Aziende Verdi per Legge? La Svolta della CSDDD e l’Idea della “Quota Clima”
Amici, parliamoci chiaro: il cambiamento climatico non è più un “problema del futuro”, è la sfida del nostro secolo. E come dico sempre, ognuno deve fare la sua parte, compreso il mondo del diritto. Non possiamo stare a guardare mentre il pianeta chiede aiuto! Molti Stati, per fortuna, si sono già mossi con leggi specifiche per la protezione del clima – pensiamo alla Germania che punta alla neutralità carbonica entro il 2045 o all’European Climate Law. Altri, come Giappone e Cina, hanno dichiarato obiettivi ambiziosi. E non dimentichiamo che ci sono obblighi costituzionali e internazionali, come l’Accordo di Parigi, che ci spingono ad agire.
Ma chi sono i maggiori responsabili di questa situazione? Spesso, ahimè, sono le aziende. Pensate che solo 100 grandi compagnie, i cosiddetti “carbon majors”, sono dietro a oltre il 60% delle emissioni globali di gas serra! E il 90% di queste sono private. Ecco perché, negli ultimi anni, si è vista una crescente attenzione normativa verso le imprese, con standard di prodotto legati al clima e obblighi di trasparenza, tutto per spingerle verso il “net zero”.
Il legislatore europeo ha capito l’antifona e sta mettendo sempre più pressione sulle aziende. La vera novità, però, è arrivata a giugno 2024 con l’adozione della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD). Questa direttiva, per la maggior parte, si concentra sulla due diligence lungo la catena di fornitura, soprattutto per i diritti umani, un po’ come già fanno leggi nazionali tipo la Lieferkettensorgfaltspflichtengesetz tedesca o la Loi de vigilance francese. Ma c’è un articolo, l’articolo 22, che è una vera chicca ed è interamente dedicato alla “Lotta al Cambiamento Climatico”.
Questo articolo mi ha fatto riflettere parecchio su come potremmo implementarlo nelle leggi nazionali dei Paesi UE. L’idea è di capire come il diritto societario possa davvero “rinverdire” le nostre imprese. Per farlo, ho pensato di proporre una definizione di “aziende climaticamente neutre” e uno strumento che ho battezzato “quota clima”. Spero che queste riflessioni possano stimolare un bel dibattito, anche oltre i confini europei!
Il Diritto Societario Europeo e il Clima: Cosa C’è Già?
Prima di lanciarci in nuove proposte, diamo un’occhiata a cosa prevede già il diritto societario europeo. Esistono strumenti, ma diciamocelo, hanno un effetto molto indiretto. Si parla principalmente di:
- Obblighi di rendicontazione climatica: inizialmente introdotti con la Non-Financial Reporting Directive (NFRD) del 2014, che chiedeva alle aziende di parlare di questioni ambientali, come le emissioni. Però, potevano anche esimersi, spiegandone il motivo (il famoso modello “comply or explain”).
- Incentivi per il management: la Shareholder Rights Directive II suggerisce che la remunerazione dei manager dovrebbe supportare uno sviluppo sostenibile e a lungo termine. E infatti, molte aziende del DAX tedesco già nel 2021 avevano legato i bonus dei dirigenti alla riduzione delle emissioni di CO2.
- Trasparenza per i mercati dei capitali: qui entra in gioco la Tassonomia UE (Taxonomy Regulation) del 2020, che stabilisce i criteri per definire un’attività economica come “sostenibile dal punto di vista ambientale”. Poi c’è la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) del 2019, che obbliga i partecipanti ai mercati finanziari a fornire informazioni sulla sostenibilità dei loro prodotti.
La svolta vera, però, sta arrivando con la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) del 2022, che ha modificato profondamente la direttiva sulla contabilità. Il principio del “comply or explain” è stato abbandonato, rendendo la rendicontazione climatica molto più vincolante. Il numero di aziende coinvolte aumenterà drasticamente (da circa 500 a 15.000 in futuro!) e i report dovranno essere sottoposti a revisione esterna. Ma la cosa più importante sono i requisiti di contenuto: le aziende dovranno fornire dettagli non solo sulle loro emissioni, seguendo i nuovi e tecnici European Sustainability Reporting Standards (ESRS), ma anche su un piano di trasformazione climatica per raggiungere la neutralità entro il 2050.
Il consiglio di amministrazione, ovviamente, è tenuto ad attuare queste misure legalmente vincolanti. Per quanto riguarda le misure volontarie, l’approccio prevalente è quello dell’enlightened shareholder value: i manager sono autorizzati, ma non obbligati, a combattere il cambiamento climatico, a meno che non ci siano leggi specifiche che trasformano questa discrezionalità in un dovere.
