Foreste al Limite: Cosa Succede se Sforiamo gli 1.5°C di Riscaldamento?
Amici, parliamoci chiaro: la faccenda del riscaldamento globale sta diventando sempre più scottante, e non solo in senso letterale. Ormai sentiamo parlare ovunque di questo fatidico obiettivo di limitare l’aumento della temperatura media globale a 1.5°C rispetto ai livelli preindustriali. Ma cosa succede se, per un motivo o per l’altro, questo limite lo superiamo, anche solo temporaneamente? È un po’ come quando metti la pentola sul fuoco: se alzi troppo la fiamma, anche per poco, rischi che il contenuto trabocchi e faccia un bel pasticcio. Ecco, per le nostre foreste, il “pasticcio” potrebbe essere molto, molto serio e, in alcuni casi, irreversibile.
Recentemente mi sono imbattuto in uno studio affascinante, pubblicato su Nature Climate Change, che ha provato a fare luce proprio su questo: i rischi di impatti inevitabili sulle foreste a 1.5°C, con e senza “overshoot”, ovvero uno sforamento temporaneo di questa soglia. E vi dico subito che i risultati mi hanno fatto riflettere parecchio.
Cosa significa “Overshoot” e perché dovrebbe interessarci?
Prima di addentrarci nei dettagli, capiamo bene questo termine: “overshoot”. Immaginate di avere un obiettivo di temperatura, il nostro 1.5°C. Un percorso ideale ci vedrebbe arrivare a quella soglia e stabilizzarci lì. L’overshoot, invece, si verifica quando la temperatura globale supera temporaneamente questo obiettivo, per poi, si spera, ridiscendere e stabilizzarsi al livello desiderato (o magari anche un po’ sotto). Qualcuno potrebbe pensare: “Beh, se poi torna indietro, che problema c’è?”. Eh no, non è così semplice. Anche un superamento temporaneo può innescare cambiamenti profondi e, a volte, permanenti nei nostri ecosistemi, specialmente quelli più vulnerabili come le foreste. Pensate a un elastico: tiralo un po’ e torna come prima; tiralo troppo, anche solo per un istante, e potrebbe deformarsi per sempre o spezzarsi.
Tre Scenari per il Futuro delle Foreste
Lo studio che ho letto ha analizzato tre possibili percorsi futuri, tre “Illustrative Mitigation Pathways” (IMP), come li chiamano gli scienziati, per capire le diverse implicazioni:
- Scenario C1 (IMP-Ren): Immaginate una strada virtuosa, dove puntiamo tutto sulle energie rinnovabili e riduciamo drasticamente le emissioni. In questo caso, l’aumento di temperatura si stabilizza vicino a 1.5°C con uno sforamento minimo o nullo. È la via più “tranquilla”, per così dire.
- Scenario C2 (IMP-Neg): Qui la faccenda si complica. Inizialmente sforiamo l’obiettivo di 1.5°C, ma poi, grazie a massicci investimenti in tecnologie per la rimozione della CO2 dall’atmosfera (le cosiddette emissioni negative), riusciamo a far scendere di nuovo la temperatura, tornando sotto 1.5°C entro il 2100. È una scommessa sul futuro, un po’ come dire: “Prima facciamo un po’ di danno, poi ripariamo”.
- Scenario C3 (IMP-GS): Questo è lo scenario meno ambizioso. L’aumento di temperatura supera stabilmente 1.5°C, attestandosi intorno a 1.8°C entro il 2100. Non c’è un vero e proprio “ritorno”, ma un assestamento su un livello di riscaldamento più elevato.
I ricercatori hanno usato questi scenari per “nutrire” dei modelli climatici e vedere cosa succederebbe, in particolare, a due ecosistemi forestali cruciali: la Foresta Amazzonica e le foreste boreali della Siberia. Hanno guardato soprattutto due cose: la Produttività Primaria Netta (NPP), che è un po’ come misurare la “salute” e la capacità di crescita della foresta, e la frazione di copertura arborea, cioè quanta superficie è effettivamente coperta da alberi.

Amazzonia: un gigante a rischio “Dieback”
Partiamo dall’Amazzonia, il polmone verde del nostro pianeta. Qui la situazione è delicata. Nello scenario C1 (quello più virtuoso), la foresta mostra una certa resilienza, anche se non è immune da stress. Ma è con gli scenari C2 e C3 che le cose si mettono male.
Nello scenario C3, con un riscaldamento sostenuto, la NPP dell’Amazzonia tende a diminuire nel lungo periodo (fino al 2300!), portando a una riduzione della copertura forestale. È il temuto “dieback”, un progressivo deperimento che potrebbe trasformare parti della foresta pluviale in qualcosa di più simile a una savana.
E l’overshoot dello scenario C2? Anche se la temperatura poi scende, il “colpo” subito dalla foresta si fa sentire. Si osserva una riduzione della NPP maggiore rispetto allo scenario C1, e anche la copertura arborea, entro il 2300, risulta ridotta rispetto ai livelli attuali. Questo ci dice una cosa importante: anche se riusciamo a “tornare indietro” con le temperature, i danni inflitti durante il periodo di overshoot possono avere conseguenze durature.
