Povertà e Scuola: L’Elefante nella Stanza di Cui Nessuno Vuole Parlare
Eccoci qua, a parlare di un argomento che sembra onnipresente ma, allo stesso tempo, avvolto da un silenzio quasi assordante: il legame tra povertà e istruzione. Ne sentiamo parlare di continuo, i dati sulle performance scolastiche ci sbattono in faccia la realtà delle disuguaglianze legate all’origine sociale, eppure… eppure c’è un modo specifico, quasi codificato, di affrontare la questione. E, cosa ancora più strana, certi aspetti rimangono dei veri e propri tabù. Pensiamo alle logiche capitalistiche, ai rapporti di classe. Sembra quasi che nominarli sia sconveniente. Ma come possiamo liberare questi temi dal cono d’ombra e guardare davvero alle sfide del nostro sistema educativo?
Storie di ‘Successo’ o Fuga dalla Realtà?
Ultimamente, vanno molto di moda quelle che potremmo chiamare “autosociografie”. Sono racconti in prima persona, spesso toccanti, di chi ce l’ha fatta, di chi è partito da situazioni di povertà ed è riuscito a compiere quella che viene definita “ascesa sociale” o “viaggio di classe”. Queste storie, che spesso intrecciano la classe sociale con questioni di genere o migrazione, hanno indubbiamente un potenziale emancipatorio per chi vive situazioni simili e possono aiutarci a riflettere sulla società, decostruendo la narrazione neoliberale e meritocratica del “successo attraverso il merito”. Descrivono esperienze nel sistema educativo, la vita in famiglie precarie, a volte tentano anche una teorizzazione.
Potremmo pensare che questo contribuisca a rompere il tabù sulla disuguaglianza sociale e su come la scuola la riproduca. Dopotutto, la rilevanza delle disuguaglianze educative legate a origine sociale, geografica, storia migratoria o disabilità viene periodicamente ricordata. È un dato di fatto: bambini e ragazzi appartenenti a gruppi socialmente marginalizzati sono svantaggiati nel loro percorso educativo. Soprattutto quando si parla di classe, le prove empiriche sono schiaccianti.
I Numeri Non Mentono: Il Divario Educativo
Eppure, di classe si parla poco. Si preferisce usare il termine più neutro “status socio-economico” dei genitori, misurato spesso solo in base a reddito e titolo di studio. Certi aspetti, quindi, restano tabù. Il modo in cui parliamo (e scriviamo) di povertà e istruzione è selettivo.
Per capire la portata del problema, basta guardare al cosiddetto “imbuto educativo” (il “Bildungstrichter” tedesco). I dati più recenti sono impietosi e confermano, ancora una volta, quanto sia poco permeabile il nostro sistema. Prendiamo 100 bambini provenienti da famiglie “accademiche” (genitori laureati): circa 80 frequentano scuole superiori che danno accesso all’università e 78 effettivamente si iscrivono. Ora, prendiamo 100 bambini da famiglie “non accademiche”: solo 46 frequentano un liceo o istituto equivalente e appena 25 iniziano gli studi universitari. Una differenza abissale, non trovate?
Già 55 anni fa, Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron denunciavano la funzione riproduttiva delle istituzioni educative nel “mantenere l’ordine esistente” e il “razzismo di classe” insito in esse. Oggi, studi internazionali come PISA o IGLU continuano a evidenziare queste differenze legate alla disuguaglianza, puntando il dito sui “meccanismi strutturali di disuguaglianza nel sistema scolastico”. Ad esempio, emerge che studenti della “working class” o con background migratorio devono avere competenze di lettura significativamente più alte per ricevere una raccomandazione per il liceo da parte degli insegnanti.

La Scuola Riproduce o Trasforma? La Trappola della ‘Pedagogizzazione’
Il fatto che persino gli autori degli studi IGLU dimostrino meccanismi di discriminazione istituzionale sembra non creare alcuna contraddizione a livello politico quando poi si propongono programmi che, di fatto, individualizzano queste disuguaglianze educative. Certo, le misure per ridurle (come programmi specifici per le scuole dell’infanzia o per le aree a rischio) sono benvenute e agiscono a livello istituzionale, ma l’obiettivo generale sembra rimanere quello di migliorare le “prestazioni” degli (futuri) studenti e della forza lavoro, secondo una logica da capitale umano.
