Pronto Soccorso: L’Ombra del Suicidio nei 30 Giorni Dopo le Dimissioni
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento tosto, delicato, ma di cui credo sia fondamentale discutere: il rischio di suicidio negli adulti subito dopo essere stati dimessi dal pronto soccorso. Sì, avete capito bene. Quel luogo che associamo all’emergenza, alla cura immediata, a volte può essere l’ultima tappa prima di una tragedia silenziosa.
Recentemente mi sono imbattuto in uno studio spagnolo, condotto in un grande ospedale pubblico ad Alicante, che ha messo sotto la lente d’ingrandimento proprio questo fenomeno. Hanno analizzato un periodo di cinque anni, un lasso di tempo considerevole, guardando a cosa succedeva ai pazienti adulti una volta varcata la soglia del pronto soccorso per tornare a casa. E i risultati, lasciatemelo dire, fanno riflettere parecchio.
I Numeri Che Fanno Rifflettere
Partiamo dai dati crudi, che spesso sono più eloquenti di mille parole. In cinque anni, ci sono state oltre mezzo milione di visite al pronto soccorso per adulti (parliamo di persone dai 14 anni in su). Di queste, la stragrande maggioranza, circa l’85.7%, è stata dimessa e mandata a casa. Fin qui, tutto normale, direte voi.
Il punto critico arriva ora: di tutti questi pazienti dimessi, 356 (lo 0.078%, una percentuale piccola ma significativa in termini di vite umane) sono morti entro 30 giorni dalla dimissione. E qui arriva il dato che mi ha colpito di più: di queste 356 morti, 7 sono state classificate come suicidi (quasi il 2%).
Questo si traduce in un tasso di suicidio di 1.54 ogni 100.000 pazienti dimessi dal pronto soccorso. Può sembrare un numero basso in percentuale, ma pensiamo alle singole storie, alle famiglie distrutte. Ogni vita persa è una sconfitta per tutti noi. Lo studio ha proprio cercato di capire chi fossero queste persone e quali campanelli d’allarme, forse, non sono stati colti.
Identikit di un Rischio Sottovalutato
Confrontando i 7 casi di suicidio con gli altri 349 decessi avvenuti per altre cause nello stesso periodo post-dimissione, sono emerse delle differenze interessanti:
- Età: Chi si è tolto la vita era tendenzialmente più giovane. L’età mediana era di 72 anni, contro gli 83 di chi è morto per altre cause. Un dato che spiazza un po’, forse ci aspetteremmo il contrario.
- Comorbidità: Avevano meno “acciacchi”, meno malattie croniche concomitanti. L’indice di comorbidità di Charlson (un modo per misurare il carico di malattie) era più basso (mediana 3 vs 6).
- Genere: Qui la differenza è netta. Ben 6 suicidi su 7 riguardavano uomini, mentre negli altri decessi la distribuzione tra uomini e donne era più equilibrata (circa 50%). Questo conferma un dato tristemente noto: gli uomini, soprattutto in età avanzata (la maggior parte dei casi era tra i 65 e i 79 anni), sono a maggior rischio.
- Tempistica: La tragedia si consumava spesso molto rapidamente dopo la dimissione. La mediana era di soli 3 giorni, contro i 10 giorni per le altre cause di morte. Un lasso di tempo brevissimo, che suggerisce una crisi acuta e forse precipitosa.

