Bite del Futuro: Stampa 3D, Fresatura o Metodo Classico? Quale Materiale Resiste di Più?
Ciao a tutti, appassionati di innovazione e curiosi del mondo dentale! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che, magari, molti di voi hanno indossato almeno una volta nella vita o di cui hanno sentito parlare: i dispositivi occlusali, più comunemente noti come “bite”. Ma non vi tedierò con la solita solfa. No, oggi ci addentriamo in una ricerca scientifica fresca fresca che mette a confronto i materiali usati per questi dispositivi, fabbricati con tecnologie super moderne e con il buon vecchio metodo tradizionale. Pronti a scoprire chi vince la sfida della resistenza?
Ma cosa sono esattamente questi dispositivi occlusali?
Prima di tuffarci nei tecnicismi, facciamo un passo indietro. I dispositivi occlusali sono strumenti preziosissimi in diverse branche dell’odontoiatria. Pensate agli apparecchi ortodontici che spostano i denti, alle placche usate in chirurgia maxillo-facciale per trattare le fratture, o alle guide chirurgiche che aiutano a posizionare gli impianti con precisione millimetrica. E non finisce qui! Ci sono bite per chi soffre di russamento cronico (roncopatia) o apnee notturne, e persino quelli per lo sbiancamento domiciliare, sempre più diffusi.
Tuttavia, l’indicazione clinica più comune è per i pazienti che digrignano i denti (bruxismo) o che soffrono di disordini cranio-mandibolari (DCM). Il bruxismo, che può manifestarsi sia di giorno che di notte, se severo, può portare a ipertrofia dei muscoli masticatori, abrasioni dello smalto fino alla dentina, perdita della dimensione verticale dell’occlusione e la necessità di trattamenti protesici estesi. Chi soffre di DCM, invece, lamenta dolori alla mandibola, al viso o al collo, difficoltà ad aprire la bocca e rumori articolari. In questi casi, la terapia con bite mira a ridurre i sintomi dolorosi, bilanciando l’allineamento mandibolare e prevenendo stress disfunzionali all’articolazione temporo-mandibolare, spesso in combinazione con la fisioterapia manuale. Esistono vari tipi di bite (Michigan, Gelb, placche anteriori, di riposizionamento, di distrazione, Aqualizer), e la scelta dipende strettamente dalla diagnosi, che a volte richiede anche una risonanza magnetica.
L’avvento del digitale: una rivoluzione anche qui!
Tradizionalmente, i bite venivano creati con la tecnica a iniezione usando polimetilmetacrilato (PMMA) auto o termo-polimerizzante, oppure con la tecnica di termoformatura sottovuoto di dischi in polietilene. Metodi affidabili, certo, ma con alcuni svantaggi: contenuto di monomero residuo, contrazione da polimerizzazione, errori di miscelazione, costi di laboratorio e tempi lunghi. La bravura dell’odontotecnico nel dosare monomero e polimero, e nel gestire tempi e temperature di polimerizzazione, influenzava molto le proprietà meccaniche finali.
Poi è arrivata la rivoluzione digitale con il CAD/CAM (Computer-Aided Design/Computer-Aided Manufacturing). Oggi i bite possono essere prodotti con tecniche sottrattive (fresatura) o additive (stampa 3D). Questi metodi offrono un accesso facilitato ai dati specifici del paziente e permettono una fabbricazione più rapida e riproducibile. I materiali fresati, inoltre, mostrano una ridotta contrazione da polimerizzazione grazie all’elevato tasso di conversione dei doppi legami nei dischi di PMMA prodotti industrialmente.
La fresatura, però, ha i suoi limiti: si possono realizzare al massimo due bite per volta da un singolo blocco, con un notevole consumo di materiale grezzo e usura degli strumenti. Con la stampa 3D, invece, si possono produrre più bite contemporaneamente, a seconda delle dimensioni della piattaforma di stampa e della stampante. Inoltre, lo spreco di materiale è significativamente inferiore, poiché la resina in eccesso può essere riutilizzata. Le tecnologie più usate per la stampa 3D di bite dentali sono la DLP (Digital Light Projection) e la SLA (Stereolitografia).
Considerando le forze intraorali in gioco (i bruxisti possono generare forze tra 450 N e 650 N!), è chiaro che le proprietà meccaniche dei bite sono fondamentali per evitare fratture. Studi recenti si sono concentrati su durezza, usura, proprietà flessurali, modulo elastico, tenacità alla frattura, lucidabilità, assorbimento d’acqua e solubilità. È emerso che le proprietà dipendono più dalla composizione del materiale che dalla tecnologia di fabbricazione. Per i bite stampati in 3D, anche il metodo di post-polimerizzazione, il tipo di stampante, l’angolo, la direzione e lo spessore dello strato di stampa giocano un ruolo cruciale.