La discriminazione, le ideologie di disuguaglianza come i pregiudizi razzisti o classisti tra gli insegnanti, o le logiche intrinseche al sistema educativo stesso, non vengono affrontate come problemi da risolvere alla radice. Un ruolo chiave viene ancora attribuito agli asili nido e alle scuole dell’infanzia. Ma anche i servizi sociali per l’infanzia e l’adolescenza vengono caricati di questa responsabilità sociale. In questo modo, il problema generale della riproduzione delle disuguaglianze sociali attraverso il sistema educativo viene “esternalizzato” e la responsabilità scaricata su altri settori. Questa “pedagogizzazione” delle disuguaglianze sociali, che in parte sono generate proprio dal sistema educativo, è criticata da tempo.
Oggi, una percentuale altissima di bambini frequenta nidi e scuole materne (in Germania, nel 2023, il 36,4% sotto i tre anni e il 90,9% tra i tre e i cinque anni). La spesa per i servizi all’infanzia è aumentata enormemente. Questo indica l’importanza attribuita a questi servizi, ma non dice molto su come vengano utilizzati.
Parliamo di Classe, Parliamo di Capitalismo
Intanto, i sindacati denunciano il continuo sottofinanziamento del sistema educativo: carenza di personale, strutture fatiscenti, deprofessionalizzazione. E questo nonostante le misure politiche che, come dicevamo, spesso seguono logiche di investimento da capitale umano.
Parallelamente a questo tema scottante delle disuguaglianze sociali ed educative, assistiamo a un preoccupante aumento del consenso verso ideologie di disuguaglianza, che si diffondono ampiamente nella società. L’economizzazione del sociale, come sottolinea Wilhelm Heitmeyer, contribuisce al rafforzamento di queste ideologie, riconducibili a un capitalismo autoritario che subordina tutto, comprese le persone e la loro presunta “utilità”, al capitale. Questo porta alla svalutazione e stigmatizzazione di chi viene considerato “inutile”: persone con disabilità, richiedenti asilo, senzatetto, disoccupati di lunga durata e, potenzialmente, anche persone in povertà. Un tema che richiederà sempre più attenzione anche da parte dei servizi sociali, chiamando in causa l’educazione civica e la promozione della democrazia.
Come Ne Parliamo? Le Trappole del Linguaggio Comune (e Scientifico)
Nella mia ricerca (“Armut, Bildung und Soziale Ungleichheiten. Deutungen und Bedeutungen in der Pädagogik der frühen Kindheit”, Simon 2023), ho analizzato proprio come si parla di povertà e istruzione, ad esempio, nei team educativi degli asili nido. Sono emerse diverse modalità interpretative, veri e propri “pattern” che si legano a pratiche di riproduzione (ma potenzialmente anche di trasformazione) delle disuguaglianze sociali. Ve ne presento alcuni idealtipici:
- Naturalizzazione della disuguaglianza: Si parla di “povertà educativa” come qualcosa di innato o trasmesso dai genitori, a volte con sfumature razziste. Riguarda soprattutto i bambini che, agli occhi degli educatori, non si esprimono “adeguatamente”. Questo blocca ogni azione pedagogica, perché povertà e (mancanza di) istruzione sono viste come un dato di fatto in certe famiglie.
- Determinismo biologico/sociale: Simile al precedente, ma meno rassegnato. Gli educatori, usando un linguaggio pseudo-psicologico e teorie deterministiche sulla socializzazione, pensano che i bambini abbiano bisogno di una “natura forte” per sfuggire alla loro condizione sociale. Entrambe le interpretazioni rivelano un quadro classista che svaluta le persone in povertà.
- L’ideale meritocratico: Si promuovono le opportunità educative future, puntando su impegno e sforzo come pratiche borghesi desiderabili. Gli educatori in questo gruppo mettono in discussione le barriere sistemiche e valorizzano le offerte extrascolastiche.
- Focus sulla partecipazione: L’obiettivo è stimolare processi educativi quotidiani in genitori e bambini poveri attraverso una partnership educativa vissuta (ma asimmetrica) e un “atteggiamento privo di pregiudizi”. Qui si combinano spiegazioni strutturali e individuali, permettendo un’azione non bloccata da sensi di colpa, anche se a volte emergono attribuzioni svalutanti o culturalizzanti.
- Critica disillusa o vaga: Altri gruppi vedono la “parità di opportunità” come una chimera e si concentrano sullo sviluppo della personalità, oppure esprimono una vaga critica al capitalismo. Entrambi contengono potenzialità critiche, ma nel primo caso sono soffocate da interpretazioni individualistiche, classiste e razziste, portando alla rassegnazione.
- Appelli neoliberali in veste cristiana: Un ultimo caso unisce posizioni apparentemente opposte. Gli educatori enfatizzano il loro impegno per stimolare l’auto-responsabilità, motivati da ragioni cristiano-sociali, andando oltre il loro mandato pedagogico. L’istruzione qui non gioca alcun ruolo.

