Rientro al Lavoro Dopo la Malattia Mentale: Cosa Non Funziona (e Cosa Sì) Secondo Chi Se Ne Occupa
Ragazzi, parliamoci chiaro: le assenze dal lavoro per motivi di salute mentale stanno diventando un problema sempre più grosso. Non solo per chi ci passa, che si ritrova a combattere con demoni invisibili, ma anche per le aziende e per la società intera. In Germania, dove i numeri sono schizzati alle stelle, hanno provato a metterci una pezza già dal 2004 con un sistema chiamato BEM (Betriebliches Eingliederungsmanagement), una sorta di gestione dell’integrazione lavorativa pensata proprio per aiutare le persone a tornare in pista dopo un periodo di malattia, specialmente quella mentale. Ma funziona davvero? E come la vivono quelli che stanno in prima linea, i cosiddetti “manager dell’integrazione”?
Ecco, ho avuto modo di approfondire uno studio qualitativo che ha cercato di capirci qualcosa di più, intervistando proprio questi manager (14 per la precisione, nell’area di Monaco di Baviera). E quello che emerge è un quadro complesso, fatto di luci e ombre, di buone intenzioni che spesso si scontrano con una realtà difficile.
Camminare sul filo: tra persona e azienda
La prima cosa che salta all’occhio è la posizione scomoda di questi manager BEM. Immaginate di dover fare da ponte tra un dipendente che sta cercando faticosamente di rimettersi in piedi dopo un periodo buio, magari pieno di paure e insicurezze legate al rientro, e un’azienda che, per quanto possa essere sensibile, ha comunque degli obiettivi di business da rispettare. È un equilibrio delicato, un vero e proprio campo di tensione.
Da una parte c’è il lavoratore, che spesso vive il processo BEM con diffidenza. Molti, secondo i manager intervistati, lo vedono non come un aiuto all’integrazione, ma quasi come un modo per “metterli alla porta”. Si sentono giudicati, forse bullizzati, e faticano ad aprirsi. Questa mancanza di apertura è un bel problema, perché come fai ad aiutare qualcuno a rientrare se non sai quali sono le sue reali difficoltà, le sue limitazioni attuali?
L’importanza cruciale dell’apertura (sulle limitazioni, non sulla diagnosi!)
Attenzione, quando parlo di apertura, non intendo necessariamente spiattellare la diagnosi psichiatrica ai quattro venti. Quello che serve davvero, sottolineano i manager, è che la persona sia onesta riguardo a cosa può e non può fare in quel momento. Quali sono i limiti imposti dalla sua condizione? Solo così si possono trovare insieme le misure giuste: un adattamento della postazione, un cambio di mansioni temporaneo, un orario flessibile… Insomma, soluzioni concrete.
Certo, capisco benissimo la paura. Aprirsi espone al rischio di stigma, di pregiudizi, di essere trattati diversamente. È un circolo vizioso: la paura dello stigma porta a chiudersi, ma la chiusura impedisce di trovare soluzioni efficaci per il rientro.

E l’azienda? Non sempre un alleato facile
Dall’altro lato della barricata, c’è il datore di lavoro. Anche qui, le cose non sono sempre rose e fiori. I manager BEM lamentano spesso una scarsa volontà da parte delle aziende di investire pienamente nel processo. A volte, sembra quasi che lo facciano solo perché la legge lo impone. Magari nominano un referente BEM inesperto, che non sa bene come muoversi, vanificando di fatto l’intero percorso.
Serve pazienza, serve la volontà di dare tempo e spazio alla persona per ritrovare il suo equilibrio, serve accettare che il processo di guarigione può essere lungo. Ma questa disponibilità, purtroppo, non è sempre scontata.
