Dialisi Più Sicura: Come Annientare il DNA Batterico Nascosto nei Dialisati!
Ciao a tutti, amici della scienza e della salute! Oggi voglio parlarvi di un argomento un po’ tecnico ma super importante per chi, purtroppo, deve fare i conti con la dialisi: la qualità del dialisato. Sembra una cosa scontata, ma vi assicuro che un dialisato “pulito” fa una differenza enorme sulla salute e sul benessere dei pazienti. E quando dico pulito, non intendo solo privo di batteri vivi, ma anche di certi loro “fantasmi” molecolari, come il DNA batterico (bDNA).
Il Nemico Invisibile: il DNA Batterico e l’Infiammazione
Vedete, anche quando i batteri nelle linee del dialisato vengono uccisi con la disinfezione, possono lasciare dietro di sé frammenti del loro DNA. Questi frammenti, anche se piccoli, non sono affatto innocui. Il nostro corpo li riconosce come estranei, un po’ come se fossero ancora batteri attivi, e scatena una risposta infiammatoria. Pensate che frammenti di DNA batterico (bDNAF) possono attraversare la membrana del dializzatore e finire nel sangue del paziente, causando un aumento di marcatori infiammatori come la proteina C-reattiva (PCR) e l’interleuchina-6 (IL-6). A lungo andare, questa infiammazione cronica può peggiorare le condizioni cardiovascolari, che sono già un bel problema per i pazienti in dialisi.
Già da tempo sappiamo che le endotossine (ET), altri componenti della parete dei batteri gram-negativi, sono dei potenti pirogeni e scatenano infiammazioni. Per questo, nelle macchine per dialisi, si usano dei filtri speciali chiamati filtri ritentivi di endotossine (ETRF). Ma la domanda che ci siamo posti è: questi filtri bastano anche per il DNA batterico? E i metodi di disinfezione che usiamo, sono efficaci per “neutralizzare” questo DNA?
I Guardiani della Purezza: Filtri ETRF e Disinfettanti alla Prova
Per capirci qualcosa di più, abbiamo fatto un po’ di esperimenti. Immaginate un circuito di dialisi in miniatura, con un filtro ETRF inserito. Abbiamo “sporcato” il dialisato con del materiale solubile ottenuto da cellule di Pseudomonas aeruginosa (un batterio che a volte si trova in questi ambienti) precedentemente uccise con acqua calda. Poi abbiamo fatto passare questo dialisato “contaminato” attraverso il filtro.
Cosa abbiamo scoperto? Beh, se la concentrazione di DNA batterico era bassa, il filtro faceva il suo dovere egregiamente, trattenendo quasi tutto. Ma se la concentrazione era alta, e soprattutto se la pressione nel circuito prima del filtro aumentava (cosa che può succedere se il filtro si intasa un po’), allora un po’ di DNA batterico riusciva a “sgattaiolare” oltre il filtro. Questo ci dice che sì, i filtri ETRF sono utili, ma non sono una barriera invalicabile, specialmente in condizioni non ottimali. La gestione della pressione nel circuito sembra quindi fondamentale per evitare queste “fughe”.
Poi ci siamo concentrati sui metodi di disinfezione. I più comuni sono:
- Acqua calda: efficace perché il calore arriva dappertutto, anche negli angolini difficili. Però, non decompone bene le sostanze organiche e costa parecchia energia.
- Acido peracetico: bravo a rimuovere incrostazioni (tipo calcare) e a degradare sostanze organiche. Però è acido, quindi ci sono regole strette per lo scarico delle acque reflue.
- Ipoclorito di sodio (la comune candeggina, per intenderci): molto efficace nel degradare le sostanze organiche e costa poco. Il suo “difetto” è che può corrodere i metalli, formando ruggine.
Abbiamo preso sospensioni di Pseudomonas aeruginosa e le abbiamo trattate con questi tre metodi. Poi siamo andati a misurare quanto DNA batterico (sia a doppio filamento, dsDNA, sia a singolo filamento, ssDNA) era rimasto.
