Un gruppo eterogeneo di giovani adolescenti discute attivamente con ricercatori attorno a un tavolo, alcuni indicano tablet e smartphone, ambiente luminoso e collaborativo, prime lens 35mm, depth of field.

Ragazzi, Smartphone e Salute Mentale: Cosa Ci Insegna la Ricerca (Quando Ascoltiamo Davvero!)

Ciao a tutti! Oggi voglio chiacchierare con voi di un argomento che, ne sono certo, tocca le corde di molti: il rapporto tra noi giovani, i nostri inseparabili smartphone, i social media e la nostra salute mentale. Siamo onesti, chi non vede ragazzi (e non solo!) quasi fusi con i loro dispositivi? Passiamo ore online, sui social, e da tempo ci si chiede: tutto questo che impatto ha sul nostro benessere psicologico? Addirittura, si parla di legami con problemi come l’ansia, la depressione e persino l’autolesionismo.

È un tema caldissimo, una priorità di salute pubblica, ma la verità è che la ricerca scientifica fatica a stare al passo. Molti studi ci sono, certo, ma spesso si basano su questionari compilati a posteriori (“quanto tempo *pensi* di aver passato sui social la settimana scorsa?”) o non riescono a stabilire un chiaro legame causa-effetto. Insomma, c’è bisogno di fare di più e meglio.

Proprio per questo, mi sono imbattuto in uno studio davvero interessante, chiamato 3S-YP (Social Media, Smartphone use and Self-harm in Young People). La cosa forte di questo progetto? È stato “co-prodotto”, cioè pensato e sviluppato *insieme* a ragazzi come noi, con esperienze dirette, per essere sicuri che le domande fossero quelle giuste e i metodi accettabili. L’obiettivo era capire come l’uso di social e smartphone cambi nel tempo, specialmente prima di episodi di autolesionismo, usando dati più oggettivi (come quelli registrati passivamente dai telefoni) e non solo le nostre impressioni.

Ma la parte che mi ha colpito di più, e di cui voglio parlarvi oggi, è un sotto-studio qualitativo. In pratica, i ricercatori hanno detto: “Ok, stiamo facendo questa ricerca innovativa, ma cosa ne pensano davvero i ragazzi che partecipano? Come vivono questa esperienza?”. Hanno intervistato 16 giovani (tra i 13 e i 25 anni) che avevano preso parte allo studio principale per capire cosa li ha spinti a partecipare, cosa ha funzionato, cosa meno e quali sono state le loro emozioni. E le risposte sono state illuminanti!

Perché i giovani partecipano? Altruismo e Valore della Ricerca

La prima cosa che salta all’occhio è la motivazione. Molti ragazzi hanno partecipato spinti da un forte senso di altruismo. Volevano dare il loro contributo per aiutare altri giovani, per far progredire la conoscenza su un tema che sentivano vicino e importante. Come ha detto un partecipante: “Sono molto interessato a partecipare perché non riguarda solo la tua esperienza, ma anche aiutare gli altri e migliorare i sistemi di supporto per la salute mentale altrui”.

Questa voglia di contribuire a qualcosa di significativo era così forte che, per alcuni, superava persino le preoccupazioni personali o il timore che rispondere a certe domande potesse essere difficile. Tutti erano d’accordo sul valore della ricerca, riflettendo sulle proprie esperienze, sia positive che negative, con la tecnologia. C’era la consapevolezza diffusa che smartphone e social media abbiano un impatto reale sulla vita quotidiana e sulla salute mentale, e la voglia di capirne di più, in modo più sfumato. Qualcuno ha giustamente fatto notare che non basta guardare il “tempo di utilizzo”: magari uno ha lo schermo acceso per ascoltare musica, non per scrollare social senza sosta. Serve andare più a fondo.

Curiosamente, alcuni ragazzi si sono sentiti quasi “inutili” per la ricerca perché magari in quel periodo stavano bene o usavano poco i social. Questo ci dice quanto sia importante far capire che ogni esperienza è valida e contribuisce al quadro generale.

Fotografia ritratto di un adolescente (17 anni) seduto comodamente su un divano, guarda pensieroso lo schermo del suo smartphone illuminato, luce soffusa dalla finestra, prime lens 35mm, depth of field, duotone blu e grigio.