Queste interpretazioni non sono specifiche del mondo pedagogico, ma riflettono atteggiamenti diffusi nella società. Le ritroviamo anche in testi scientifici sulle disuguaglianze educative.
Anche la Scienza Ha le Sue Colpe?
Sì, perché anche la ricerca scientifica, attraverso la scelta di metodi, prospettive, termini o forme di critica, produce diverse interpretazioni delle disuguaglianze educative, conferendo loro una certa legittimità sociale. Pensiamo al termine “povertà educativa” (“Bildungsarmut”), che nel tempo ha subito trasformazioni fino a un’interpretazione oggi dominante, individualizzante e con un alto potenziale di stigmatizzazione classista. O pensiamo all’evitare il concetto di classe o le spiegazioni socio-teoriche nelle analisi.
Possiamo distinguere diverse pratiche scientifiche: alcune (come la “critica sociale teorizzante” o lo “svelamento analitico”) introducono interpretazioni strutturali; altre (“occultamento delle condizioni sociali generali” o “descrizioni da posizione egemonica”) offrono letture individualistiche. Altre ancora cercano di mediare o rimangono aperte, riflettendo la complessità come un prisma. Alcune pratiche scientifiche riflettono sulla propria posizione e sul proprio ruolo nella (ri)produzione delle disuguaglianze, altre tendono a presentare una visione oggettiva.
Istruzione e povertà sono concetti intrecciati, forse perché socialmente costitutivi per l’idea di una struttura sociale gerarchica, a volte considerata necessaria. Ma il fatto che la posizione sociale non sia solo il risultato degli sforzi individuali nel sistema educativo e nel mercato del lavoro, ma piuttosto un “bricolage” di casualità (dove sei nato, i contatti, le opportunità, la situazione finanziaria di genitori e nonni…) viene ampiamente ignorato. Le logiche capitalistiche, la lente dell’economicismo, non permettono queste letture: la posizione di classe sarebbe solo frutto di investimenti sociali, finanziari, culturali o economici.
Gli studi sulle disuguaglianze educative spesso si concentrano su singoli aspetti del sistema, offrendo uno sguardo microscopico ma partendo dall’individuo, indirizzando così l’interpretazione dei risultati. Anche la pratica scientifica, quindi, tende a mantenere la tautologia tra istruzione e povertà. Questo può e deve essere criticato. Analisi sempre più dettagliate sugli attori e le loro competenze tendono a mettere in secondo piano le “grandi” questioni sociali. Sembra che solo gli individui, al massimo la pratica pedagogica, necessitino di intervento, meno il sistema educativo e la sua logica gerarchica basata sul merito.
Rompere il Tabù: Una Necessità Urgente
Non possiamo certo accusare la pratica socio-pedagogica se la povertà non viene sempre vista come un problema strutturale e l’istruzione non viene sempre negoziata come contenuto da definire anche dagli stessi attori. La conoscenza delle strutture economiche che generano povertà o una critica fondata sulla teoria dell’educazione non sono sempre parte della formazione.
Le relazioni strutturali di disuguaglianza fondamentali, come le strutture di classe generate dalle logiche capitalistiche e le pratiche classiste di svalutazione ed esclusione ad esse connesse, sono poco considerate nei percorsi di formazione e aggiornamento. Questo, come emerge dalla mia ricerca, non è solo un limite della pratica, ma un problema sociale generale: anche nel dibattito scientifico, soprattutto quando si parla di disuguaglianze sociali, prevale spesso uno sguardo individualistico sull’istruzione che ignora la dimensione costitutiva dei rapporti di classe.
La formazione nel campo del lavoro sociale deve quindi affrontare criticamente e riflessivamente il tema della povertà e le connessioni tra istruzione e disuguaglianze sociali. Non solo chiedendoci come ricerchiamo questi legami e con quali presupposti, come ne scriviamo e parliamo, ma anche come li insegniamo. E qui, c’è ancora molto spazio per approfondire la tematizzazione dei rapporti di classe, della struttura (tardo-)capitalista e delle relative disuguaglianze nella didattica e nella pratica.
Come diceva Adorno, “il dominio di classe si appresta a sopravvivere alla forma anonima e oggettiva della classe”, perciò è necessario “osservare il concetto stesso di classe così da vicino da trattenerlo e trasformarlo allo stesso tempo”. Ma questo è impensabile senza una scienza dell’educazione fondata sulla teoria sociale. Forse, allora, potremo tornare a pensare insieme a un’utopia che unisca la gestione del presente (così importante, come ricorda Max Czollek) con l’immaginazione di una società in cui “finalmente le cose cambino” (come auspica Bini Adamczak).
Fonte: Springer
