Illustrazione concettuale astratta che mostra una figura umana stilizzata al centro di una rete complessa che collega elementi del cervello, del corpo, delle relazioni sociali e dell'ambiente fisico. Stile fotorealistico con elementi surreali, obiettivo grandangolare 24mm per dare un senso di contesto ampio, colori tenui ma con punti focali luminosi.

Psicopatologia Situata: E Se la Mente Non Fosse Solo Nella Testa?

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un’idea che sta scuotendo le fondamenta del modo in cui pensiamo alla sofferenza mentale: la psicopatologia situata. Sembra un termine complicato, vero? Ma fidatevi, il concetto è affascinante e, secondo me, apre porte incredibili per capire meglio noi stessi e gli altri.

Partiamo da un presupposto: la psichiatria diagnostica, quella che si basa sui manuali come il DSM o l’ICD, si è trovata un po’ in un vicolo cieco. Da quando, intorno agli anni ’80, si è passati da un modello che cercava le cause (eziologico) a uno basato sui sintomi, abbiamo assistito a un’esplosione di diagnosi. Nuove etichette continuano ad aggiungersi, e il dibattito è acceso: ci sono davvero più persone con disturbi mentali, o stiamo semplicemente etichettando come “malattia” esperienze umane che prima consideravamo normali, anche se dolorose? Pensate al lutto prolungato, recentemente aggiunto all’ICD-11. Era forse l’ultima grande sofferenza umana rimasta fuori dallo sguardo diagnostico?

Il problema fondamentale, secondo molti critici, è che questo approccio basato sui sintomi tende a “de-situare” la sofferenza. Isola i sintomi dal contesto della vita di una persona, vedendoli quasi come la malattia stessa. È un po’ come se, invece di cercare la causa di una tosse persistente (un’infezione, un’allergia?), considerassimo la tosse *stessa* la malattia da curare. Randolph Nesse, un ricercatore medico, chiama questa tendenza VSAD (Viewing Symptoms as Diseases – Vedere i Sintomi come Malattie). In medicina generale, i sintomi sono spesso visti come segnali, tentativi del corpo di proteggersi o guarire (tosse per espellere, febbre per combattere patogeni). In psichiatria, invece, i sintomi sono diventati quasi sinonimo di disturbo mentale.

Due Strade Critiche (Ma Incomplete?)

Di fronte a questa impasse, sono emerse due critiche principali, che però vanno in direzioni opposte.

Da un lato, abbiamo l’approccio neuroscientifico, ben rappresentato dal progetto RDoC (Research Domain Criteria) negli Stati Uniti. L’idea qui è: basta guardare i sintomi, dobbiamo trovare le cause nel cervello! RDoC propone di classificare i disturbi mentali basandosi sulla ricerca sul cervello e sulla genetica, cercando “biosignature” che indichino disfunzioni nei circuiti neurali. L’assunto di base è che le malattie mentali siano, fondamentalmente, malattie del cervello. È una prospettiva importante, che spinge a cercare meccanismi sottostanti. Però, diciamocelo, finora non sono stati trovati biomarcatori affidabili per i disturbi psichiatrici, e c’è il rischio concreto di ridurre tutta la complessità dell’esperienza umana a processi cerebrali. Il cervello è fondamentale, certo, ma non è un’entità isolata.

Dall’altro lato, c’è l’approccio contestuale, come il PTMF (Power Threat Meaning Framework) sviluppato nel Regno Unito. Questo framework sposta radicalmente il focus. Invece di chiedersi “Cosa c’è di sbagliato in te?” (domanda a cui spesso si risponde elencando sintomi), PTMF chiede: “Cosa ti è successo?“. L’idea è che la sofferenza psicologica sia una reazione comprensibile a eventi difficili, traumi, condizioni di vita avverse, relazioni di potere sbilanciate. Si analizza come il *potere* ha agito nella vita di una persona, quali *minacce* ha affrontato e quale *significato* ha dato a queste esperienze per sopravvivere. Questo approccio ha il grande merito di ridare dignità alle storie personali, di ridurre lo stigma e di sottolineare l’importanza delle condizioni sociali ed economiche. Tuttavia, a volte sembra quasi sottovalutare come le avversità possano effettivamente lasciare un segno *nella* persona, a livello psicologico o persino neurologico. Rischia di “dissolvere” la sofferenza individuale in un mare di fattori contestuali.

Immagine concettuale che rappresenta l'integrazione tra neuroscienze (simboleggiate da un cervello stilizzato o reti neurali) e fattori contestuali/sociali (simboleggiati da una rete di persone o un paesaggio urbano/naturale). Stile fotorealistico, luce drammatica, obiettivo 35mm, profondità di campo per sfocare leggermente uno dei due elementi mettendo a fuoco il punto di incontro.

Verso una Psicopatologia Situata: L’Integrazione Necessaria

Ed eccoci al punto cruciale. Né il cervello da solo, né il contesto da solo sembrano bastare. Serve una prospettiva che tenga insieme i pezzi: la psicopatologia situata. L’idea è che la sofferenza mentale non sia né una pura questione cerebrale/personale, né una pura questione ambientale/contestuale, ma nasca proprio nell’intersezione tra questi elementi nella vita concreta di una persona.