Comodità vs. Complessità: L’esperienza digitale

Passiamo all’esperienza pratica di partecipare a uno studio quasi interamente digitale e a distanza. Qui emergono luci e ombre.

Da un lato, i ragazzi hanno apprezzato molto la comodità e la privacy offerte dagli strumenti digitali (sito web, app per raccogliere dati, questionari online). Poter rispondere da casa, con i propri tempi, senza la pressione dello sguardo diretto di un ricercatore, è stato un vantaggio enorme. Molti si sono sentiti più a loro agio nel rispondere a domande delicate su autolesionismo, salute mentale o bullismo. Anzi, per alcuni, compilare regolarmente i questionari è diventato un momento di auto-riflessione utile sul proprio stato d’animo e sull’uso della tecnologia. Uno ha detto che leggere le domande lo ha fatto sentire meno solo, perché rispecchiavano le sue esperienze.

Dall’altro lato, però, non sono mancate le difficoltà. Sebbene le domande fossero percepite come non eccessivamente intrusive (meglio risposte brevi che racconti dettagliati e potenzialmente dolorosi), alcuni hanno ammesso che per chi stava attraversando un periodo particolarmente nero, rispondere poteva essere pesante. Inoltre, “fare la media” delle proprie emozioni su un periodo di tempo, come richiesto dalle misure standardizzate, è risultato difficile per chi viveva stati d’animo molto fluttuanti. “Le tue emozioni possono cambiare, sai, abbastanza frequentemente”, ha spiegato un partecipante.

Gli strumenti digitali (sito, app 3S-YP) sono stati giudicati in generale semplici e intuitivi, visivamente gradevoli. Le notifiche per ricordare di compilare i questionari sono state fondamentali (molti avrebbero dimenticato!), così come gli avvisi prima delle domande più sensibili e i link a risorse di supporto. Tuttavia, qualcuno avrebbe gradito più dettagli su aspetti meno familiari (cosa significa esattamente “dati dello smartphone”? All’inizio pensavo voleste hackerarmi il telefono!), un calendario visivo degli impegni dello studio o la possibilità di caricare i dati dei social direttamente dall’app.

Il Fattore Umano: Ricercatori e Genitori

Anche in uno studio super digitale, il fattore umano si è rivelato fondamentale. Il ruolo del team di ricerca è stato descritto come importantissimo. I ricercatori non erano solo un supporto tecnico per risolvere dubbi o problemi con l’app, ma rappresentavano la “presenza umana” e la legittimità dello studio. La loro disponibilità, gentilezza, flessibilità e prontezza nel rispondere sono state apprezzatissime. Sapere di poter chiamare o mandare un messaggio a qualcuno in carne ed ossa ha fatto la differenza. “Anche se molto era online, c’era […] una presenza umana davvero grande […] sapevo di poter semplicemente chiamare qualcuno o mandare un messaggio a qualcuno”, ha raccontato un ragazzo. Questo ha aiutato a costruire fiducia, essenziale soprattutto quando si chiedono dati sensibili.

E poi ci sono i genitori. Il loro ruolo è emerso come complesso e variabile. A volte erano il primo contatto, e questo poteva essere positivo per ragazzi meno a loro agio nel parlare direttamente con estranei. Alcuni genitori hanno incoraggiato la partecipazione o aiutato a ricordare le scadenze. Altre volte, però, se il genitore diventava l’unico tramite per le comunicazioni, potevano sorgere problemi se dimenticava di passare le informazioni o se il ragazzo non era presente durante le chiamate. Questo ci ricorda quanto sia delicato il coinvolgimento delle famiglie, specialmente con i partecipanti più giovani.

Dita che esitano sopra l'icona di un'app social media su smartphone, macro lens, 100mm, high detail, precise focusing, controlled lighting che crea ombre suggestive.

Il Nodo della Privacy: Condividere i dati social

Arriviamo a un punto cruciale: la condivisione dei dati, in particolare quelli provenienti dai social media. Qui le cose si fanno più spinose.

