giochi di potere tra chi era coinvolto.
Seguitemi in questo viaggio per capire come le diverse “verità” – quelle dell’ONG, del governo liberiano e degli operatori sanitari locali – si sono intrecciate (e a volte scontrate) con le diverse forme di potere che ognuno deteneva, finendo per plasmare il destino stesso del programma. È una storia affascinante che ci dice molto su come funziona davvero lo sviluppo internazionale, al di là delle brochure patinate.
Un Contesto Difficile: La Liberia Post-Conflitto e lo Stigma
Immaginate la Liberia all’indomani di una guerra civile durata dal 1989 al 2003: 250.000 morti, un milione di sfollati, infrastrutture distrutte, inclusa l’unica struttura psichiatrica del paese. Un trauma collettivo immenso. Nel 2022, il PIL pro capite era bassissimo (circa 754 USD), metà della popolazione sotto la soglia di povertà, e una dipendenza enorme dagli aiuti internazionali per la sanità.
In questo scenario, parlare di salute mentale è come toccare un nervo scoperto. Le ferite psicologiche della guerra sono ovunque: stress post-traumatico, violenze indicibili (si stima che tra il 61% e il 77% delle donne abbia subito violenza sessuale), ex bambini soldato. Ma lo stigma è fortissimo. Chi soffre di disturbi mentali spesso affronta rifiuto sociale, abusi. Persino gli operatori sanitari che se ne occupano vengono etichettati come “medici pazzi”. Molti liberiani, inoltre, interpretano i disturbi mentali più gravi attraverso una lente spirituale, vedendoli come frutto di stregoneria o punizioni divine, cercando aiuto prima da guaritori tradizionali e religiosi che nelle cliniche. Capite bene che lanciare un programma di salute mentale qui è una sfida titanica, aperta a mille interpretazioni.
L’Arrivo del Carter Center: Speranza o Complicazione?
È in questo contesto che nel 2010 entra in scena il Carter Center, fondato dall’ex presidente USA Jimmy Carter e sua moglie Rosalynn, da sempre molto attenta ai temi della salute mentale. L’idea era coraggiosa: non limitarsi a interventi tampone, ma costruire un sistema. La Liberia aveva un solo psichiatra all’epoca! L’approccio scelto è stato quello del “task shifting”: formare infermieri e assistenti medici già presenti sul territorio per diagnosticare e trattare disturbi mentali comuni e l’epilessia (spesso confusa con problemi psichiatrici) a livello di cure primarie. Un corso di sei mesi, con supporto per curriculum, docenti esperti, vitto e alloggio per i tirocinanti, e persino la creazione di esami di certificazione. Il governo liberiano, da parte sua, pagava gli stipendi durante la formazione e garantiva il reintegro al lavoro. Tra il 2010 e il 2021, sono stati formati e abilitati 308 operatori sanitari specializzati in salute mentale. Un risultato notevole, sulla carta. Ma come è stato vissuto e interpretato questo sforzo dai diversi attori?
Le Voci in Campo: Cosa Pensano Davvero?
Qui le cose si fanno interessanti, perché emerge chiaramente come ogni gruppo desse un senso diverso all’intera operazione, e come questo “senso” fosse legato al potere che deteneva (o non deteneva).
1. Il Carter Center (L’ONG Internazionale): Connessioni, Virtù, Expertise e… Conti
Per il personale del Carter Center, il programma affondava le radici nei legami personali dei Carter con la Liberia, un impegno che risaliva agli anni ’70. Questo legame conferiva un certo “potere di rete” (network power). C’era poi una forte componente di virtù: portare speranza in un paese devastato, affrontare un tema difficile e stigmatizzato come la salute mentale, “colmare un vuoto” lasciato da altri. Questo rafforzava il loro “potere morale”. Si sentivano esperti (expertise), forti della loro esperienza negli USA e in altri contesti (come l’Etiopia, da cui avevano mutuato il modello formativo), il che dava loro “potere epistemico” (legato alla conoscenza). Vedevano il programma come un modo per costruire capacità locali sostenibili, da passare poi al governo. Tuttavia, soprattutto ai vertici in Atlanta, c’era anche preoccupazione per i costi e per la mancanza di dati chiari sull’impatto reale sui pazienti. Quanti ne venivano effettivamente curati? Con quali risultati? Questa incertezza metteva in discussione il sostegno finanziario a lungo termine, mostrando il “potere economico” dell’ONG di decidere se continuare a finanziare o meno.
2. Il Governo Liberiano: Autorità Formale, Tasche Vuote
I funzionari governativi vedevano il programma, sì, come un’iniziativa virtuosa e riconoscevano l’expertise dell’ONG, ma lo inquadravano principalmente come un programma governativo. Dopotutto, erano stati loro ad approvarlo, a partecipare alla progettazione, a inserirlo (almeno nominalmente) nelle priorità sanitarie. Avevano l'”autorità istituzionale” per decidere. Il problema? Un’autorità con pochissimo “potere economico”. Il budget statale era risicatissimo, gran parte assorbito dai costi del personale. La salute mentale, per quanto riconosciuta come importante, finiva in fondo alla lista delle priorità, dietro a malattie come tubercolosi, malaria, mortalità materna. Inoltre, la percezione (legata anche alle credenze culturali) era che la domanda pubblica per questi servizi non fosse poi così alta. Potevano dare l’ok al programma, ma non avevano i soldi per garantirne la sostenibilità futura (formazione continua, stipendi adeguati, farmaci psicotropi, supervisione). Si affidavano, forse con un po’ di speranza, alle risorse dell’ONG.
