Fotografia sportiva, teleobiettivo zoom 100-400mm, alta velocità dell'otturatore. Un momento intenso di una partita di rugby giovanile con un placcaggio in corso tra due ragazzini (circa 11-12 anni), focus sull'azione e sulla potenziale collisione, spettatori sfocati sullo sfondo.

Placcaggi Vietati ai Minori di 12 Anni? Sicurezza o Gioco Snaturato?

Ciao a tutti! Oggi voglio chiacchierare con voi di un argomento che mi sta molto a cuore e che sta facendo discutere parecchio nel mondo dello sport giovanile, soprattutto quello di contatto come il rugby, il football americano o l’hockey su ghiaccio. La domanda è potente: ha senso ritardare l’introduzione dei placcaggi (o del body checking nell’hockey) fino a dopo i 12 anni? È una mossa per proteggere i nostri ragazzi o rischiamo di “ammorbidire” troppo il gioco, rendendoli impreparati per il futuro?

Parliamoci chiaro, la preoccupazione per le commozioni cerebrali legate allo sport (le famose SRC, Sports-Related Concussions) e per altri infortuni tra i giovani atleti è alle stelle. E non è campata in aria. C’è una crescente consapevolezza che i cervelli dei bambini e dei preadolescenti sono ancora in pieno sviluppo e, diciamocelo, più vulnerabili. Aggiungiamoci un controllo neuromuscolare non ancora maturo come quello di un adulto, e il quadro si complica.

Ma perché tutta questa preoccupazione proprio per i più piccoli, diciamo sotto i 12 anni?

Beh, la scienza ci dice che il loro cervello è ancora un cantiere aperto. Hanno caratteristiche anatomiche, cognitive e neuromuscolari uniche che, purtroppo, aumentano il rischio in caso di impatti. Pensateci: le ossa del cranio sono più sottili, la testa è proporzionalmente più grande rispetto al corpo (avete presente i “capoccioni”?), e questo li rende più suscettibili alle forze rotazionali e lineari durante una collisione. I muscoli del collo, poi, sono più deboli e fanno più fatica a stabilizzare la testa, aumentando il rischio che il cervello “sbatta” all’interno del cranio.

E non è finita qui. La mielinizzazione, quel processo che isola le fibre nervose permettendo una trasmissione più veloce degli impulsi, è incompleta. Questo significa che le vie neurali sono ancora in fase di maturazione e potenzialmente più sensibili ai danni da colpi ripetuti, anche quelli che non causano una commozione cerebrale vera e propria (i cosiddetti impatti sub-concussivi). Questi colpi “sotto soglia” sono subdoli perché non danno sintomi evidenti subito, ma si teme possano accumularsi e avere effetti a lungo termine sulla struttura e sulla funzione neurale. Alcune ricerche su ex giocatori di football americano suggeriscono che iniziare a giocare prima dei 12 anni, esponendosi a questi impatti ripetuti, potrebbe essere associato a maggiori problemi neuropsichiatrici e di funzione esecutiva più avanti nella vita. Certo, servono ancora studi longitudinali di alta qualità per confermarlo definitivamente, ma l’allarme c’è.

Ridurre l’esposizione: la chiave di volta?

L’idea di base è semplice: meno contatti duri, meno impatti alla testa. Sembra logico, no? Ritardare i placcaggi o il body checking a tutto campo potrebbe significativamente ridurre il numero totale di colpi che i giovani cervelli subiscono, prevenendo potenzialmente sia infortuni acuti che danni cumulativi. Le prove dall’hockey su ghiaccio giovanile sembrano supportare questa tesi: le leghe che hanno posticipato l’introduzione del body checking (ad esempio, a 13-14 anni invece che 11-12) hanno registrato tassi inferiori di SRC nelle fasce d’età più giovani. E la cosa interessante è che, quando il contatto è stato poi introdotto, non c’è stato un aumento “compensativo” degli infortuni. Questo suggerisce che l’esperienza pregressa con il contatto duro non sembra essere un fattore protettivo di per sé.

Fotografia sportiva, teleobiettivo zoom 100-400mm, alta velocità dell'otturatore, tracciamento del movimento. Un giovane giocatore di rugby (circa 10 anni) durante un placcaggio in una partita giovanile, espressione concentrata ma vulnerabile, momento dell'impatto imminente, campo da gioco sfocato sullo sfondo per enfatizzare l'azione.

Ma ritardare il contatto non significa non insegnarlo!

Ecco un punto fondamentale che spesso viene frainteso. Posticipare il placcaggio nelle partite competitive non vuol dire ignorare completamente le abilità di contatto. Anzi! Si tratta di adottare un approccio strutturato e progressivo. Si può e si deve insegnare ai ragazzi come placcare e come ricevere un placcaggio in modo sicuro, ma senza la pressione e il caos delle collisioni ad alta intensità tipiche della partita.

Pensate a un percorso graduale:

  • Si inizia con esercizi a bassa velocità, magari usando sacchi da placcaggio o superfici imbottite.
  • Ci si concentra sulla tecnica: posizione del corpo, uso delle spalle, posizionamento sicuro della testa (mai abbassarla!).
  • Si lavora sulla consapevolezza dello spazio e del movimento degli avversari.
  • Solo quando la tecnica è solida, si aumenta gradualmente la velocità e la complessità, introducendo elementi decisionali.