Se rispondere a questionari sulla salute mentale era abbastanza accettato (molti erano già abituati a farlo nei servizi clinici), l’idea di condividere i dati dei social ha suscitato più preoccupazioni sulla privacy. I social sono visti spesso come uno spazio personale, una via di fuga dallo stress quotidiano. L’idea che dei ricercatori potessero “entrarci” è stata percepita da alcuni come un’intrusione. “Sembra un po’ invadente, uhm, solo perché lo usiamo come una sorta di via di fuga, come una scappatoia dallo stress della vita”, ha confidato un partecipante.

Chi era più tranquillo, spesso pensava di non postare nulla di troppo privato o era rassegnato all’idea che tante altre entità avessero già accesso ai propri dati. La rassicurazione che i dati sarebbero stati anonimizzati è stata importante.

Ma cosa erano disposti a condividere? In generale:

  • Metadati (numero di like, commenti, follower)
  • Cronologia delle ricerche
  • Dati da piattaforme usate meno o più pubbliche (come X/Twitter)
  • Reazioni e commenti

Cosa invece era un tabù quasi universale?

  • Il contenuto dei messaggi privati
  • Dati su amici o follower

Interessante notare che molti ragazzi non avevano idea di quanti e quali dati i social network conservassero su di loro, né di come accedervi. Partecipare allo studio è stata anche un’occasione per scoprirlo.

Ma qui sorge un altro grosso problema: la difficoltà pratica di accedere e fornire questi dati. Anche per ragazzi tecnologicamente abili, il processo per scaricare i propri dati dalle piattaforme social è stato descritto come complicato e macchinoso. Richieste da inviare, attese per ricevere un link che scade in fretta, procedure diverse per ogni piattaforma… un vero percorso a ostacoli! Anche con l’aiuto dei ricercatori, alcuni non sono riusciti a completare il processo. Questo non solo è frustrante per i partecipanti, ma rischia anche di compromettere la ricerca, perché chi riesce a fornire i dati potrebbe non essere rappresentativo di tutti. È un campanello d’allarme forte e chiaro: le piattaforme social devono rendere più semplice per gli utenti (e per i ricercatori, con il consenso degli utenti!) accedere ai dati che li riguardano.

Una mano tesa da uno schermo di laptop verso un giovane seduto di fronte, simboleggiando supporto a distanza nella ricerca sulla salute mentale, prime lens 50mm, depth of field, luce calda e accogliente.

Cosa abbiamo imparato? Lezioni per il Futuro

Tirando le somme, cosa ci insegna questa esperienza? Tantissimo!

Innanzitutto, conferma il valore enorme della co-produzione: coinvolgere attivamente i giovani fin dall’inizio rende la ricerca più rilevante, accettabile e fattibile. Ascoltare le loro voci è fondamentale.

Poi, ci dice che i metodi digitali a distanza possono funzionare bene per ricerche su temi sensibili con i giovani: offrono privacy, comodità e flessibilità. Ma devono essere davvero user-friendly, semplici, chiari e accompagnati da un supporto umano reattivo e disponibile. La tecnologia da sola non basta.

Emerge forte la necessità di affrontare il nodo della condivisione dei dati social. Bisogna essere trasparenti, dare ai ragazzi il controllo, spiegare bene cosa viene raccolto e perché, e rispettare i loro limiti (niente messaggi privati!). Ma soprattutto, serve un impegno da parte delle piattaforme per semplificare l’accesso ai dati per scopi di ricerca etica e consensuale. Altrimenti, rischiamo di non poter usare questi strumenti innovativi per capire davvero l’impatto del mondo digitale sulla salute mentale dei giovani.

Infine, non dimentichiamo il ruolo dei genitori: vanno coinvolti nel modo giusto, informati e rassicurati, specialmente quando si parla di privacy e dati.

Insomma, fare ricerca sulla salute mentale digitale con i giovani è possibile e prezioso, ma richiede un approccio attento, empatico, flessibile e, soprattutto, collaborativo. Dobbiamo continuare ad ascoltare le esperienze di chi vive questi temi sulla propria pelle, perché solo così potremo trovare le risposte che cerchiamo e, speriamo, migliorare il supporto disponibile.

Fonte: Springer

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