Mielofibrosi e Trombosi: Quando il DNA Ci Svela i Rischi Nascosti
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento tosto ma super affascinante: la mielofibrosi (MF) e il suo legame, a volte pericoloso, con la trombosi. Sapete, chi soffre di mielofibrosi ha un rischio più alto di andare incontro a eventi trombotici, sia venosi (VTE) che arteriosi (ATE). Il problema è che, ad oggi, non abbiamo un sistema di punteggio validato per capire *chi* è più a rischio e *quanto*. Un po’ come guidare nella nebbia, no?
Ecco perché uno studio recente si è tuffato nel mondo molecolare, cercando di scovare dei fattori di rischio genetici specifici per i due tipi di trombosi. Immaginatevi dei detective che analizzano il DNA di 141 pazienti con mielofibrosi per trovare indizi!
Caccia ai Geni “Colpevoli”
I ricercatori hanno usato tecniche avanzate (il cosiddetto sequenziamento di nuova generazione, o NGS) per esaminare un pannello di 30 geni “sospetti”, quelli che spesso giocano un ruolo nelle malattie mieloidi. Cosa hanno trovato? Un bel po’ di mutazioni: 137 definite “driver” (cioè quelle principali che guidano la malattia) e 164 “non-driver” (altre alterazioni genetiche presenti).
Tra i driver principali, il “solito sospetto” è la mutazione JAK2-V617F, trovata nel 55% dei pazienti (77 su 141). Poi c’è la mutazione CALR nel 32% (45 pazienti) e quella MPL nel 5% (7 pazienti). Addirittura, alcuni pazienti avevano combinazioni di queste mutazioni driver, e un piccolo gruppo (6%) era “triplo negativo”, cioè senza nessuna delle tre principali.
Un dettaglio interessante riguarda la JAK2-V617F: non basta sapere se c’è o no, ma anche *quanta* ce n’è. Hanno misurato la cosiddetta frequenza allelica variante (VAF), che in pratica ci dice la percentuale di cellule che portano quella mutazione. La mediana era del 34%, ma con un range enorme (dal 5% al 96%).
Ma non finisce qui! Ci sono anche le mutazioni “non-driver”, quelle che magari non guidano direttamente la mielofibrosi ma possono influenzarne l’andamento. Le più comuni? ASXL1 (in 34 pazienti), seguita da TET2 (26 pazienti), U2AF1 (12 pazienti) e DNMT3A (11 pazienti). Un vero e proprio panorama genetico complesso!
Trombosi: Venosa o Arteriosa? Non è la Stessa Cosa!
Durante un periodo di osservazione medio di quasi 5 anni, il 17% dei pazienti (24 persone) ha avuto una trombosi venosa (VTE), l’11% (15 persone) una trombosi arteriosa (ATE), e due sfortunati entrambe. Tra le VTE, una su due (12 casi) era una trombosi venosa splancnica, cioè nelle vene dell’addome, una forma particolarmente insidiosa.

Ed ecco il punto cruciale dello studio: collegare le mutazioni specifiche ai tipi di trombosi. I risultati sono stati illuminanti!
- La mutazione JAK2-V617F è risultata associata a un rischio aumentato di trombosi venosa (VTE). Chi aveva questa mutazione aveva una probabilità 2,6 volte maggiore di sviluppare una VTE.
- Sorprendentemente, la frequenza allelica (VAF) della JAK2-V617F, anche se alta (>50%), non sembrava aumentare ulteriormente il rischio trombotico in questo gruppo di pazienti con mielofibrosi. Questo è un po’ diverso da quanto visto in altre malattie simili come la policitemia vera (PV) o la trombocitemia essenziale (ET). Forse nella mielofibrosi le cose funzionano diversamente? O magari c’entra il fatto che molte VTE erano splancniche, un tipo di trombosi che sembra avere caratteristiche particolari.
- E per la trombosi arteriosa (ATE)? Qui entra in gioco un altro attore: la mutazione DNMT3A. Questa mutazione è emersa come un predittore indipendente di ATE. I pazienti con DNMT3A avevano un rischio ben 5,4 volte più alto di eventi arteriosi, anche tenendo conto di altri fattori di rischio classici come età, sesso e problemi cardiovascolari (fumo, ipertensione, diabete, colesterolo alto).
DNMT3A: Più di un Semplice Segno dell’Età?
La scoperta su DNMT3A è particolarmente intrigante. Queste mutazioni si trovano a volte anche in persone anziane sane, in un fenomeno chiamato “ematopoiesi clonale di potenziale indeterminato” (CHIP), e sono state collegate a eventi cardiovascolari. Ma nello studio sulla mielofibrosi, molti pazienti con DNMT3A non erano così anziani (l’età mediana era 63 anni, ma alcuni ne avevano solo 41), e la mutazione rimaneva un fattore di rischio per ATE indipendentemente dall’età e dai fattori cardiovascolari.
Questo suggerisce che, nel contesto della mielofibrosi, la mutazione DNMT3A potrebbe non essere solo un segno dell’invecchiamento, ma avere un ruolo più attivo nel promuovere la trombosi arteriosa. Come? L’ipotesi è che possa scatenare processi infiammatori più aggressivi, magari influenzando l’attività di alcune cellule immunitarie come i macrofagi e i linfociti T, creando un ambiente favorevole agli eventi arteriosi, specialmente a livello cerebrovascolare (ictus, TIA), che erano i più comuni tra i pazienti con DNMT3A nello studio.

Perché è Importante Distinguere?
Una cosa che questo studio sottolinea è l’importanza di non fare di tutta l’erba un fascio. Trombosi venosa e arteriosa hanno meccanismi diversi alla base (la cosiddetta fisiopatologia). Capire quali fattori molecolari spingono verso l’una o verso l’altra è fondamentale per poter, in futuro, personalizzare le strategie di prevenzione. Magari un paziente con JAK2-V617F avrà bisogno di un certo tipo di approccio preventivo per le VTE, mentre uno con DNMT3A dovrà stare più attento al rischio ATE.
Cosa Ci Portiamo a Casa?
Questo studio, anche se condotto in un singolo centro e con un numero di pazienti con DNMT3A non enorme, ci lancia segnali importanti:
1. Nella mielofibrosi, la mutazione JAK2-V617F è un campanello d’allarme per la trombosi venosa (VTE), indipendentemente da quanto sia “forte” la sua presenza (VAF).
2. La mutazione DNMT3A emerge come un fattore di rischio indipendente e significativo per la trombosi arteriosa (ATE). Questo è un dato nuovo e potenzialmente rivoluzionario!
3. Le mutazioni “non-driver” come DNMT3A non vanno sottovalutate e potrebbero (anzi, dovrebbero!) entrare a far parte dei futuri sistemi di valutazione del rischio trombotico nella mielofibrosi.
Certo, come sempre nella scienza, questi risultati dovranno essere confermati da studi più ampi e su popolazioni diverse. Ma la strada è tracciata: analizzare il profilo molecolare dei pazienti con mielofibrosi potrebbe diventare uno strumento potentissimo per prevedere e, speriamo, prevenire meglio queste complicazioni trombotiche che possono avere un impatto pesante sulla vita delle persone. È un passo avanti verso una medicina sempre più personalizzata e precisa. E questo, lasciatemelo dire, è davvero entusiasmante!
Fonte: Springer