Il ruolo del manager BEM: supporto pratico, non terapia
E i manager BEM? Loro si vedono principalmente come figure di supporto pratico: aiutano a pianificare il rientro, forniscono informazioni, mediano tra dipendente e azienda. Offrono anche un sostegno emotivo, certo, ma fanno una distinzione chiara: “Non sono uno psicologo”, dicono in molti. Si sentono a volte spinti in un ruolo terapeutico che non compete loro e provano un senso di impotenza di fronte alla sofferenza mentale del dipendente. Il loro compito è trovare soluzioni a livello lavorativo, il percorso terapeutico spetta ad altri. È una linea sottile da non oltrepassare, anche se l’empatia è fondamentale.
L’elefante nella stanza: la mancanza di conoscenza
Ma sapete qual è il vero nodo gordiano che emerge da questa ricerca? La mancanza di conoscenza. E non parlo solo di una generica ignoranza, ma di una doppia lacuna:
- Scarsa conoscenza del BEM stesso: Molti dipendenti non sanno cosa sia, a cosa serva, quali siano i loro diritti e doveri. Questo alimenta la diffidenza e aspettative irrealistiche (“Risolvetemi voi il problema!”). Anche i datori di lavoro, se non capiscono il valore del BEM, sono meno propensi a investirci.
- Scarsa conoscenza della malattia mentale: Questo è un tasto dolente. La paura del contatto, lo stigma, la difficoltà a comprendere le limitazioni invisibili… tutto questo nasce spesso da una scarsa informazione. Se i dipendenti capissero meglio la propria condizione, forse riuscirebbero ad accettarla di più e a comunicare meglio i propri bisogni. Se i datori di lavoro e i colleghi fossero più informati, ci sarebbe più accettazione e un atteggiamento più supportivo.
Questa mancanza di conoscenza sembra essere la radice di molti dei problemi e delle barriere descritte. Al contrario, la conoscenza agisce come un facilitatore: più si sa (sul BEM e sulla malattia mentale), più è probabile che il processo funzioni.

Il dialogo mancato con chi cura
Un altro aspetto interessante emerso è la quasi totale assenza di comunicazione tra i manager BEM e il mondo della cura (cliniche psichiatriche, terapeuti). I manager BEM vorrebbero un dialogo, uno scambio di informazioni (nel rispetto della privacy, ovviamente) per capire meglio come supportare il rientro del dipendente. Sentono che sarebbe utilissimo se già durante il percorso di cura si iniziasse a parlare di BEM, a preparare il terreno per il ritorno al lavoro, a valutare realisticamente le capacità residue della persona. Ma, a quanto pare, dall’altra parte (quella dei clinici) c’è spesso una certa ritrosia. Un’occasione persa, a mio avviso.
Cosa possiamo imparare?
Quindi, che si fa? Buttiamo via il BEM? Assolutamente no. Questo sistema, per quanto imperfetto, rappresenta un tentativo importante di affrontare un problema complesso. Lo studio ci dice però che c’è molto da migliorare.
Le parole chiave sembrano essere:
- Informazione e Formazione: Bisogna far conoscere meglio il BEM a tutti gli attori coinvolti. E bisogna parlare di più e meglio di salute mentale nei luoghi di lavoro, per abbattere lo stigma e la paura.
- Promuovere l’Apertura (sulle limitazioni): Creare un clima di fiducia in cui le persone si sentano sicure di parlare delle proprie difficoltà senza timore di essere penalizzate.
- Collaborazione: Incentivare il dialogo tra aziende, manager BEM e professionisti della salute mentale. Figure come il medico del lavoro potrebbero giocare un ruolo cruciale in questo senso.
- Investimento Reale: Le aziende devono vedere il BEM non come un obbligo burocratico, ma come un investimento sul benessere dei propri dipendenti e, in ultima analisi, sulla produttività stessa.
Il rientro al lavoro dopo un periodo di malattia mentale è una sfida, non nascondiamocelo. Ma è una sfida che possiamo vincere, se mettiamo in campo gli strumenti giusti e, soprattutto, la giusta dose di conoscenza, empatia e collaborazione. Questo studio tedesco ci offre spunti preziosi, anche per noi qui in Italia, per riflettere su come supportare al meglio chi sta affrontando questo percorso difficile.
Fonte: Springer