3. I Clinici di Salute Mentale Locali: Tra Vocazione, Aspirazioni e Frustrazione
E infine, gli operatori formati. Loro vivevano il programma sulla propria pelle. C’era la vocazione, il desiderio di aiutare persone sofferenti, spesso condividendo essi stessi traumi passati. Si vedevano come esperti, specialisti con competenze uniche, non più semplici infermieri generici. Ma questa percezione si scontrava con una realtà difficile. Molti venivano assegnati in zone remote, senza supporto adeguato, a volte non riconosciuti dai supervisori che li impiegavano in compiti generici. Mancava supervisione psichiatrica e formazione continua. E poi c’era l’aspetto economico: si aspettavano che la specializzazione portasse a un avanzamento di carriera e a uno stipendio migliore, cosa che non avveniva a causa dei vincoli di bilancio del governo. La loro aspirazione a un miglioramento economico e professionale si infrangeva contro il muro della scarsità di risorse statali. Il loro potere morale ed epistemico era debole. Cosa restava? Le “armi dei deboli“: lamentarsi, ridurre la propria presenza sul posto di lavoro, o addirittura andarsene per cercare impieghi migliori in altri programmi sanitari finanziati da donatori.
Il Nocciolo del Problema: Significati Divergenti e Scontri di Potere
Vedete l’intreccio? Ognuno guardava al programma con lenti diverse, modellate dalle proprie esperienze, interessi e dal potere che poteva esercitare.
- L’ONG puntava sulla sostenibilità e sull’impatto misurabile, forte del suo potere economico e di expertise, ma legata anche a logiche interne e alla “visione” dei fondatori.
- Il governo rivendicava la sua autorità istituzionale, ma era paralizzato dalla mancanza di potere economico, costretto a barcamenarsi tra mille priorità urgenti.
- I clinici cercavano riconoscimento professionale ed economico per il loro lavoro difficile e virtuoso, ma avevano poco potere contrattuale e usavano l’uscita (exit) o la non-collaborazione come forma di resistenza.
Questa mancanza di allineamento nei significati e negli obiettivi, amplificata dalle differenze di potere, ha creato una serie di problemi concreti.
Le Conseguenze sul Campo: Un Programma Sotto Tensione
Il governo dipendeva dall’ONG per finanziare le formazioni (quasi 100.000 USD a gruppo!), ma avrebbe preferito che l’ONG investisse in modo più ampio, magari supportando un dipartimento universitario. L’ONG, dal canto suo, si aspettava che il governo prendesse in mano le redini della formazione, ma questo non accadeva per mancanza di fondi. Quando nel 2022 il governo ha chiesto all’ONG di finanziare un altro ciclo formativo, l’ONG ha preso tempo, cercando una “strategia d’uscita” chiara, sentendosi intrappolata tra il desiderio di mantenere il suo impegno (potere morale e di rete) e la necessità di dimostrare la sostenibilità del suo modello (potere epistemico).
I clinici, frustrati dalla mancanza di supporto, stipendi bassi e frequenti carenze di farmaci psicotropi nelle cliniche pubbliche (un problema enorme!), iniziavano a lasciare i loro posti. Un paradosso: un programma nato per costruire capacità finiva per minarle, perché gli operatori formati cercavano condizioni migliori altrove. Di fronte a questa impasse, sia il governo che l’ONG hanno cercato alternative. Il governo ha iniziato a parlare di maggiore coinvolgimento comunitario, riconoscendo i propri limiti economici. L’ONG ha iniziato a supportare un gruppo di advocacy formato da utenti dei servizi di salute mentale, sperando che potessero fare pressione sul governo dall’interno per ottenere più fondi (qualcosa è stato ottenuto, ma briciole rispetto al bisogno reale).
Cosa Impariamo da Questa Storia?
Questa storia liberiana, secondo me, ci insegna alcune cose fondamentali sui progetti di sviluppo, specialmente in contesti fragili e su temi complessi:
* Non esistono attori passivi: Il governo locale e i partecipanti non sono semplici “ricevitori” di aiuto, ma attori con le loro idee, i loro interessi e il loro potere (anche se limitato) di influenzare le cose. Come capiscono un progetto determina come lo vivono e lo implementano.
* Il potere conta, sempre: Le ONG, anche le più potenti, dipendono dall’autorità istituzionale dei governi ospitanti. Ma l’autorità senza risorse economiche è debole. E anche chi sembra avere meno potere, come i clinici, può trovare modi per farsi sentire, anche solo andandosene.
* Il “senso” non è mai unico: Ogni attore costruisce il proprio significato del progetto, basato sulle proprie aspettative, esperienze e sulla propria posizione di potere. Ignorare queste divergenze è pericoloso.
* Le aspettative possono essere illusioni: Spesso i progetti si basano sulla speranza che le cose cambino in futuro (più risorse governative, maggiore priorità politica). Ma queste speranze possono non concretizzarsi.
Insomma, il caso della Liberia ci mostra in modo potente che non si può separare il “dare senso” (meaning-making) dalle dinamiche di potere. Dopo 12 anni, l’incapacità di trovare un terreno comune di significati e obiettivi, proprio a causa di questi squilibri di potere, ha lasciato il programma in una sorta de limbo, incapace di superare gli ostacoli strutturali per fornire davvero cure a chi ne ha bisogno.
Resta da chiedersi: come si possono allineare meglio questi significati in futuro? È possibile farlo davvero, date le inevitabili differenze di potere? E cosa serve perché temi cruciali ma “scomodi” come la salute mentale diventino vere priorità, non solo sulla carta? Domande aperte, ma cruciali se vogliamo che l’aiuto allo sviluppo sia davvero efficace.
Fonte: Springer