Un team medico in una terapia intensiva che esegue con cura la manovra di posizionamento prono su un paziente con ARDS. L'immagine, catturata con un obiettivo da 35mm, ha una profondità di campo che sfoca leggermente lo sfondo, concentrando l'attenzione sull'interazione e la serietà del momento. Luci soffuse da sala operatoria, colori naturali ma intensi.

Pancia in Giù Salva la Vita? Quanto Tempo Serve Davvero per Battere l’ARDS

Amici lettori, oggi voglio parlarvi di una questione che, per chi bazzica le terapie intensive, è pane quotidiano, ma che forse per molti è un territorio inesplorato: la sindrome da distress respiratorio acuto, o ARDS. Una brutta bestia, ve lo assicuro, che fa sudare freddo medici e infermieri e che, purtroppo, si porta via ancora troppe vite. Parliamo di una condizione in cui i polmoni si infiammano talmente tanto da non riuscire più a fare il loro lavoro, lasciando il paziente letteralmente senza fiato. Le statistiche dicono che circa il 10% dei ricoveri in terapia intensiva è dovuto all’ARDS, e la mortalità nei casi moderati o gravi supera il 40%. Un vero incubo.

Tra le varie strategie per combatterla, una delle più note e utilizzate è la posizione prona, ovvero mettere il paziente a pancia in giù. Sembra semplice, vero? Eppure, questa manovra, conosciuta fin dagli anni ’70, può fare una grande differenza, aiutando a migliorare l’ossigenazione e a “reclutare” parti del polmone che altrimenti rimarrebbero schiacciate e inutilizzate. Pensateci: migliora il rapporto ventilazione/perfusione, aumenta il volume polmonare a fine espirazione e distribuisce meglio l’aria inspirata. Insomma, un toccasana. Però, c’è un “però”. Mettere un paziente intubato e critico a pancia in giù non è una passeggiata: richiede personale esperto, aumenta il carico di lavoro infermieristico e, se non fatto a regola d’arte, può portare a instabilità emodinamica o addirittura peggiorare il danno polmonare. Un bel dilemma.

La Domanda da Un Milione di Dollari: Quanto Tempo a Pancia in Giù?

E qui arriviamo al nocciolo della questione, quella che mi ha spinto a scrivere oggi. Per quanto tempo dobbiamo tenere i nostri pazienti in posizione prona? Le linee guida attuali suggeriscono cicli di 12-16 ore al giorno, ma c’è un gran fermento nella comunità scientifica, perché l’ottimizzazione di questa durata potrebbe essere la chiave per migliorare ulteriormente gli esiti. Recentemente, mi sono imbattuto in uno studio retrospettivo molto interessante, condotto presso l’ospedale Nanfang della Southern Medical University in Cina, che ha cercato di fare luce proprio su questo aspetto. E i risultati, ve lo anticipo, sono piuttosto stuzzicanti.

Lo studio ha preso in esame 234 pazienti con ARDS ricoverati in terapia intensiva che avevano ricevuto la ventilazione in posizione prona. Questi pazienti sono stati divisi in due gruppi: quelli che avevano passato almeno 16 ore consecutive a pancia in giù (definiti come gruppo “posizione prona prolungata” o PPP) e quelli che ci erano stati per meno di 16 ore (gruppo “posizione prona standard” o SPP). Per essere sicuri di confrontare mele con mele, i ricercatori hanno usato una tecnica statistica chiamata Propensity Score Matching (PSM), che serve a bilanciare le caratteristiche di base dei pazienti nei due gruppi. Immaginatevela come un modo per creare due squadre il più possibile simili, così da poter attribuire le differenze negli esiti proprio alla durata della pronazione.

I Risultati: Più Tempo, Più Vita?

Tenetevi forte, perché i dati sono eloquenti. Dopo aver “pareggiato i conti” con il PSM, confrontando 81 coppie di pazienti, è emerso che il gruppo PPP, quello con la pronazione prolungata, aveva una mortalità a 28 giorni significativamente più bassa: 46,9% contro il 53,1% del gruppo SPP. Un dato che fa riflettere, con un hazard ratio (HR) di 0.53, che in parole povere significa che il rischio di morire era quasi dimezzato per chi stava prono più a lungo. Non solo, ma anche la risposta alla posizione prona era migliore nel gruppo PPP: il 70,5% dei pazienti mostrava un miglioramento significativo dell’ossigenazione (un aumento di almeno 20 mmHg nel rapporto PaO2/FiO2) contro il 60,5% del gruppo SPP.

I ricercatori hanno anche usato un’analisi con curve spline cubiche ristrette (RCS), uno strumento statistico un po’ complesso ma molto utile per vedere come cambia una variabile in risposta a un’altra. E cosa hanno visto? Che all’aumentare della durata della posizione prona, la mortalità a 28 giorni tendeva a diminuire gradualmente, e parallelamente aumentava la probabilità di una buona risposta alla manovra. Insomma, più tempo a pancia in giù, maggiori benefici.

Un'immagine macro ad alta definizione di alveoli polmonari, alcuni collassati e altri ben aperti, con illuminazione controllata per evidenziare la differenza. L'immagine è catturata con un obiettivo macro da 100mm, mostrando dettagli precisi della struttura polmonare e l'effetto del reclutamento alveolare.