Ispirandomi al lavoro di pensatori come Thomas Fuchs, Jerome Wakefield e Dorte Gannik, ho provato a delineare quattro principi fondamentali per questa visione “situata”:

I Quattro Pilastri della Psicopatologia Situata

1. È Relazionale: La malattia non è una proprietà intrinseca della persona o dell’ambiente, ma emerge dalla relazione tra i due. Dorte Gannik parla di malattia come qualcosa che le persone “fanno” (non volontariamente, ma nel senso che si manifesta nelle loro interazioni con l’ambiente). Jerome Wakefield, con la sua teoria della “disfunzione dannosa”, aggiunge che per parlare di disturbo mentale servono due cose: un *danno* (sofferenza, disagio, valutato socialmente) e una *disfunzione* in un meccanismo mentale (un fatto biologico/psicologico). Il disturbo si manifesta solo quando entrambi questi aspetti si incontrano in una situazione specifica. Una disfunzione in un ambiente supportivo potrebbe non causare disturbo, così come un ambiente dannoso senza una disfunzione sottostante causa sofferenza, ma non necessariamente un disturbo mentale nel senso di Wakefield.

2. Ha Bisogno del Concetto di Nicchie Ecosociali: La nostra vita psicologica, sana o sofferente che sia, si svolge in “nicchie”. Non solo nicchie ecologiche come per gli animali, ma neuro-eco-sociali. Queste nicchie sono formate dal nostro cervello, dall’ambiente fisico e dalle relazioni sociali. Noi non siamo solo plasmati dalla nostra nicchia, ma contribuiamo attivamente a costruirla (pensate a come le norme sociali, la tecnologia, la cultura modellano il nostro mondo). La biologia evoluzionistica parla di “costruzione della nicchia”: gli organismi modificano l’ambiente, che a sua volta influenza la loro evoluzione. Per noi umani, questo è ancora più complesso. I disturbi mentali possono essere visti come modi rigidi o disfunzionali di interagire all’interno della propria nicchia, magari perché la nicchia stessa è problematica o perché mancano le risorse per costruirne una più adatta.

Fotografia macro, obiettivo 60mm, di una mano che scrive appunti importanti in un taccuino aperto, accanto a un paio di occhiali appoggiati sulla pagina. Illuminazione controllata e messa a fuoco precisa sui dettagli della scrittura e della texture della carta, simboleggiando l'estensione della mente tramite strumenti esterni.

3. Ha una Componente Esternalista (Mente Estesa): Qui entra in gioco il paradigma delle “4E”, secondo cui la mente è Embodied (incarnata nel corpo), Embedded (radicata nel contesto), Enacted (legata all’azione) ed Extended (estesa al di fuori del corpo). L’idea più radicale è quest’ultima: la mente non finisce ai confini del cranio! Usiamo continuamente strumenti esterni per pensare, ricordare, risolvere problemi. Pensate a uno smartphone, a un taccuino, persino a un paio di occhiali. Andy Clark ci chiama “cyborg nati naturali”. Se una persona con Alzheimer usa un taccuino per ricordare appuntamenti, quel taccuino diventa, funzionalmente, parte del suo processo mnemonico. Perché considerarlo meno “mentale” della memoria basata sul cervello? Questa prospettiva ci costringe a pensare ai disturbi mentali non solo come problemi “interni”, ma come difficoltà nell’interazione tra processi interni ed esterni, tra persona e strumenti/ambiente.

4. Vede il Cervello come un Organo Sociale: Torniamo al cervello, ma con una visione diversa. Thomas Fuchs, psichiatra fenomenologo, lo descrive magnificamente come un organo sociale e biografico. Il cervello è l’organo che media la nostra relazione con il mondo, ma non è la “sede” della mente. La mente, dice Fuchs, è distribuita tra cervello, corpo e mondo. Il cervello è plasmato dalle nostre esperienze, dalle nostre relazioni, dalla nostra cultura. È un organo essenziale per le nostre funzioni psicologiche, ma è l’organo *della persona*, non il contrario. Questo ci aiuta a evitare la “fallacia mereologica”: l’errore di attribuire a una parte (il cervello) proprietà che appartengono solo all’intero (la persona vivente). Il cervello non “pensa” o “sente”; la *persona* pensa e sente, e il cervello è l’organo che rende possibili (o a volte ostacola) queste attività. È più simile a uno strumento incredibilmente complesso che usiamo nella nostra vita situata.

Cosa Significa Tutto Questo in Pratica?

Adottare una prospettiva di psicopatologia situata significa smettere di cercare una singola causa (il gene “sbagliato”, il trauma specifico, il neurotrasmettitore carente) e iniziare a guardare alla complessa interazione tra fattori personali (biologici, psicologici, esperienziali) e fattori ambientali (sociali, culturali, fisici, tecnologici) nel qui e ora della vita di una persona.

Significa che l’intervento terapeutico potrebbe focalizzarsi a volte sul rafforzare le risorse interne della persona (magari anche a livello biologico, quando appropriato), altre volte sul modificare l’ambiente o le relazioni, altre volte ancora sull’aiutare la persona a trovare modi migliori per “navigare” la propria nicchia ecosociale.

Ritratto fotorealistico, obiettivo 35mm, in bianco e nero, di una persona che guarda pensierosa fuori da una finestra verso un ambiente urbano o naturale complesso. Profondità di campo che mantiene a fuoco sia la persona che l'ambiente esterno, simboleggiando la connessione inscindibile tra individuo e contesto.

È un cambio di paradigma che, a mio avviso, promette una comprensione più ricca, umana ed efficace della sofferenza psicologica. Non si tratta di negare l’importanza del cervello o delle esperienze passate, ma di vederli come parte di un quadro molto più ampio e dinamico: la persona situata nel suo mondo. E voi, cosa ne pensate?

Fonte: Springer

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