Demenza: Perché la Ricerca Deve Dare Voce (Davvero!) ai Gruppi Sottorappresentati
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi sta particolarmente a cuore e che ritengo fondamentale per il futuro della ricerca sulla salute, in particolare quella legata alla demenza. Sapete, quando pensiamo agli studi sulla demenza nel Regno Unito, spesso ci basiamo su ricerche storiche importantissime, come gli studi CFAS (Cognitive Function and Ageing Studies). Questi studi ci hanno insegnato tantissimo negli ultimi 30 anni e hanno guidato le politiche sanitarie. Hanno coinvolto migliaia di persone, ma c’è un “ma”.
Un Panorama Cambiato: La Sfida della “Super Diversità”
Il punto è che la società britannica, come tante altre, è cambiata tantissimo. È diventata incredibilmente più diversificata. Pensateci: flussi migratori da ogni angolo del mondo, un mix pazzesco di etnie, lingue, religioni, background socio-economici, identità di genere, orientamenti sessuali… Steven Vertovec l’ha chiamata “super diversità”. Bellissimo, no? Ma questa ricchezza pone una sfida enorme per la ricerca epidemiologica, che spesso cerca un “comune denominatore” per studiare la salute della popolazione. Gli studi storici, coinvolgendo prevalentemente persone bianche britanniche, oggi non riescono più a fotografare la realtà completa. E questo è un problema serio.
Perché l’Inclusione è Cruciale (Soprattutto per la Demenza)
Perché è un problema? Perché sappiamo che il rischio di sviluppare problemi cognitivi e di salute non è uguale per tutti. Le disuguaglianze giocano un ruolo enorme. Dove e come viviamo influenza la nostra salute futura. Sebbene l’età sia il fattore di rischio principale per la demenza, non è l’unico. Le persone che affrontano svantaggi multipli nella vita potrebbero sviluppare demenza prima, ammesso che raggiungano l’età avanzata. E se non includiamo queste popolazioni “super diverse” nella ricerca, come facciamo a sapere chi è più a rischio, quando e perché? Come possiamo sviluppare politiche e percorsi di cura efficaci per tutti? Semplicemente, non possiamo. Dobbiamo assolutamente colmare questo vuoto di dati.
La Promessa delle Metodologie Partecipative
Allora, come facciamo a coinvolgere chi finora è rimasto ai margini? Qui entrano in gioco le metodologie partecipative. Parole come “co-creazione”, “co-design”… magari le avete sentite. L’idea di base è semplice ma rivoluzionaria: smettere di studiare le persone “dall’alto” e iniziare a lavorare *con* loro. Significa coinvolgere attivamente gli stakeholder, specialmente quelli con esperienze dirette (pazienti, caregiver, membri della comunità), in tutte le fasi della ricerca: dalla pianificazione alla diffusione dei risultati. Non si tratta solo di “consultare”, che spesso è il livello più basso di partecipazione (un po’ come dire “ti chiedo un parere ma poi decido io”), ma di costruire vere e proprie partnership, dove tutti hanno voce in capitolo e si sentono co-proprietari del processo e dei risultati.

Alla Scoperta della “Letteratura Grigia”
Per capire meglio come queste metodologie vengono usate (o potrebbero essere usate) con i gruppi sottorappresentati a rischio di demenza, abbiamo deciso di fare qualcosa di un po’ diverso. Invece di limitarci agli articoli accademici pubblicati sulle riviste scientifiche, ci siamo tuffati nella cosiddetta “letteratura grigia”. Cosa significa? Parliamo di report, documenti, materiali prodotti da organizzazioni del terzo settore, enti di beneficenza, gruppi di advocacy come Healthwatch, autorità locali… tutte quelle fonti preziose che spesso contengono esperienze pratiche e intuizioni incredibili, ma che non sempre finiscono nei circuiti accademici tradizionali. Abbiamo condotto una “scoping review”, una specie di mappatura sistematica, usando la metodologia di Arksey e O’Malley, per scovare questi tesori nascosti, concentrandoci sul Regno Unito. Abbiamo cercato parole chiave come “emarginato”, “vulnerabile”, ma anche “co-creazione”, “co-design”, “consultazione comunitaria”.
Cosa Abbiamo Scoperto Tuffandoci nella Letteratura Grigia?
Abbiamo trovato 30 report molto interessanti, sparsi un po’ in tutto il Regno Unito, anche se con una concentrazione a Londra. Questi report descrivevano attività partecipative mirate a migliorare i servizi sanitari e sociali, coinvolgendo una varietà incredibile di persone:
- Persone con diagnosi di demenza (anche a esordio precoce) e i loro caregiver
- Gruppi etnici minoritari
- Richiedenti asilo e rifugiati
- Persone senza fissa dimora
- Individui LGBTQIA+
- Persone con problemi di salute mentale
- Detenuti
Molti report mostravano l’intersezionalità, cioè come diverse forme di svantaggio si incrociano (es. salute mentale e appartenenza a minoranza etnica). Per reclutare i partecipanti, questi progetti si affidavano molto a:
- Organizzazioni comunitarie locali e reti di fiducia
- Collaborazioni con autorità locali e terzo settore (come l’Alzheimer’s Society)
- Eventi pubblici, workshop, social media
- Servizi sanitari (medici di base, servizi di salute mentale)
- Piattaforme digitali (soprattutto durante la pandemia)
I metodi usati erano vari: interviste, focus group, workshop, sessioni “drop-in”, questionari online e cartacei, spesso combinando approcci qualitativi e quantitativi. E, cosa importantissima, molti si sforzavano di essere accessibili, usando linguaggi semplici (“easy read”), interpreti (anche della lingua dei segni britannica). Bello, no? Dimostra che c’è un grande fermento e tanta buona volontà nel cercare di coinvolgere tutti.

