Vino Limpido Senza Bentonite? La Nostra Caccia agli Enzimi Giusti (e al Calore Necessario)!
Ciao a tutti gli appassionati di vino e scienza! Avete mai notato quella fastidiosa velatura che a volte compare in una bottiglia di vino bianco, soprattutto dopo un po’ di tempo o se ha subito sbalzi di temperatura? Ecco, quello è spesso colpa delle proteine naturalmente presenti nell’uva che, col tempo, decidono di aggregarsi e creare quella che tecnicamente chiamiamo “instabilità proteica” o, più semplicemente, torbidità. Un bel problema, perché un vino torbido perde subito fascino e valore sul mercato.
La soluzione classica che si usa da decenni in cantina è la bentonite, un’argilla che “cattura” queste proteine. Ma diciamocelo, la bentonite non è perfetta: si porta via anche un po’ di vino buono, può impoverire il colore e gli aromi, e smaltire i residui ha un costo (senza contare la polvere che non fa benissimo respirare). Negli ultimi anni, sembra che ne serva sempre di più, rendendo urgente la ricerca di alternative valide.
Noi ci siamo tuffati a capofitto in questa sfida, esplorando strade diverse per domare queste proteine un po’ ribelli. Abbiamo voluto capire meglio come funzionano certi trattamenti, alcuni già noti, altri meno convenzionali.
Quanto Caldo Serve Davvero per “Smuovere” le Proteine?
La prima cosa che abbiamo voluto capire è: quanto calore serve davvero per indurre le proteine del vino a denaturarsi e aggregarsi? Sappiamo che il calore le rende instabili, ma quanto e per quanto tempo? Abbiamo preso dei colloidi (l’insieme di macromolecole, incluse le proteine) isolati da un vino Silvaner e li abbiamo messi in una soluzione tampone a pH simile a quello del vino (pH 3.3). Poi, via di trattamenti termici! Temperature da 30°C a 80°C, per tempi variabili da 5 a 60 minuti.
I risultati sono stati illuminanti. Sotto i 40°C, anche per un’ora, le proteine se ne stanno abbastanza tranquille, la torbidità non aumenta quasi per niente. Ma già a 50°C, la situazione inizia a cambiare: la torbidità comincia a salire lentamente. A 60°C, l’aumento è rapido nei primi 10 minuti, per poi stabilizzarsi. A 70°C e 80°C, basta pochissimo tempo (5 minuti!) per raggiungere il massimo della torbidità.
Abbiamo anche calcolato le “Unità di Pastorizzazione” (PU), un modo per quantificare l’intensità del trattamento termico. È emerso che basta un trattamento relativamente blando (circa 0.01 PU) per iniziare a vedere aggregazione, e che intorno a 1 PU si raggiunge il massimo effetto. Scaldare di più non sembra aumentare ulteriormente la torbidità, probabilmente perché le proteine più sensibili al calore hanno già fatto “gruppo”. Interessante notare che c’è una bella correlazione lineare tra l’aumento di torbidità e la diminuzione delle proteine rimaste in soluzione (quelle che non si sono aggregate) in un certo range di trattamento termico (tra 0.005 e 0.3 PU). Questo ci dice che il calore, in modo controllato, fa il suo lavoro nel destabilizzare queste molecole.

Ultrasuoni e Agenti Riducenti: Un Aiuto Inaspettato (o Mancato)?
Poi ci siamo chiesti: e se provassimo con gli ultrasuoni? A volte vengono usati in enologia per altri scopi, e qualche studio precedente suggeriva potessero avere un effetto sulle proteine. Abbiamo quindi sottoposto i nostri colloidi di vino a un bagno di ultrasuoni per tempi diversi. Risultato? Praticamente nullo. Un leggerissimo aumento di torbidità dopo un’ora, ma abbiamo notato che il campione si era anche scaldato un po’ (fino a 45°C). L’effetto era paragonabile a quello di un riscaldamento blando senza ultrasuoni. Quindi, per la denaturazione proteica, gli ultrasuoni, almeno nelle nostre condizioni, non sembrano essere la chiave.
E gli agenti riducenti? Si pensa che composti come l’anidride solforosa (SO2) o l’acido ascorbico possano rompere i ponti disolfuro nelle proteine, rendendole meno stabili. Abbiamo aggiunto dosi variabili di SO2 (fino a 400 mg/L, ben oltre i limiti legali per i bianchi!) e acido ascorbico (fino a 500 mg/L) ai nostri campioni prima di scaldarli. L’acido ascorbico non ha avuto alcun effetto visibile sulla stabilità proteica o sulla torbidità in nessuna condizione testata. L’SO2, a dosi normali (fino a 200 mg/L), nemmeno. Solo a dosi molto alte (400 mg/L) e a temperature elevate (70°C per 30 min) abbiamo visto un leggero aumento della torbidità e una maggiore perdita di proteine rispetto al controllo senza SO2. Questo contrasta un po’ con altri studi fatti su proteine isolate o in vini diversi, ma i nostri colloidi erano complessi e ricchi di polisaccaridi, che potrebbero aver “protetto” le proteine dall’azione dell’SO2. Quindi, anche qui, niente effetti miracolosi per favorire la denaturazione alle dosi comunemente usate.
La Grande Caccia agli Enzimi: Chi “Digerisce” le Proteine del Vino?
Ma la vera speranza, diciamocelo, risiede negli enzimi, specificamente le peptidasi, che sono come delle forbici molecolari capaci di tagliare le proteine in pezzi più piccoli e innocui. L’idea è fantastica: aggiungere un enzima che elimina il problema alla radice. Peccato che il vino sia un ambiente difficile per gli enzimi: pH basso, presenza di alcol, SO2, polifenoli… e le proteine dell’uva sono pure piuttosto resistenti!
