L’Echidna di Attenborough Ritorna: Un Trionfo di Scienza e Saggezza Ancestrale!
Amici, preparatevi a una storia che ha dell’incredibile, una di quelle che ti fanno battere forte il cuore e ti ridanno fiducia nella tenacia della vita e nell’ingegno umano. Parlo della riscoperta di una creatura così elusiva da essere considerata perduta per oltre sessant’anni: l’echidna dal becco lungo di Sir David Attenborough (Zaglossus attenboroughi). E la parte più bella? È stata ritrovata grazie a un’accoppiata vincente: la saggezza millenaria delle popolazioni indigene e la tecnologia moderna delle fototrappole. Un vero e proprio thriller naturalistico con un lieto fine!
Un Fantasma delle Foreste della Nuova Guinea
Immaginate un mammifero che depone le uova, uno degli unici cinque al mondo, un vero e proprio fossile vivente che si è separato dai nostri antenati mammiferi placentati circa 200 milioni di anni fa. L’echidna di Attenborough è proprio questo: un animaletto straordinario, battezzato così in onore del grande naturalista Sir David Attenborough. L’ultimo avvistamento scientificamente documentato risaliva al lontano 1961, quando un esemplare fu raccolto sulle remote Montagne dei Ciclopi, in Nuova Guinea, un’isola tropicale che è un vero scrigno di biodiversità.
Da allora, il silenzio. Sessantadue anni senza prove concrete della sua esistenza. Potete immaginare la preoccupazione degli scienziati? Quando una specie non viene documentata per così tanto tempo, si inizia a temere il peggio: l’estinzione. L’echidna di Attenborough era diventata una delle oltre 2000 “specie perdute”, un fantasma che aleggiava nei racconti e nei ricordi.
La Svolta: Quando la Tradizione Incontra la Tecnologia
Ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire, specialmente quando ci sono comunità locali che continuano a sussurrare storie di incontri con questa creatura. Ed è qui che la storia prende una piega affascinante. I ricercatori, armati di pazienza e rispetto, hanno iniziato ad ascoltare attentamente le comunità indigene dei villaggi di Yongsu Sapari e Yongsu Dosoyo, che vivono ai piedi delle Montagne dei Ciclopi. Per loro, l’echidna non era affatto perduta; la chiamano Payangko nella loro lingua Terpera e i loro racconti indicavano che l’animale era ancora là fuori.
Guidati da queste preziose informazioni – su dove cercare, su come riconoscere le tracce (come i caratteristici “buchi” lasciati dal becco dell’echidna mentre cerca invertebrati nel terreno) – il team di scienziati ha piazzato strategicamente decine di fototrappole. Immaginate l’emozione: dopo un primo tentativo nel 2022 andato a vuoto, nel 2023 la perseveranza è stata premiata. Ben 110 fotografie e 15 video hanno immortalato l’echidna di Attenborough!
Non una semplice foto sfocata, ma immagini chiare che hanno permesso di confermare l’identità della specie. Un dettaglio cruciale? Il numero di artigli sulle zampe anteriori. L’echidna di Attenborough ne ha cinque, a differenza di un’altra specie simile, Z. bruijnii, che ne ha tre o quattro. Le foto non lasciavano dubbi: cinque artigli ben visibili! E non è tutto: le immagini hanno catturato più individui, alcuni persino in atteggiamenti di corteggiamento, suggerendo che la popolazione non solo sopravvive, ma si sta anche riproducendo. Che notizia meravigliosa!

Questa riscoperta non è solo un trionfo per la biologia della conservazione, ma è anche un potente promemoria dell’importanza di integrare la conoscenza indigena nella ricerca scientifica. Le comunità locali non sono state semplici guide, ma partner fondamentali, la cui profonda comprensione del territorio e delle sue creature si è rivelata la chiave del successo. Il loro sapere, che include pratiche di gestione sostenibile delle foreste e zone di caccia regolamentata, è un patrimonio inestimabile per la conservazione futura dell’echidna e del suo habitat.
Un Passato Più Ampio e un Futuro da Proteggere
Curiosamente, la ricerca ha portato alla luce anche ossa subfossili di una piccola echidna, compatibile con Z. attenboroughi, in un sito archeologico chiamato Lachitu Cave, a circa 80 km a est delle Montagne dei Ciclopi. Questi resti, datati tra i 30.000 e i 6.000 anni fa, suggeriscono che un tempo questa specie avesse un areale più vasto, estendendosi anche in foreste pluviali costiere di pianura. Oggi, sembra confinata alle Montagne dei Ciclopi, il che sottolinea quanto sia vulnerabile.
Certo, la “riscoperta” ha le sue sfumature. Sebbene l’esemplare originale sia stato raccolto nel 1961, la specie è stata formalmente descritta come distinta solo nel 1998. E, come detto, per le comunità locali, il Payangko non è mai veramente scomparso. Ma secondo i criteri scientifici, che richiedono prove fotografiche, genetiche o audio recenti, questa è a tutti gli effetti una riscoperta che accende i riflettori su una creatura sull’orlo dell’estinzione, classificata come “Criticamente Minacciata” dall’IUCN.
Ora la sfida è proteggerla. Non sappiamo quanti individui compongano la popolazione attuale, né quali siano le principali minacce alla sua sopravvivenza. Servono ricerche urgenti per colmare queste lacune e sviluppare strategie di conservazione efficaci. Ma una cosa è certa: questa storia ci regala una ventata di ottimismo. In un’epoca di crisi della biodiversità, ritrovare una specie “perduta” è una vittoria che ci sprona a non arrenderci e a valorizzare ogni forma di conoscenza per salvaguardare il nostro meraviglioso pianeta.
La metodologia usata è stata meticolosa. Nel 2022, 11 fototrappole sono state dispiegate su circa 10 km² fino a 900 m di altitudine, basandosi sui dati degli avvistamenti delle comunità indigene analizzati con un software di “Geographic Profiling” per identificare le aree più promettenti. Nonostante 659 notti-trappola, nessun echidna fu registrato. Ma il team non si è arreso! Tra giugno e luglio 2023, l’indagine è stata estesa: 73 fototrappole piazzate tra i 143 m e i 1963 m di altitudine, su un’area di circa 7 km², posizionate strategicamente lungo sentieri animali, creste e luoghi con segni di foraggiamento. Le fotocamere, distanziate di almeno 50 metri, sono state attive per una media di 163 giorni, totalizzando ben 11.869 notti-trappola. Un lavoro immenso che, come abbiamo visto, ha dato i suoi frutti!
Speriamo davvero che questa vicenda possa ispirare altre ricerche simili in giro per il mondo, dimostrando che a volte, per ritrovare ciò che è perduto, basta saper ascoltare e guardare con occhi nuovi, unendo il meglio della scienza moderna e della saggezza antica.
Fonte: Springer
