Quote Rosa in CdA: Meno Tasse Nascoste e Più Sostenibilità Reale? Un’Indagine Curiosa
Ammettiamolo, quando sentiamo parlare di grandi aziende e della loro “sostenibilità”, a volte ci viene un piccolo, fastidioso dubbio. Sarà tutto oro quello che luccica? O c’è qualche scheletro nell’armadio, magari nascosto tra le pieghe di bilanci complicatissimi e strategie fiscali al limite?
Ecco, proprio su questo filo del rasoio si muove una ricerca che mi ha catturato l’attenzione di recente. Parla del legame, a volte un po’ torbido, tra quanto un’azienda ci tiene a farci sapere che è “green” e “socialmente responsabile” (quelle che gli esperti chiamano corporate sustainability disclosures, o CSD) e quanto, invece, cerca di pagare meno tasse possibili (la cosiddetta tax avoidance, o elusione fiscale). E la domanda che si pone lo studio è ancora più intrigante: ma se nel consiglio di amministrazione (CdA) ci sono più donne, grazie alle famose quote rosa, cambia qualcosa in questo delicato equilibrio?
Il Dilemma: Sostenibilità di Facciata o Impegno Reale?
Diciamocelo chiaramente: negli ultimi anni, la pressione sull’universo aziendale affinché comunichi il proprio impegno non finanziario è cresciuta a dismisura. Investitori, consumatori, e persino gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU (come il Goal 12.6) spingono le imprese a raccontare cosa fanno per l’ambiente, per la società, per una buona governance. E questo è un bene, no? Certo, in teoria. Ma, come spesso accade, la pratica può essere un po’ diversa.
Lo studio si concentra sulla Malesia, un paese emergente che, come tanti altri, dipende molto dalle entrate fiscali delle aziende e sta cercando di raggiungere ambiziosi obiettivi di sostenibilità, come le emissioni zero entro il 2050. Qui, le aziende quotate in borsa possono scegliere tra diverse linee guida per i loro report di sostenibilità, inclusi standard internazionali come il GRI. Tuttavia, la ricerca evidenzia come spesso questi report manchino di un approccio combinato che consideri sia standard generali che quelli specifici del settore, rendendo difficile una valutazione completa.
E qui entra in gioco il sospetto: non è che alcune aziende usano questi report di sostenibilità un po’ come uno specchietto per le allodole? Magari per distogliere l’attenzione da pratiche meno nobili, come, appunto, un’aggressiva pianificazione fiscale per ridurre il carico tributario? Questa è una delle domande chiave.
L’Indagine Malese: Numeri che Parlano Chiaro (o Quasi)
I ricercatori hanno analizzato i dati di 100 società quotate in Malesia tra il 2017 e il 2022. E cosa hanno scoperto? Beh, preparatevi a una piccola sorpresa: le aziende che tendono a praticare una maggiore elusione fiscale mostrano anche livelli più alti di informative sulla sostenibilità. Avete capito bene! Sembra quasi che più cerchi di “fare il furbo” con le tasse, più senti il bisogno di lucidare la tua immagine pubblica con bei report sulla sostenibilità.
Questa dinamica, che a prima vista può sembrare controintuitiva, trova una spiegazione nella cosiddetta teoria della legittimazione. In pratica, le aziende che adottano comportamenti eticamente discutibili (come una forte elusione fiscale) potrebbero usare le informative sulla sostenibilità per mantenere o recuperare la propria reputazione e legittimità agli occhi degli stakeholder. È un po’ come dire: “Sì, forse paghiamo poche tasse, ma guardate quanto siamo bravi sull’ambiente!”. Un atto simbolico per assicurarsi il “permesso di operare” dalla società.
Studi precedenti hanno mostrato risultati contrastanti su questa relazione. Alcuni hanno trovato un legame negativo (più elusione, meno CSR – Corporate Social Responsibility), altri positivo, come in questo caso. La differenza, a volte, la fa il contesto istituzionale: in paesi con una governance più debole, le aziende potrebbero usare la CSR proprio per gestire i rischi reputazionali derivanti da pratiche fiscali aggressive.

In Malesia, la situazione è complessa. Alcuni studi precedenti non avevano trovato prove chiare che la CSR influenzasse l’elusione fiscale, o addirittura avevano trovato relazioni specifiche diverse a seconda del tipo di CSR (ad esempio, positiva per la CSR legata al posto di lavoro, negativa per quella legata alla comunità).
L’Ingrediente Segreto: Le Donne nel Consiglio di Amministrazione
E qui arriva il colpo di scena, o meglio, l’elemento che rimescola le carte: la presenza femminile nei CdA. In Malesia, c’è una spinta normativa (MCCG 2021, provision 5.9) affinché le società quotate abbiano almeno il 30% di donne nei loro consigli entro il 2025, in linea anche con gli obiettivi SDG5 sull’uguaglianza di genere. Ma questa maggiore diversità di genere fa davvero la differenza nelle decisioni aziendali, specialmente su temi così delicati come tasse e sostenibilità?
Secondo questa ricerca, la risposta è un sonoro sì! L’effetto moderatore delle direttrici donne è significativo: una maggiore diversità di genere nei board sembra ridurre l’elusione fiscale e migliorare le pratiche di rendicontazione sulla sostenibilità. In altre parole, con più donne al comando, quel legame un po’ opaco tra elusione fiscale e “greenwashing” tende a indebolirsi, a favore di comportamenti aziendali più etici e trasparenti.
Questo risultato è davvero interessante perché suggerisce che le donne nei CdA non sono solo una questione di “pari opportunità” (che già di per sé sarebbe fondamentale), ma portano un valore aggiunto tangibile in termini di governance e pratiche etiche. Sembra che le donne direttrici possano contribuire a ridurre le pratiche di elusione fiscale e, contemporaneamente, a rendere più autentica e trasparente la comunicazione sulla sostenibilità.
Ma Perché le Donne Fanno la Differenza? Le Teorie in Campo
Come si spiega questo impatto positivo? Gli autori dello studio chiamano in causa diverse teorie.
- La teoria degli stakeholder: suggerisce che i board più diversificati, con una presenza femminile significativa, tendono a considerare una gamma più ampia di interessi (non solo quelli degli azionisti, ma anche di dipendenti, clienti, comunità, ambiente). Le donne, in media, potrebbero essere più orientate a un approccio che tiene conto di molteplici stakeholder, portando a una maggiore attenzione per gli obiettivi sociali e ambientali.
- La teoria della massa critica: questa è affascinante. Sostiene che non basta avere una o due donne in un CdA per cambiare davvero le dinamiche. Serve una “massa critica” – spesso identificata in almeno tre donne o una percentuale significativa come il 30% – perché le loro voci vengano ascoltate e possano influenzare realmente le decisioni. Quando si raggiunge questa soglia, le donne si sentono più a loro agio nell’esprimere le proprie opinioni e sfidare lo status quo, portando a discussioni più approfondite e, potenzialmente, a decisioni più etiche, come una minore aggressività fiscale e una maggiore trasparenza.
- La teoria dell’agenzia: da questo punto di vista, una maggiore diversità di genere nel board può migliorare i processi decisionali, affrontando problemi legati all’obbligo di pagare le tasse dovute e minimizzando le strategie di elusione.
- Una prospettiva etica: alcuni studi suggeriscono che le donne nei CdA tendono ad avere standard morali più elevati e sono particolarmente efficaci nel sollevare questioni su pratiche non etiche, inclusa l’elusione fiscale.
Lo studio malese ha testato specificamente l’effetto di avere almeno tre direttrici donne o almeno il 30% di rappresentanza femminile, trovando che entrambe queste soglie hanno un impatto moderatore significativo e negativo sulla relazione tra elusione fiscale e informative sulla sostenibilità. Insomma, quando le donne sono presenti in numero sufficiente, l’azienda sembra meno incline a “nascondere” l’elusione fiscale dietro un velo di sostenibilità e più propensa a comportamenti virtuosi su entrambi i fronti.

Cosa Ci Portiamo a Casa? Implicazioni e Spunti di Riflessione
Questa ricerca, pur concentrandosi sulla Malesia, offre spunti preziosi anche per noi. Innanzitutto, ci ricorda che i report di sostenibilità, da soli, non bastano. Bisogna guardarli con occhio critico, analizzando la loro qualità e confrontandoli con altri comportamenti aziendali, come le politiche fiscali. L’introduzione di benchmark di rendicontazione sia generali che specifici per settore, come suggerito, potrebbe aiutare molto regolatori e investitori a farsi un’idea più precisa.
Poi, c’è il ruolo cruciale della diversità di genere. I risultati sembrano dire chiaramente ai policymaker: promuovere la presenza femminile nei CdA non è solo una questione di giustizia sociale, ma una leva strategica per migliorare la governance aziendale, la trasparenza e l’etica. Potrebbe essere uno strumento efficace per spingere le aziende verso obiettivi di sostenibilità a lungo termine, piuttosto che verso target finanziari di breve periodo, e per aumentare la responsabilità verso la società nel suo complesso.
Certo, lo studio ha i suoi limiti: è focalizzato su un solo paese e sulle grandi aziende quotate. Sarebbe interessante vedere ricerche future che includano PMI o aziende non quotate, o che esplorino l’impatto di altre caratteristiche del board, come le qualifiche dei direttori o le loro connessioni politiche.
Ma il messaggio di fondo, per me, è forte e chiaro: se vogliamo aziende veramente sostenibili, che non usino la sostenibilità solo come una foglia di fico, dobbiamo guardare anche a chi siede nelle stanze dei bottoni. E sembra proprio che avere più donne in quelle stanze possa fare una bella differenza, aiutando le aziende a camminare con più coerenza sulla strada della responsabilità.
Insomma, la prossima volta che leggete un report di sostenibilità particolarmente brillante, magari date un’occhiata anche alla composizione del CdA e, se possibile, alle pratiche fiscali dell’azienda. Potreste scoprire connessioni inaspettate!
Fonte: Springer