Abbiamo deciso di fare uno screening massiccio: ben 21 preparati enzimatici diversi! Tra questi, 19 commerciali (alcuni già noti, altri prototipi) e persino due estratti sperimentali derivati da larve di Drosophila suzukii (il moscerino della frutta). Li abbiamo purificati per eliminare interferenze e li abbiamo messi alla prova sui nostri colloidi di vino in tampone, combinando l’azione enzimatica con i trattamenti termici che avevamo visto essere efficaci per la denaturazione (50°C, 60°C, 70°C per tempi diversi). Volevamo vedere se il calore potesse “aprire” le proteine e renderle più vulnerabili all’attacco enzimatico.
Per valutare l’efficacia, abbiamo usato tre parametri:
- Ehaze: quanto l’enzima riusciva a inibire l’aumento di torbidità indotto dal calore.
- Eprotein: quanto l’enzima riusciva a ridurre la quantità di proteine rimaste dopo il trattamento (considerando anche le proteine dell’enzima stesso).
- Ecleavage: quanto l’enzima riusciva a produrre frammenti di proteine (prodotti di clivaggio), segno diretto dell’attività proteolitica.

I Vincitori, il Ruolo Cruciale del Calore e l’Effetto Matrice
E qui sono arrivate le risposte più interessanti. Su 21 candidati, solo cinque si sono dimostrati veramente efficaci nel degradare le proteine del vino in tampone, mostrando alti valori di Eprotein e Ecleavage. E indovinate un po’? Erano tutti preparati a base di aspergillopepsina, un enzima prodotto dal fungo Aspergillus niger. Questo conferma studi precedenti che indicavano questo enzima come promettente, specialmente se abbinato a una pastorizzazione flash.
Ma c’è un “ma” fondamentale: questi enzimi funzionavano bene solo se accompagnati da un trattamento termico di almeno 60°C (o 0.1 PU). A 50°C, anche loro facevano fatica. Questo suggerisce che la denaturazione indotta dal calore è davvero necessaria per esporre le proteine all’azione enzimatica. Scaldare a 70°C non sembrava dare vantaggi ulteriori rispetto ai 60°C in termini di efficacia enzimatica.
Abbiamo anche verificato se SO2 e acido ascorbico potessero influenzare l’attività di questi enzimi promettenti. Risultato: nessun effetto inibitorio o favorente significativo nelle nostre condizioni.
Infine, la prova del nove: come si comportano questi enzimi non in un semplice tampone, ma in matrici reali come il mosto e il vino? Abbiamo preso i migliori 8 enzimi dello screening iniziale.
Nel mosto (a cui avevamo aggiunto colloidi di mosto), le cinque aspergillopepsine hanno funzionato alla grande, con efficienze simili a quelle viste in tampone (sempre con l’aiuto del calore > 50°C). Ottima notizia! Sembra che il mosto sia un ambiente favorevole per questi enzimi.
Nel vino (a cui avevamo aggiunto colloidi di vino), invece, la musica è cambiata drasticamente. L’efficacia di tutti gli enzimi testati, incluse le nostre aspergillopepsine, è crollata. La riduzione delle proteine e la formazione di prodotti di clivaggio erano molto scarse. Cosa significa? Che non sono le proteine del vino in sé ad essere impossibili da degradare (nel mosto e in tampone ci riusciamo), ma è proprio la matrice vino (probabilmente a causa dell’alcol, dei polifenoli o di altri composti) a inibire fortemente l’attività enzimatica.
Un’ultima nota curiosa: tre enzimi (Brewers Clarex, Maxamyl CPP, Maxamyl PSP) hanno mostrato un comportamento strano. In tampone, riducevano poco le proteine totali (Eprotein bassa o negativa) ma producevano comunque una certa quantità di frammenti (Ecleavage moderata) e, soprattutto, erano molto efficaci nell’inibire la torbidità (Ehaze alta)! Forse riescono a degradare selettivamente solo alcune proteine chiave per la formazione della torbidità? È un’ipotesi affascinante che merita ulteriori indagini.
Conclusioni e Prospettive Future
Cosa ci portiamo a casa da questo lungo viaggio nel mondo delle proteine del vino?
- Il calore è fondamentale: serve una temperatura di almeno 50°C per iniziare a destabilizzare le proteine, e almeno 60°C per permettere agli enzimi attuali di lavorare efficacemente.
- Gli ultrasuoni e gli agenti riducenti (SO2 a dosi legali, acido ascorbico) non sembrano offrire scorciatoie per facilitare la denaturazione o l’azione enzimatica nelle condizioni da noi testate su colloidi complessi.
- Le aspergillopepsine si confermano gli enzimi più potenti al momento, ma richiedono il supporto del calore.
- L’applicazione ideale per questi enzimi è nel mosto, prima della fermentazione, perché la matrice vino ne inibisce fortemente l’attività.
La strada verso un’alternativa definitiva alla bentonite è ancora in corso. Serviranno ulteriori ricerche per ottimizzare l’uso delle aspergillopepsine con il giusto apporto di calore su scala industriale, minimizzando l’impatto sulla qualità del vino. E bisognerà capire meglio il meccanismo di quegli enzimi “misteriosi” che sembrano prevenire la torbidità senza degradare massicciamente tutte le proteine. La scienza del vino non smette mai di affascinare!
Fonte: Springer