C’è una tendenza verso materiali più flessibili, ma gli studi indicano che i bite stampati di tipo “morbido” mostrano proprietà inferiori in termini di resistenza alla flessione, durezza, usura, resistenza alla frattura, assorbimento d’acqua e solubilità. Sembra che i bite rigidi siano più efficaci nel ridurre l’attività muscolare e la forza trasmessa ai denti rispetto a quelli morbidi. Tuttavia, altri studi suggeriscono che i bite morbidi proteggano meglio i denti dalle forze di flessione e portino a un sollievo più rapido nei pazienti con DCM, oltre a ridurre il cortisolo salivare nei bruxisti. Insomma, il dibattito è aperto!
La Prova del Nove: Come Hanno Testato la Resistenza?
Lo studio che ho analizzato si è concentrato proprio sulla resistenza alla torsione di questi dispositivi, utilizzando geometrie di bite clinicamente rilevanti. Hanno misurato il carico di torsione (TL), cioè la forza rotazionale applicata fino alla rottura, e la rotazione angolare (AR), che misura l’entità della deformazione. L’obiettivo? Valutare l’effetto del materiale e dell’invecchiamento artificiale (simulando l’usura nel tempo) sulla resistenza torsionale.
Hanno fabbricato ben 120 campioni da:
- Quattro resine per manifattura additiva (GR-10 guide, ProArt Print Splint clear, V-Print Splint, V-Print Splint comfort)
- Cinque materiali per manifattura sottrattiva (BioniCut, EldyPlus, ProArt CAD Splint clear, Temp Premium Flexible, Thermeo)
- Un materiale per manifattura convenzionale (Pro Base Cold)
I test sono stati eseguiti sia inizialmente (dopo 24 ore in acqua a 37°C) sia dopo un ciclo termico (5000 cicli tra 5°C e 55°C) per simulare l’invecchiamento in bocca. Ogni bite è stato bloccato in una macchina per test di torsione e ruotato fino a che non si verificava una crepa, una frattura o una diminuzione significativa della forza.
E i Risultati? Preparatevi a Qualche Sorpresa!
Allora, cosa è emerso da questi test rigorosi? Le ipotesi nulle, ovvero che né il materiale né l’invecchiamento avessero un impatto significativo su TL e AR, sono state respinte. Questo significa che sia il tipo di materiale sia l’invecchiamento contano eccome!
Carico di Torsione (TL) – La Forza Bruta:
Inizialmente, i valori medi di TL variavano parecchio: da 63.7 a 104 Ncm per i materiali additivi, da 39.2 a 265 Ncm per i sottrattivi, e 204 Ncm per il convenzionale. Dopo l’invecchiamento, questi valori sono scesi un po’ per quasi tutti: da 45.7 a 88.1 Ncm per gli additivi, da 31.2 a 246 Ncm per i sottrattivi, e 138 Ncm per il convenzionale.
Il campione indiscusso per il TL è stato il bTP (Temp Premium Flexible), un materiale sottrattivo a base di policarbonato (PC), che ha mostrato i valori più alti sia inizialmente che dopo l’invecchiamento. Questo è in linea con studi precedenti che ne evidenziavano l’elevata resistenza alla flessione. Interessante notare che solo il 66.67% dei campioni bTP si è fratturato inizialmente, e nessuno dopo l’invecchiamento termico: mostravano solo crepe o deformazioni, ma non una rottura completa. Questo suggerisce una grande duttilità, ottima per resistere alle elevate forze masticatorie.
I materiali a base di PMMA prodotti convenzionalmente e quelli sottrattivi non hanno mostrato differenze significative nel TL, confermando alcuni studi precedenti ma contrastandone altri. Serve più ricerca per capire bene la relazione tra carico di torsione e altre proprietà meccaniche.
I materiali stampati in 3D, così come il materiale sottrattivo bTH (Thermeo), hanno mostrato i valori di TL più bassi. Questo potrebbe essere dovuto a un maggiore assorbimento d’acqua, a microvuoti tra gli strati di resina durante la stampa o a un minor grado di conversione del materiale. Tuttavia, è curioso notare che il bTH, pur avendo il TL più basso, è stato l’unico materiale a non mostrare crepe o fratture sotto stress torsionale, né inizialmente né dopo l’invecchiamento. Ha mostrato solo deformazione, indicando una notevole resistenza alla frattura nonostante il basso TL, grazie alla sua flessibilità. Questo, però, potrebbe significare una minore durezza e quindi una maggiore propensione all’usura nel tempo.

Rotazione Angolare (AR) – Quanto si Piegano Prima di Rompersi:
I valori iniziali di AR andavano da 41.7 a 143 gradi per gli additivi, da 38.4 a 138 gradi per i sottrattivi, e 29.3 gradi per il convenzionale. Dopo l’invecchiamento: da 19.9 a 124 gradi per gli additivi, da 48.1 a 131 gradi per i sottrattivi, e 19.5 gradi per il convenzionale.
Il materiale stampato in 3D aVC (V-Print Splint comfort) e i materiali sottrattivi bTP, bEP (EldyPlus) e bTH hanno mostrato i valori di rotazione angolare più alti, sia inizialmente che dopo l’invecchiamento. Questi sono stati anche gli unici materiali che hanno prevalentemente dimostrato deformazione e crepe, piuttosto che fratture nette.
Al contrario, i materiali additivi aPG (GR-10 guide), aPP (ProArt Print Splint clear) e aVS (V-Print Splint), insieme ai sottrattivi bBC (BioniCut) e bPC (ProArt CAD Splint clear), e il convenzionale cPB (Pro Base Cold), hanno mostrato valori di AR costantemente bassi, con fratture in due parti o complesse. I materiali a base di PMMA (bPC e cPB) hanno mostrato i valori iniziali di AR più bassi, probabilmente a causa della loro fragilità e bassa duttilità.
L’impatto dell’invecchiamento artificiale
L’invecchiamento artificiale ha influenzato i valori di TL di tutti i materiali tranne aPG, bPC e bTP. Per gli altri, il ciclo termico ha ridotto i valori di TL. Per quanto riguarda l’AR, l’invecchiamento ha avuto un impatto solo su aVS, aVC e cPB, riducendone i valori. È interessante notare come per aVS, l’invecchiamento abbia portato a un pattern di frattura più complesso.
Tipologie di frattura: non tutti si rompono allo stesso modo
Sono stati classificati quattro tipi di “fallimento”: (0) deformazione, (1) crepa, (2) frattura in due parti, (3) frattura complessa in ≥ 3 parti.
- aPG, aPP, bBC, bPC, cPB: prevalentemente fratture in due parti, sia inizialmente che dopo invecchiamento.
- aVS: inizialmente 100% fratture complesse, dopo invecchiamento 100% fratture in due parti.
- aVC, bTP: inizialmente fratture in due parti (50-66.67%), dopo invecchiamento prevalentemente crepe (66.67-100%).
- bEP, bTH: prevalentemente deformazione, sia inizialmente che dopo invecchiamento (83.33-100%).
Questi diversi comportamenti si riflettono chiaramente nei diagrammi carico di torsione/rotazione angolare.
Cosa ci dice tutto questo? Il materiale conta, eccome!
La prima grande conclusione è che la composizione del materiale ha un impatto maggiore sulla resistenza torsionale rispetto al metodo di fabbricazione. Lo si vede chiaramente dalle differenze significative osservate all’interno del gruppo dei materiali prodotti per via sottrattiva.
Tutti i materiali prodotti per via additiva hanno mostrato valori di TL simili, mentre l’aVC si è distinto per valori di AR significativamente più alti, indicando una maggiore flessibilità.
È fondamentale sottolineare che questo è uno studio in vitro, e le condizioni di laboratorio non replicano perfettamente l’ambiente orale. I movimenti rotazionali testati, ad esempio, non avvengono nella stessa misura quando il bite è indossato. Tuttavia, i risultati sono importantissimi!
La letteratura scientifica è ancora divisa sull’efficacia dei bite più morbidi e flessibili rispetto a quelli più duri e rigidi nel dare sollievo ai pazienti con DCM. Mentre i bite morbidi potrebbero offrire maggior comfort, quelli duri potrebbero garantire una stabilizzazione occlusale e una durabilità superiori. Questa discrepanza evidenzia la necessità di studi clinici per identificare le caratteristiche del materiale che ottimizzano sia la riduzione del dolore sia i risultati funzionali.
Quindi, quale bite scegliere?
La scelta del materiale per un dispositivo occlusale dovrebbe essere guidata dalle esigenze cliniche specifiche del paziente, tenendo ben presenti le proprietà meccaniche di ciascun materiale. Un paziente con bruxismo severo potrebbe beneficiare di un materiale altamente resistente alla frattura e capace di assorbire elevate forze, come il bTP. Per altri, un materiale più flessibile che si deforma ma non si rompe, come il bTH, potrebbe essere una valida opzione, anche se bisogna considerare la potenziale usura. I materiali stampati in 3D, pur mostrando valori di resistenza torsionale generalmente inferiori, offrono vantaggi in termini di personalizzazione e velocità di produzione.
Insomma, la ricerca continua e il futuro dell’odontoiatria digitale è più eccitante che mai! Spero che questo “viaggio” nel mondo dei materiali dentali vi sia piaciuto e vi abbia dato qualche spunto di riflessione. Alla prossima!
Fonte: Springer