In questo modo, i ragazzi imparano i fondamentali in un ambiente controllato. E c’è un altro vantaggio: tenendo il contatto “vero” fuori dalle partite fino ai 12 anni circa, si dà più tempo per padroneggiare le abilità di base del gioco (passare, calciare, ricevere, capire le tattiche) senza l’ulteriore complicazione del doversi preoccupare (o cercare) il placcaggio. Quando poi il contatto verrà introdotto, i giocatori avranno già una buona base tecnica e tattica, rendendo più probabile che eseguano placcaggi sicuri ed efficaci.

Le critiche e le sfide: il gioco si “ammorbidisce”?

Ovviamente, non tutti sono d’accordo. C’è chi teme che togliere o ritardare i placcaggi snaturi l’essenza stessa di sport come il rugby o il football, che fanno della fisicità un elemento chiave. La preoccupazione è che “proteggere” troppo i ragazzi possa renderli timorosi o impreparati quando, inevitabilmente, dovranno affrontare il contatto fisico più avanti [4, 5]. Alcuni allenatori sostengono che il modo migliore per imparare a placcare in sicurezza sia proprio farlo presto, gradualmente, adattandosi alle condizioni reali [4, 5].

Bisogna anche ammettere che, sebbene ci siano studi osservazionali e retrospettivi che suggeriscono una riduzione degli SRC con il contatto limitato, mancano ancora dati solidi da studi prospettici a lungo termine che confrontino direttamente chi inizia prima e chi dopo [7, 8]. E poi ci sono le variabili confondenti: la qualità degli allenatori, le caratteristiche genetiche degli atleti, il livello competitivo delle leghe… tutto complica le comparazioni dirette. Inoltre, non tutti gli sport possono modificare le regole facilmente, e per le piccole società sportive con allenatori volontari, applicare divieti o programmi di allenamento sistematici può essere una sfida logistica non da poco.

Fotografia sportiva, obiettivo prime 35mm, profondità di campo. Un allenatore che insegna la tecnica corretta di placcaggio a un gruppo di bambini (8-10 anni) usando sacchi da placcaggio su un campo di allenamento, focus sull'interazione allenatore-bambino, luce naturale pomeridiana.

Trovare un equilibrio: alternative e percorsi progressivi

Allora, qual è la soluzione? Forse sta nel mezzo, nel trovare modi per ridurre l’esposizione ai colpi più duri senza eliminare del tutto la preparazione al contatto.

  • Versioni modificate: Il touch rugby o il flag football sono ottimi esempi. Mantengono gli elementi strategici e le abilità di base (corsa, passaggio, evasione) ma eliminano il placcaggio a tutto corpo. Possono essere un fantastico “ponte” verso la versione completa del gioco.
  • Regole adattate: Alcune federazioni stanno sperimentando versioni “intermedie”, come il Rookie Tackle nel football USA, con campi più piccoli, meno giocatori e contatti limitati sotto i 12 anni. I primi dati sembrano indicare meno collisioni ad alto impatto e più ripetizioni delle abilità fondamentali.
  • Categorie di peso/taglia: Raggruppare i ragazzi per dimensioni simili può ridurre gli squilibri fisici e il rischio di placcaggi “devastanti” tra giocatori molto diversi per peso e forza. Non risolve tutto (la tecnica e la preparazione neuromuscolare contano!), ma è un passo verso un ambiente più appropriato dal punto di vista dello sviluppo.
  • Coaching di qualità e allenamento progressivo: Questo è forse l’elemento cruciale. Indipendentemente da quando si introduce il contatto pieno, la qualità dell’allenamento fa la differenza. Programmi come “Activate” di World Rugby o altri simili, che includono moduli specifici per età e progressioni graduali, sono fondamentali. Bisogna insistere su:
    • Esercizi progressivi sul contatto (da bassa ad alta intensità).
    • Allenamento per la forza del collo e del tronco (muscoli protettivi!).
    • Tecniche per cadere in sicurezza e assorbire l’impatto.
    • Allenamento percettivo-cognitivo e visivo per anticipare e reagire meglio.

Fotografia sportiva, teleobiettivo zoom 100-400mm, tracciamento del movimento. Bambini che giocano a flag football o touch rugby, sorridenti e in movimento, enfasi sull'agilità e sul gioco di squadra senza contatto fisico duro, campo da gioco soleggiato.

La mia opinione? Verso un futuro più sicuro (e divertente!)

Alla fine della fiera, cosa penso io? Basandomi sulle evidenze attuali – epidemiologiche, fisiologiche, sullo sviluppo – credo che un approccio cauto sia giustificato. Ritardare il contatto pieno, come i placcaggi nelle partite, fino ai 12 anni circa, combinato però con un insegnamento strutturato e progressivo delle abilità di contatto fin da prima, mi sembra la strada più sensata per proteggere la salute a lungo termine dei nostri ragazzi, senza compromettere il loro sviluppo sportivo o il divertimento.

Il cervello in crescita è prezioso e vulnerabile. Dare tempo ai giovani atleti di sviluppare meglio il controllo neuromuscolare, la forza, la consapevolezza spaziale e le abilità cognitive prima di esporli a collisioni ad alta intensità ha perfettamente senso. E ricordiamoci: la qualità dell’allenatore è tutto. Un coach preparato, supportato e appassionato può fare miracoli nell’insegnare le tecniche giuste in modo sicuro e coinvolgente.

Forse non si tratta di “ammorbidire” il gioco, ma di renderlo più intelligente e più sostenibile per chi lo pratica fin da piccolo. L’obiettivo è bilanciare divertimento, abilità e sicurezza, per far sì che milioni di bambini in tutto il mondo possano continuare ad amare questi sport meravigliosi, proteggendo al contempo la loro salute più preziosa: quella del loro cervello.

E voi, cosa ne pensate?

Fonte: Springer

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