Ma C’è un ‘Ma’… La Partecipazione è Davvero Collaborazione?
Qui arriva la parte un po’ meno entusiasmante. Quando abbiamo analizzato più a fondo *come* avveniva questa partecipazione, usando strumenti come lo Spettro della Partecipazione Pubblica dell’IAP2 (che va da un minimo di “informare” a un massimo di “responsabilizzare”, passando per “consultare”, “coinvolgere” e “collaborare”) e le fasi della co-creazione di Leask (pianificazione, conduzione, valutazione, reporting), abbiamo notato una tendenza chiara. La maggior parte delle attività si fermava ai livelli più bassi dello spettro: “consultare” e “coinvolgere”. Pochissimi arrivavano a una vera “collaborazione” e nessuno raggiungeva il livello massimo di “empowerment”, cioè dare il potere decisionale finale ai partecipanti. Inoltre, quasi tutte le attività coinvolgevano le persone solo nella fase di “conduzione” (cioè durante la raccolta dati o l’implementazione di qualcosa), mentre erano poco presenti nelle fasi cruciali di pianificazione iniziale, valutazione finale e diffusione dei risultati. Abbiamo anche usato un modello che identifica 5 dimensioni chiave del processo di co-creazione (azione collaborativa multi-stakeholder, co-apprendimento verso l’innovazione, produzione di conoscenza contestuale, generazione di significato, dialogo aperto e inclusivo). Sebbene quasi tutti i report mostrassero almeno due dimensioni (spesso l’azione collaborativa e la produzione di conoscenza), dimensioni come il co-apprendimento e il dialogo aperto erano spesso assenti o non descritte chiaramente.
Il Rischio del ‘Tanto Per Fare’: Quando la Partecipazione è Solo di Facciata
Questo cosa ci dice? Che c’è ancora molta strada da fare per passare da una partecipazione un po’ “di facciata” (il cosiddetto “tokenismo”) a una collaborazione autentica e significativa. Il rischio, quando ci si ferma alla consultazione o a un coinvolgimento superficiale, è duplice. Primo, si perdono i benefici più profondi della co-creazione (soluzioni più innovative, maggiore aderenza, empowerment). Secondo, si può generare frustrazione e sfiducia nelle comunità coinvolte. Immaginate di essere chiamati a dare il vostro parere più volte, magari su temi delicati, senza poi vedere risultati concreti o ricevere un feedback su come la vostra opinione è stata usata. È la ricetta perfetta per la “research fatigue” (stanchezza da ricerca) e per minare la fiducia verso i ricercatori e le istituzioni. E, attenzione, questo rischio non riguarda solo la ricerca accademica, ma può presentarsi anche nelle iniziative del terzo settore.
Allora, Cosa Possiamo Fare? La Strada Verso una Ricerca Più Inclusiva
La nostra analisi della letteratura grigia, pur con i suoi limiti (difficoltà nel confrontare report molto diversi, possibile incompletezza delle descrizioni), ci offre spunti preziosi. Ci dice che le metodologie partecipative sono utilizzate, che ci sono strategie di reclutamento efficaci tramite le reti comunitarie, ma che dobbiamo fare un salto di qualità. Dobbiamo:
- Andare oltre la consultazione: Puntare a partnership durature e significative, dove il potere è condiviso.
- Coinvolgere in tutte le fasi: Dalla definizione del problema alla valutazione dell’impatto.
- Migliorare la trasparenza e il reporting: Usare linee guida standardizzate (come GRIPP2 o altre) per descrivere chiaramente come avviene la partecipazione, chi è coinvolto, e quali sono i risultati (anche quelli non positivi!). Questo aiuta a imparare e a migliorare.
- Adottare approcci “bottom-up”: Partire dai bisogni e dalle prospettive delle comunità, usando metodi creativi e flessibili.
- Valorizzare l’esperienza vissuta: Riconoscere le persone con esperienza diretta come veri esperti e compensarli equamente per il loro tempo e le loro competenze.
- Valutare sistematicamente i risultati: Capire cosa funziona, per chi e in quali contesti, soprattutto quando si lavora con persone con bisogni complessi come quelle a rischio o con demenza.
In conclusione, la letteratura grigia è una miniera d’oro per capire come raggiungere e coinvolgere i gruppi spesso esclusi dalla ricerca sulla demenza. Ma ci mostra anche che c’è un bisogno urgente di passare da pratiche partecipative superficiali a collaborazioni autentiche e profonde. Solo così potremo costruire una ricerca sulla demenza che sia davvero rappresentativa, equa ed efficace per tutti. È una sfida complessa, ma assolutamente necessaria.
Fonte: Springer