Ipoclorito di Sodio: Il Campione Contro il DNA Batterico
I risultati sono stati illuminanti! La disinfezione con acqua calda, pur uccidendo i batteri, lasciava dietro parecchio DNA. Anzi, sembrava quasi frammentarlo in pezzi più piccoli (bDNAF), che potrebbero essere ancora più insidiosi perché più capaci di passare attraverso i filtri. L’analisi con elettroforesi su gel (una tecnica per separare molecole in base alla dimensione) ha mostrato proprio questo: dopo il trattamento con acqua calda, c’erano bande di DNA intorno ai 100 paia di basi (bp) e anche più piccole, oltre a DNA di dimensioni maggiori. Considerando che il cut-off massimo di un ETRF è circa 30.000 Dalton (che corrispondono a circa 90 bp per l’ssDNA e 45 bp per il dsDNA), capite bene che questi frammentini potrebbero passare.
L’acido peracetico faceva un po’ meglio dell’acqua calda, riducendo la quantità di DNA, ma non in modo drastico, specialmente se la carica batterica iniziale era molto alta (tipo 108 cellule/mL).
E l’ipoclorito di sodio? Una vera star! Ha ridotto le concentrazioni di dsDNA e ssDNA in modo impressionante, quasi del 99% (una riduzione di circa 2 log) quando la carica batterica era alta. E se la carica batterica era un po’ più bassa (107 cellule/mL), l’ipoclorito di sodio riusciva a portare i livelli di DNA batterico addirittura sotto il limite di rilevabilità del nostro strumento! L’elettroforesi confermava: dopo il trattamento con ipoclorito, nessuna banda di DNA era visibile sul gel.
Questo significa che l’ipoclorito di sodio è particolarmente bravo non solo a uccidere i batteri, ma anche a degradare, a “fare a pezzi” il loro DNA, rendendolo innocuo. Certo, bisogna sempre fare i conti con il suo potenziale corrosivo. Un uso prolungato può portare alla formazione di ruggine, e la ruggine, paradossalmente, può favorire la crescita di batteri come Pseudomonas aeruginosa promuovendo la formazione di biofilm. Quindi, se si usa l’ipoclorito, è fondamentale una manutenzione periodica per rimuovere la ruggine.
Cosa Ci Portiamo a Casa da Tutto Questo?
La prima cosa è che la gestione del DNA batterico nel dialisato è una faccenda seria e non va sottovalutata. Anche se le linee guida attuali non ne parlano specificamente, i dati suggeriscono che dovremmo iniziare a farlo.
I filtri ETRF sono un aiuto prezioso, ma da soli potrebbero non bastare, soprattutto se la pressione nel circuito sale o se la contaminazione a monte è molto alta. E qui entra in gioco il biofilm, quella patina viscida che i batteri formano sulle superfici. Se c’è tanto biofilm nelle tubature, ci saranno tanti batteri, e quindi tanto DNA rilasciato durante la disinfezione. Abbiamo visto che se la contaminazione batterica iniziale è bassa (≤ 105 CFU/mL), anche la disinfezione con acqua calda riesce a portare il bDNA sotto il limite di rilevabilità. Ma studi hanno trovato concentrazioni batteriche nei biofilm delle linee di dialisi ben superiori, anche > 107 CFU/mL!
Quindi, la strategia migliore sembra essere un approccio combinato:
- Controllo rigoroso del biofilm: meno batteri ci sono all’inizio, meno DNA ci sarà da eliminare.
- Uso di filtri ETRF: sempre utili, ma con un occhio alla pressione del circuito.
- Scelta oculata del disinfettante: l’ipoclorito di sodio sembra il più efficace per inattivare il DNA batterico. Magari si potrebbe pensare a protocolli che combinano i vantaggi dei diversi metodi, ad esempio usando l’acido peracetico per le sue proprietà anticalcare e l’ipoclorito per la sua potente azione sul DNA.
È chiaro che c’è ancora da studiare per mettere a punto standard di gestione biologica ancora più efficaci per la terapia emodialitica. L’obiettivo finale è sempre lo stesso: fornire dialisati più sicuri possibile, migliorare il trattamento dialitico e, di conseguenza, la qualità di vita dei pazienti. E credetemi, ogni piccolo passo avanti in questa direzione è una grande vittoria!
Fonte: Springer