La cosa che mi ha colpito è che, anche negli scenari di mitigazione più aggressiva, esiste un rischio, seppur basso, di un significativo deperimento dell’Amazzonia. Se la sensibilità climatica del nostro pianeta fosse alta (cioè se il sistema Terra reagisse in modo più forte all’aumento di CO2), anche con emissioni molto basse potremmo assistere a impatti severi. Parliamo di “rischi di coda”: eventi poco probabili ma dall’impatto devastante. Lo studio identifica delle “zone climatiche ad alto rischio” per l’Amazzonia: se la temperatura regionale aumenta di 2.7°C entro il 2100 (corrispondente a circa 2.1°C a livello globale), il 58% delle simulazioni mostra una perdita di foresta. A lungo termine (entro il 2300), questa soglia di rischio si abbassa: basta un aumento regionale di 1.7°C (circa 1.3°C globali) per vedere il 49% delle simulazioni indicare un deperimento. Insomma, più a lungo guardiamo, più il rischio aumenta anche a temperature apparentemente “più sicure”.
Siberia: un’espansione che nasconde insidie
Passiamo ora alle fredde foreste boreali della Siberia. Qui, lo scenario è diverso, ma non per questo meno preoccupante. Con l’aumento delle temperature, in tutti e tre gli scenari, si osserva un fenomeno chiamato “woody encroachment”, ovvero un’espansione della copertura arborea. Gli alberi iniziano a conquistare aree prima dominate dalla tundra. Potrebbe sembrare una buona notizia – più alberi, più carbonio assorbito, no? Non proprio.
Questa espansione, che sembra essere un impegno a lungo termine e in gran parte irreversibile, porta a profondi cambiamenti nell’ecosistema. La NPP, dopo un iniziale aumento, tende a stabilizzarsi o addirittura a ridursi leggermente con la stabilizzazione delle temperature (come nello scenario C1 e C3), ma la copertura arborea continua ad aumentare a causa dell’inerzia del sistema. Nello scenario C2 (quello con overshoot e poi recupero), l’espansione arborea in Siberia è più limitata entro il 2300.
Questo “woody encroachment” ha impatti significativi sul ciclo del carbonio terrestre, sul ciclo idrologico e sulla biodiversità. Non è semplicemente un “più alberi = meglio”. È un cambiamento radicale della fisionomia di un ecosistema vastissimo.

L’importanza di “tornare indietro” (ma non basta)
Una delle lezioni più importanti che ho tratto da questo studio è che limitare l’entità dell’overshoot è cruciale. Lo scenario C2, pur con il suo sforamento, mostra che far scendere attivamente le temperature globali (tramite la rimozione di CO2) può portare a una stabilizzazione degli impatti, specialmente per l’Amazzonia. Le linee che descrivono la perdita di foresta, che negli scenari C1 e C3 continuano a scendere verticalmente (indicando una perdita continua), nello scenario C2 iniziano a curvare, suggerendo una stabilizzazione della copertura arborea man mano che la temperatura si riduce.
Questo significa che non basta raggiungere lo “zero netto” delle emissioni. Per prevenire impatti a lunghissimo termine, potrebbe essere necessario andare oltre, puntando a una rimozione netta di CO2 per far scendere le temperature globali dopo un eventuale overshoot. Tuttavia, lo studio evidenzia anche che, persino con livelli di overshoot relativamente bassi come quelli dello scenario C2, molti impatti, come la perdita di NPP e di foresta in Amazzonia, possono protrarsi per secoli.
Incertezze e la necessità di agire subito
C’è un altro aspetto fondamentale: l’incertezza. Le differenze tra i tre scenari, per quanto significative, sono spesso “annegate” nell’incertezza legata alla sensibilità del sistema climatico e ai modelli climatici regionali. Questo non significa che le nostre scelte non contino, anzi! Significa che dobbiamo essere pronti anche agli scenari peggiori legati a queste incertezze.
La distinzione tra i percorsi conta, eccome. Primo, il livello di riscaldamento globale fa la differenza: lo scenario C3, con temperature più alte, porta a un rischio maggiore di perdite a lungo termine rispetto allo scenario C1. Secondo, in caso di overshoot, c’è un chiaro beneficio nel riportare la temperatura globale a un livello inferiore, come dimostra lo scenario C2.
Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Che le nostre foreste sono incredibilmente sensibili ai cambiamenti climatici e che superare la soglia di 1.5°C, anche temporaneamente, comporta rischi seri e potenzialmente irreversibili. L’Amazzonia rischia un deperimento significativo, mentre la Siberia potrebbe vedere un’espansione arborea che altererebbe profondamente l’ecosistema.
La buona notizia, se così si può dire, è che limitare l’entità del riscaldamento e puntare a un recupero della temperatura dopo un eventuale overshoot può mitigare questi rischi, ma non eliminarli del tutto. Servono riduzioni immediate delle emissioni e investimenti a lungo termine nella rimozione della CO2. Non c’è tempo da perdere, amici. Le nostre foreste, e il nostro futuro, dipendono dalle scelte che facciamo oggi.
Fonte: Springer