Quando il Corpo Nasconde la Sofferenza dell’Anima
Ora viene il punto forse più complesso e doloroso. Sappiamo che i disturbi mentali (come depressione, ansia) e l’abuso di sostanze sono fattori di rischio enormi per il suicidio. E infatti, 4 delle 7 persone che si sono tolte la vita avevano una storia psichiatrica nota ed erano seguite. Una aveva anche una storia di abuso di sostanze.
Ma ecco il paradosso: solo una di queste sette persone aveva tentato il suicidio in passato. Questo è un dato cruciale. Spesso pensiamo che il rischio maggiore sia per chi ha già provato, ma la ricerca (e questo studio lo conferma) ci dice che la maggior parte dei suicidi avviene al primo o al secondo tentativo. Questo rende la prevenzione una vera sfida.
Ancora più sorprendente: la maggior parte di queste persone non si era presentata al pronto soccorso per un problema psichiatrico! Anzi, solo due su sette avevano ricevuto una diagnosi psichiatrica o avevano manifestato ideazione suicidaria durante quella visita specifica. Gli altri? Erano lì per sintomi fisici: dolori addominali, difficoltà a deglutire (disfagia)… problemi somatici che, forse, mascheravano una sofferenza psicologica profonda. Molti erano stati anche dal medico di base poco prima per gli stessi sintomi.
Questo ci dice che il disagio mentale può manifestarsi in modi inaspettati, “travestendosi” da malessere fisico. E, purtroppo, sembra che in pronto soccorso questo rischio “nascosto” sia stato spesso trascurato. Non è una colpa, intendiamoci, la pressione in un ED è enorme, ma è un segnale che dobbiamo imparare a decifrare meglio.
Segnali Ignorati e la Sfida della Prevenzione
Lo studio evidenzia come queste persone, pur non essendo state identificate come a rischio suicidio durante l’ultima visita, avessero spesso avuto contatti ripetuti con il sistema sanitario (pronto soccorso, medico di base) nelle settimane o mesi precedenti la morte. Questo “viavai” potrebbe essere, di per sé, un segnale d’allarme. Una richiesta d’aiuto inespressa? È possibile.
Altro aspetto emerso è il metodo utilizzato. In Spagna, come riportato anche da altre ricerche locali, il metodo più comune tra questi casi è stato il salto nel vuoto (4 casi su 7). Questo differisce, ad esempio, dagli Stati Uniti, dove le armi da fuoco sono più frequenti, sottolineando come anche l’accessibilità ai metodi sia un fattore importante nella prevenzione.

La domanda sorge spontanea: si potrebbe fare di più in pronto soccorso? Gli autori dello studio si interrogano persino sull’opportunità di uno screening psichiatrico per tutti i pazienti che accedono all’ED. Una misura drastica, forse irrealistica data la mole di lavoro, ma che apre una riflessione. Esistono strumenti brevi, come la scala S-PLE menzionata nello studio, che in meno di un minuto potrebbero aiutare a identificare persone a rischio maggiore, anche indirettamente, senza porre domande dirette sul suicidio che potrebbero mettere a disagio o portare a risposte non veritiere. Certo, l’efficacia di queste scale nel predire chi *porterà a termine* il suicidio è ancora tutta da dimostrare.
Cosa Possiamo Imparare?
Questo studio, pur con i suoi limiti (è retrospettivo, il numero di casi di suicidio è piccolo, riguarda solo chi è stato dimesso a casa), ci lancia un messaggio forte. Il periodo immediatamente successivo alle dimissioni dal pronto soccorso è un momento di vulnerabilità critica per alcuni individui, specialmente uomini anziani, anche se non presentano apparentemente i “classici” segnali di rischio suicidario come un tentativo precedente o una richiesta d’aiuto psichiatrico esplicita.
La presenza di malattie fisiche, anche se non gravissime, non deve far abbassare la guardia. Anzi, a volte proprio la sofferenza fisica può sommarsi a un disagio psicologico latente, creando una miscela esplosiva. I sintomi somatici possono essere la punta dell’iceberg.
Dobbiamo diventare più bravi a “leggere tra le righe”, a cogliere quei segnali deboli, come le visite ripetute per motivi apparentemente non gravi. Serve una maggiore consapevolezza e, probabilmente, una collaborazione più stretta tra pronto soccorso e servizi di salute mentale. La prevenzione del suicidio è una battaglia complessa, che si vince (anche) imparando a riconoscere il rischio dove non sembra esserci. Non possiamo permetterci di perdere altre vite in quel limbo delicato che segue le dimissioni.

Insomma, la visita in pronto soccorso, per qualsiasi motivo, potrebbe essere un’occasione preziosa per intercettare un rischio nascosto. Sta a noi, come sistema sanitario e come società, non lasciarcela sfuggire.
Fonte: Springer