C’è però un aspetto dove non si sono viste differenze significative: la durata della degenza in terapia intensiva o in ospedale. Questo potrebbe suggerire che, sebbene la pronazione prolungata salvi più vite, non necessariamente accorcia i tempi di recupero per chi sopravvive. Ma, diciamocelo, tra salvare una vita e dimettere un paziente un giorno prima, la scelta è ovvia!

E le Complicazioni? Niente Panico!

Una delle preoccupazioni quando si parla di prolungare la posizione prona è, ovviamente, l’aumento del rischio di complicanze. Pensate alle lesioni da pressione, al rischio di spostamento di cateteri o tubi, all’instabilità emodinamica. Ebbene, lo studio ha monitorato attentamente anche questi aspetti. Su 123 pazienti di cui si avevano dati completi sulle complicanze, l’incidenza generale è stata del 49%. La più comune? Le lesioni da pressione (38,2%). Ma la notizia rassicurante è che non ci sono state differenze significative nell’incidenza delle complicanze tra il gruppo PPP (50%) e il gruppo SPP (47,9%). Questo è un punto cruciale: sembra che possiamo prolungare la durata della pronazione senza pagare un prezzo più alto in termini di effetti avversi.

Perché Più a Lungo Funziona Meglio?

Ma perché stare a pancia in giù per più tempo dovrebbe essere così vantaggioso? Gli autori dello studio suggeriscono alcune spiegazioni fisiologiche. La posizione prona, come dicevamo, migliora il reclutamento polmonare, specialmente nelle zone posteriori del polmone, e riduce lo stress e la deformazione (strain) a cui il tessuto polmonare è sottoposto. Prolungare la sessione potrebbe permettere a questi benefici di consolidarsi. Pensateci: se interrompete troppo presto, magari non date tempo ai polmoni di “assestarsi” nella nuova configurazione più vantaggiosa. Alcuni studi, infatti, hanno mostrato che gli effetti positivi, come l’aumento della compliance polmonare, possono persistere fino a 24 ore dopo la pronazione. Inoltre, c’è un aspetto interessante: nel gruppo PPP, il numero mediano di sessioni di pronazione durante la degenza in ICU è stato di 2, contro le 3 del gruppo SPP. Meno “gira e volta”, meno stress per il paziente e, potenzialmente, meno rischio di Ventilator-Induced Lung Injury (VILI) legato alle manovre di riposizionamento.

Lo studio ha anche esplorato come alcuni parametri influenzassero la mortalità e la risposta. Ad esempio, livelli di PaCO2 (anidride carbonica nel sangue) superiori a 50 mmHg erano associati a un aumento del rischio di morte, mentre valori di PaO2 (ossigeno nel sangue) superiori a 100 mmHg erano associati a una ridotta probabilità di risposta alla pronazione (forse perché chi ha già un’ossigenazione così “buona” ha meno margine di miglioramento con la manovra?). Anche valori di PEEP (pressione positiva di fine espirazione) superiori a 10 cmH2O erano associati a una mortalità più alta, suggerendo che forse questi pazienti avevano polmoni più difficili da reclutare e la sola PEEP non bastava.

Chi Ne Beneficia di Più?

L’analisi per sottogruppi ha rivelato che la posizione prona prolungata sembrava essere particolarmente efficace nel migliorare la prognosi in pazienti con ARDS moderata-severa, età ≥ 65 anni, un indice di comorbilità di Charlson (CCI) ≥ 6, e un punteggio di Murray (che valuta la gravità del danno polmonare) ≥ 2.5. Curiosamente, lo stato COVID-19 e il sesso non sembravano influenzare l’impatto della PPP sulla mortalità. Per quanto riguarda il tasso di risposta, la PPP migliorava la risposta del paziente indipendentemente dal loro punteggio di Murray.

Un'infermiera specializzata in terapia intensiva che monitora attentamente i parametri vitali di un paziente in posizione prona. L'immagine è un ritratto a 35mm, con toni duotone seppia e grigio chiaro, che crea un'atmosfera concentrata e professionale, mettendo in risalto la dedizione del personale sanitario.

Qualche Cautela e Prospettive Future

Come ogni studio, anche questo ha i suoi limiti. Essendo retrospettivo e condotto in un singolo centro, potrebbe avere dei bias. Inoltre, si è analizzata solo la risposta alla prima sessione di pronazione, e non si può escludere che ci siano fattori confondenti residui. Nonostante gli sforzi per gestire i dati mancanti (inevitabili in studi retrospettivi), è sempre bene interpretare i risultati con un pizzico di cautela. Tuttavia, i risultati sono robusti e coerenti con altre evidenze che stanno emergendo.

Cosa ci portiamo a casa da questa chiacchierata? Che la strategia di tenere i pazienti con ARDS in posizione prona per almeno 16 ore sembra associata a una significativa riduzione della mortalità a 28 giorni e a una migliore risposta fisiologica, senza un apparente aumento del rischio di complicanze. Questo non solo è un bene per i pazienti, ma potrebbe anche, come suggeriscono gli autori, portare a una riduzione del carico di lavoro per il personale sanitario, dato che si ridurrebbe la frequenza delle manovre di posizionamento. Un aspetto non da poco, specialmente in contesti con risorse limitate.

Certo, come sempre nella scienza, questi risultati necessitano di conferme da studi prospettici randomizzati e controllati, il “gold standard” della ricerca. Ma la direzione sembra tracciata: quando si tratta di posizione prona nell’ARDS, “di più” potrebbe davvero essere “meglio”. E questa, amici miei, è una notizia che ci dà speranza nella lotta contro questa terribile sindrome.

Fonte: Springer

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *