Relazioni Internazionali: L’Anonimato è un Lusso (Bianco), e Noi Facciamo le Pulizie
Care lettrici e cari lettori, oggi voglio portarvi con me in una riflessione un po’ scomoda, ma necessaria, sul mondo accademico delle Relazioni Internazionali (RI). Un mondo che, come tanti altri, ha le sue narrazioni dominanti e, ahimè, le sue zone d’ombra, popolate da chi, come me e tante altre, si ritrova a fare il “lavoro sporco”, quello che nessuno vede ma che permette al sistema di andare avanti. Parliamo di storie, di chi le racconta e, soprattutto, di chi ha il privilegio di rimanere anonimo mentre lo fa.
Quando l’anonimato è un privilegio (bianco)
Avete presente quelle storie, quegli studi, quelle analisi che sembrano così… neutre? Così oggettive? Ecco, spesso dietro quella patina di neutralità si nasconde un privilegio ben preciso: quello di essere una donna bianca, borghese, eterosessuale e cisgender. Un “pacchetto completo” che, nel campo delle RI, ha storicamente permesso di raccontare il mondo da una prospettiva specifica, spesso senza nemmeno doverla dichiarare. Pensateci: fin dagli anni ’80, abbiamo visto emergere figure femminili importanti nelle RI, grazie a studiose come Christine Sylvester, Cynthia Enloe e J. Ann Tickner. Poi, verso la fine degli anni ’90, abbiamo iniziato a leggere anche storie di personaggi non eterosessuali e trans, seppur ancora prevalentemente bianchi e borghesi, con autrici come Laura Sjoberg, Cynthia Weber e V. Spike Peterson. Un passo avanti, certo, ma la domanda sorge spontanea: cosa succede quando queste narrazioni, pur volendo essere inclusive, finiscono per riprodurre schemi che garantiscono anonimato a chi già lo possiede e, al contempo, operano una sorta di “whitewashing” dell’esperienza?
Prendiamo ad esempio il libro di Laura Shepherd, “The Self, and Other Stories”. Un testo che, involontariamente o meno, finisce per esemplificare questa tendenza. E non è un attacco personale, sia chiaro, ma un’analisi di un meccanismo più ampio. Perché vedete, per chi non rientra in quella comoda casella di “normalità” privilegiata, l’anonimato è un lusso che raramente ci si può permettere. Anzi, spesso siamo invitat* a “performare” la nostra alterità, a mettere in scena le nostre differenze.
E se a parlare fossi ‘Io’? Una voce fuori dal coro (e dal privilegio)
Immaginatevi ora un personaggio diverso. Chiamiamolo “Io”. “Io” è una persona di colore, non binaria, di estrazione popolare. Un personaggio ispirato da tutta quella letteratura (post) e (de)coloniale, trans, femminista e queer che cerca faticosamente di farsi strada nelle RI. Come leggerebbe “Io” le narrazioni dominanti? Cosa vedrebbe nelle pieghe, nei silenzi, di quelle storie raccontate da donne bianche, borghesi, eterosessuali e cisgender?
Probabilmente “Io” noterebbe subito una cosa: la fame di visibilità di alcune si scontra con la nostra impossibilità di essere invisibili. Geeta Chowdhry e Shirin M. Rai lo hanno detto chiaramente: veniamo invitat* a parlare dell'”altro esotico”, a raccontare di civiltà declinate, di esempi colorati di debolezza, per poi essere rinchius* in stanze buie, senza parlare con nessuno e senza che nessuno ci parli. La differenza è che mentre una donna bianca borghese può sognare una vita migliore attraverso le sue storie, “Io” gioca per sopravvivere. Le mie storie diventano moneta di scambio per non essere espuls*.
La mia inclusione e diversità negli spazi delle RI non è un invito romantico, ma il risultato di una lotta continua. E non tutte le storie sono ben accette. Quelle troppo personali, come i disturbi alimentari, non vengono premiate. Posso mobilitare solo cause che hanno già anni di lotte politiche e attiviste alle spalle in quella specifica istituzione. Una storia di lotta che prima devo imparare, poi disimparare – perché ciò che imparo presume che i miei incontri con l’altro (personale dell’immigrazione, polizia, impiegati accademici) siano utili e non possano trasformarsi in deportazione, omicidio o fame – e infine, sviluppare i miei termini per rispondere.
Il ‘lavoro di pulizia’: quando sopravvivere è già un PhD
Leggendo il libro di Laura Shepherd, continuavo a pensare che per giocare a fare l’esperta e l’insegnante in spazi bianchi che non ci concedono né anonimato né invisibilità, ho dovuto lottare, e raramente ho vinto, per dimostrare non che la mia ricerca fosse valida o apolitica (questo non è mai stato in discussione), ma che la mia specifica mancanza di oggettività, razzializzata e politicizzata, contasse. Come dice Olivia Umurerwa Rutazibwa, l’invito alle persone nere a condividere il loro dolore personale, anche se genuino, le squalifica dall’essere considerate capaci di intuizioni oggettive e generali. Le conseguenze? La mia agenda, legata alle lotte concrete di persone e territori, ne soffre.
Nel mio caso, sono riuscita, lasciando il mio programma di dottorato, a essere considerata un’esperta e una mentore per studenti autistici in alcuni spazi di potere. Non era nei miei piani. Ma per farlo, ho fallito nel tessere quelle solidarietà politiche transnazionali che avevo pianificato con la mia formazione dottorale. Una di queste era con i miei amici trans e queer che vivono in zone di conflitto. Ho un interesse intellettuale, certo, ma anche una storia di lotta attivista dove i miei cari sono a rischio. Sentire dei tentativi di transfemminicidio contro le mie compagne CoCa e Natalia Lane, o della deportazione forzata del mio compagno Jazz Bustamante, mi provoca un dolore profondo per aver perso così tanto tempo ed energia in lotte per l’autismo mentre le mie comunità trans avevano bisogno di altri tipi di interventi.

E poi leggo frasi come: “…voglio essere in grado di scrivere e parlare di questioni di cui non ho esperienza. Questo è l’inizio e la fine” (p. 71 del libro di Shepherd). Questa era la sua conclusione dopo essersi chiesta se dovesse scrivere del privilegio cis da donna cis. Mi sono sentita un po’ arrabbiata, ma soprattutto delusa. Davvero si possono paragonare anni di persone di colore trans che scrivono contro l’epistemicidio e l’appropriazione delle loro terre-corpi-territori-mobilitazioni da parte di accademici bianchi cis, all’agire di “bambini indignati che vogliono l’ultimo biscotto”? È come se il fatto che Laura ci conosca e dica di averci letto non significasse nulla. È una questione di potere, Laura. Perché anche se abbiamo scritto la storia, anche se era una storia migliore, radicata in anni di attivismo, la citazione la prenderai tu.
Quando le nostre storie diventano ‘loro’: il dolore della colonizzazione intellettuale
E sia chiaro: non mi diverte scrivere della discriminazione e dei crimini d’odio contro i miei amici. Mi strazia. Permettetemi di riformulare la domanda di Laura (p. 71): quanto è diversa la tua pretesa di scrivere della sofferenza altrui da quella delle case farmaceutiche che rivendicano il diritto di trarre profitto da medicinali per malattie in territori emarginati, o da quella dei bianchi che rubano i nostri strumenti rituali ancestrali per esporli nei loro musei e farci pagare per vederli? La mia scrittura medicinale, la mia “d-rittura” (gioco di parole tra diritto e scrittura, ndt) è stata colonizzata: scoperta, estratta e messa al servizio della bianchezza e delle sue agende. E la gente si è affrettata a dirmi: è colpa mia, ho scelto di non scrivere, dovevo solo disciplinare i miei pensieri “selvaggi”.
Cara Laura, come te, “…non sono coraggiosa di fronte alla violenza; anche il più lieve conflitto mi arriva elettrico allo stomaco e tutta me stessa vuole nascondersi e tutta me stessa vuole appianare, diffondere la situazione, dissipare l’energia crepitante, lasciarla andare a terra senza esplodere” (p. 72). A differenza tua, io non ho avuto scelta, la terra è esplosa ogni volta, e l’indifferenza bianca mi ha chiesto di fare le “pulizie profonde”. Non ho scritto. Non potevo permettermelo. Stavo facendo il lavoro di pulizia che mi terrorizzava, quello troppo dannoso per la mia salute, perché non potevo scappare. Come scappi dai corpi morenti dei tuoi amici? I tuoi amici non stanno morendo? Perché?
Non ho scelto io di pulire, ma la terra esplodeva comunque
Ironicamente: facevo le pulizie profonde mentre le donne bianche scrivevano. La mia eredità Latinx che, a volte, pesava come una condanna. Sebbene io abbia storie di lavoro solidale con donne bianche borghesi eterosessuali cisgender, dove ci siamo nutrite a vicenda, voglio concludere questo articolo con una protesta transfemminista autonoma per e verso le femministe di colore che scrivono nelle RI: dobbiamo ancora prenderci il tempo e l’energia per imparare ad ascoltarci a vicenda! Come andare oltre il fardello della bianchezza, per costruire i nostri strumenti di sopravvivenza senza validazione o risorse bianche, per fermare la dipendenza dalla bianchezza per riconoscere il dolore che ci siamo inflitte a vicenda per nutrire la vita con e per l’altra… Coltiviamo ecosistemi autonomi di dialogo! Impariamo dai e paghiamo i bambini che sopravvivono a Gaza, Città del Messico, Quito e Veracruz!
Mi stai uccidendo. Non capisco, dovevi capire. Dopo tutte le cose che hai scritto, tu, una donna di colore. Dopo tutte le cose che ho letto da te, cosa è successo? Volevi qualcuna come me, queer, razzializzata, una poetessa, nata e cresciuta fuori dal ventre dell’Impero, povera, sopravvissuta alla durezza della colonizzazione, dell’eterocissessismo e del capitalismo, e un’attivista di base. Eppure, non c’era un supporto strutturale per me per sopravvivere qui. Cosa hai fatto? Mi chiedo cosa accadrà a noi, quelle che non possono o si rifiutano di imitare. Quelle etichettate come troppo deboli o troppo testarde. Il motivo per cui non possiamo farlo non importa, ciò che importa è l’imposizione della prova di bianchezza. Che tu le legga, che tu capisca i loro punti, che tu conosca i diversi tipi di critiche accettate… per loro. Che tu possa “passare”, e che continuerai a passare ogni volta che lo desideri. La prova che puoi comportarti bene se ti viene richiesto.

Prima hai detto che non sai come insegnarmi. Poi, hai scritto che non volevi insegnarmi. Questa è la conseguenza. Sono stata spinta fuori, sono tornata a lavori precari e alloggi pericolosi, e ora non puoi insegnarmi… lì. Eppure, mia cara, grazie. Mi hai insegnato la banalità di sopravvivere lì.
[Tre anni sono passati, nessuna risposta.]
Mi dispiace, non ti ho vista pulire. Ora vedo. Ecco i miei attrezzi per pulire, puliamo insieme in una casa “altra”. Un abbraccio da Sarajevo, e sempre amore.
Questo non è solo un lamento, ma un invito. Un invito a riconoscere questo “lavoro di pulizia” invisibile, a valorizzarlo e, soprattutto, a chiederci chi beneficia del nostro silenzio e della nostra fatica. Forse, solo allora, potremo iniziare a costruire delle Relazioni Internazionali veramente inclusive, dove l’anonimato non sia un privilegio, ma una scelta possibile per tutt*, e dove le pulizie, finalmente, le facciamo insieme, alla luce del sole.
Fonte: Springer