Neutralità Climatica: Il Nuovo Faro per le Imprese
Secondo me, la “neutralità climatica” dovrebbe diventare il concetto guida per la futura regolamentazione aziendale in materia di clima. L’UE l’ha già fissata come obiettivo per sé e per i suoi Stati membri con l’European Climate Law, e ora, con l’articolo 22 della CSDDD, questo obiettivo si estende anche alle aziende. Ma cosa significa esattamente “neutralità climatica” per un’impresa?
L’European Climate Law (Regolamento UE 2021/1119) definisce la neutralità climatica come un equilibrio tra le emissioni di gas serra prodotte e quelle rimosse dall’atmosfera entro il 2050. Anche se in fisica ambientale si considerano altri fattori che influenzano il clima (aerosol, uso del suolo, ecc.), il concetto legale di neutralità climatica è equiparato alla neutralità dei gas serra. Questi includono CO2 e altri sei gas definiti nel Protocollo di Kyoto, convertiti in “equivalenti di CO2”.
Sarebbe scientificamente più preciso parlare di “neutralità dei gas serra”, ma il termine “neutralità climatica” si è ormai consolidato nel diritto europeo e nella pratica aziendale. Quindi, per ora, teniamoci questo. Ma quali emissioni dobbiamo considerare per un’azienda? Qui entra in gioco il Greenhouse Gas Protocol, uno standard internazionale a cui fanno riferimento anche gli ESRS, che divide le emissioni in tre “scope”:
- Scope 1: emissioni dirette da fonti possedute o controllate dall’azienda.
- Scope 2: emissioni indirette dalla generazione di elettricità, gas, riscaldamento o raffreddamento acquistati.
- Scope 3: tutte le altre emissioni indirette che avvengono nella catena del valore dell’azienda (a monte o a valle).
Per valutare la neutralità climatica di un’azienda, credo si debbano considerare almeno le emissioni di Scope 1 e 2. L’attribuzione delle emissioni di Scope 3 è più controversa, data la complessità nell’identificarle e la limitata capacità dell’azienda madre di influenzarle. Anche gli ESRS E1 (Cambiamenti Climatici) prevedono obblighi di rendicontazione completi per Scope 1 e 2, mentre per lo Scope 3 la rendicontazione è richiesta solo per specifiche categorie di emissioni (come l’uso diretto dei prodotti distribuiti) e solo se considerate “materiali” dall’azienda. Quindi, la mia proposta è che la neutralità climatica si riferisca pienamente alle emissioni di Scope 1 e 2, e solo parzialmente a quelle di Scope 3.
Come si raggiunge questa neutralità? Principalmente attraverso la riduzione delle proprie emissioni (es. processi produttivi più efficienti, acquisto di energia rinnovabile). La compensazione (offsetting), come l’acquisto di crediti di carbonio, dovrebbe essere considerata solo in un secondo momento e per le emissioni “inevitabili”. L’UE stessa dà priorità alla riduzione. E diciamocelo, molti progetti di offsetting hanno un contributo dubbio alla rimozione dei gas serra, sfociando spesso nel greenwashing.
La Proposta: Una “Quota Clima” per Attuare l’Articolo 22 CSDDD
L’articolo 22 della CSDDD trasferisce l’obiettivo di neutralità climatica alle aziende. Per implementarlo a livello nazionale, propongo l’introduzione di uno strumento che chiamo “quota clima”. Non si tratta di una quota rigida imposta dall’alto, stile economia pianificata. Al contrario, gli obiettivi di riduzione sarebbero fissati flessibilmente e individualmente dal management aziendale, tenendo conto del proprio modello di business. L’unico punto di riferimento obbligatorio sarebbe l’obiettivo di neutralità climatica da raggiungere entro il 2050.
Questi obiettivi di riduzione dovrebbero essere pubblicati annualmente in percentuale rispetto a un anno di riferimento, ad esempio il 2024, visto che i nuovi obblighi della CSRD entreranno in vigore proprio quest’anno. La preparazione del piano di transizione climatica e la determinazione della quota clima sarebbero responsabilità del consiglio di amministrazione.
A chi si applicherebbe? L’obbligo dovrebbe riguardare le grandi aziende. Ci sono diverse opzioni per definirne l’ambito:
- Basarsi sullo strumento esistente della quota di genere (applicata in Germania, Norvegia, ecc.) per le società quotate o a gestione paritetica.
- Allinearsi all’articolo 22 della CSDDD: aziende con più di 1000 dipendenti e un fatturato netto mondiale superiore a 450 milioni di euro, o aziende di paesi terzi con un fatturato netto nell’UE superiore a 450 milioni. Questa mi sembra l’opzione più coerente.
- Utilizzare l’ambito della CSRD: grandi, piccole e medie imprese di interesse pubblico.
Indipendentemente dall’ambito, la quota clima dovrebbe applicarsi a tutti i settori, con eccezioni per casi di difficoltà, per evitare “effetti travaso” delle emissioni.
Enforcement e Coinvolgimento degli Azionisti: Niente Sanzioni Pesanti, ma “Say on Climate”
Come far rispettare questa quota clima? Sinceramente, non raccomando sanzioni specifiche per il mancato raggiungimento della quota autoimposta. Il modello dovrebbe essere piuttosto quello della quota di genere tedesca, che si affida più al meccanismo reputazionale e alla pubblicità negativa in caso di basse ambizioni o fallimenti, piuttosto che a sanzioni “dure”.
Potrebbe sorprendere, visto che la quota di genere non è stata un successo travolgente ovunque, ma c’è una differenza cruciale: la quota clima ha un obiettivo finale fisso (neutralità entro il 2050), ma il percorso è lasciato alla responsabilità dell’azienda. Sanzioni pesanti potrebbero portare le aziende a fissare obiettivi bassi per evitare problemi, distogliendo dall’obiettivo reale. Ovviamente, un fallimento fondamentale nel rispettare l’obbligo di fissare una quota o nell’adottare misure palesemente inadeguate per il 2050 sarebbe sanzionabile tramite i meccanismi generali di responsabilità degli amministratori per cattiva gestione.
La “quota clima” che propongo si differenzia dall’articolo 22 CSDDD perché fissa l’obiettivo che l’azienda stessa deve essere climaticamente neutra entro il 2050 (salvo eccezioni). L’articolo 22 chiede solo piani di transizione che allineino il modello di business all’obiettivo europeo attraverso i “migliori sforzi”, un concetto un po’ vago che non dà molta certezza giuridica alle imprese. La quota clima, invece, la offre in misura maggiore, anche grazie a intervalli di rendicontazione più brevi (annuali, allineati alla CSRD, invece che quinquennali come nell’Art. 22).
Molte aziende, del resto, si stanno già ponendo volontariamente obiettivi di riduzione, inclusa la neutralità climatica. Lo fanno per la reputazione, per la resilienza a future normative, per stimolare l’innovazione e, non da ultimo, per la redditività a lungo termine.
Infine, per le società per azioni, parallelamente alla quota clima, suggerisco di introdurre un “say on climate” a livello di assemblea generale. Questo permetterebbe agli azionisti di votare sulla strategia climatica sviluppata dal CdA e di approvare la relazione annuale sulla sua attuazione. Negli USA, dove risoluzioni non vincolanti degli azionisti sulla politica climatica sono già possibili, si vede un uso crescente di questo diritto. Un “say on climate” facoltativo (attivabile con una certa soglia di capitale sociale, es. un ventesimo) e consultivo (non vincolante, per non creare nuovi rischi di contenzioso, sul modello del “say on pay” tedesco) potrebbe dare grande autorevolezza alle decisioni, spingendo i CdA a tenerne conto.
In Conclusione: Un Diritto Societario più Verde è Possibile!
Affrontare il cambiamento climatico è il compito del secolo. Partendo dalla responsabilità specifica delle grandi aziende, credo fermamente che un “rinverdimento” del diritto societario sia non solo possibile, ma necessario. La “neutralità climatica”, pur con le sue imprecisioni scientifiche, è il concetto legale chiave. Dovrebbe essere determinata considerando le emissioni di Scope 1 e 2, e parzialmente quelle di Scope 3, privilegiando sempre la riduzione rispetto alla compensazione.
Una “quota clima” annuale, flessibile e autoimposta dalle grandi aziende, basata su un piano di transizione a lungo termine verso la neutralità entro il 2050, sarebbe un modo efficace per implementare l’articolo 22 della CSDDD. Abbinata a un “say on climate” per gli azionisti, creerebbe un sistema coerente e stimolante. Non si tratta di appesantire le aziende, ma di dare loro strumenti e certezza giuridica per affrontare una trasformazione che è già in atto e che, alla fine, porterà benefici a tutti noi. Che ne pensate? La discussione è aperta!
Fonte: Springer