Quando l’influenza nasconde un nemico insidioso: il caso del Fusobacterium necrophorum
Amici, parliamoci chiaro: l’influenza, chi più chi meno, l’abbiamo provata tutti. Febbre, tosse, quel senso di spossatezza generale… di solito, con un po’ di riposo e qualche rimedio della nonna (o del medico), in una settimana siamo di nuovo in piedi. Ma cosa succede quando quella che sembra una “banale” influenza si trasforma in qualcosa di più ostico, che non ne vuole sapere di andarsene e, anzi, peggiora?
Oggi voglio raccontarvi una storia clinica che ha dell’incredibile, un vero e proprio giallo medico che ci insegna quanto sia importante non dare mai nulla per scontato, soprattutto quando si parla della nostra salute. Parliamo di un giovane uomo, nel pieno delle sue forze, che si è trovato a combattere contro un nemico inaspettato, mascherato inizialmente da una comune influenza: il Fusobacterium necrophorum.
Un inizio ingannevole: l’influenza che non passa
Tutto comincia come tante storie di malanni di stagione. Il nostro protagonista, un uomo di trent’anni, inizia ad accusare i classici sintomi influenzali: mal di gola, naso che cola, tosse. Prova anche un antivirale, il baloxavir marboxil, ma niente, i sintomi persistono. Anzi, la situazione peggiora. Dopo nove giorni, si presenta in un ambulatorio febbrile con una temperatura da cavallo (39.2 °C), tosse insistente da oltre 20 giorni e un dolore progressivo al torace destro che lo tormenta da più di 10 giorni.
Gli esami del sangue parlano chiaro: c’è un’infezione in corso. I globuli bianchi sono alle stelle (21.9 × 109/L, quando il normale è tra 4 e 10), con una percentuale di neutrofili dell’89.5% (normalmente tra 50-70%). Anche la proteina C-reattiva (PCR), un altro marcatore di infiammazione, è altissima: 175.4 mg/L, contro un valore normale inferiore a 10. E, ciliegina sulla torta, il test per l’antigene del virus influenzale A risulta positivo. Diagnosi iniziale: influenza A complicata da una polmonite acquisita in comunità (CAP). Scatta subito la terapia empirica con moxifloxacina per sette giorni.
Il mistero si infittisce: il ricovero e i primi tentativi
Nonostante la terapia antibiotica, il nostro paziente non migliora. Il giorno prima del ricovero, i valori del sangue sono ancora preoccupanti, e una TAC toracica rivela un peggioramento dell’infiammazione e un consolidamento nel polmone destro. A questo punto, il ricovero diventa inevitabile. In ospedale, si cambia strategia terapeutica: si passa a piperacillina-tazobactam.
Partono tutti gli accertamenti del caso per scovare batteri, funghi e virus. Ma, a parte la confermata positività per l’acido nucleico del virus dell’influenza A, tutti gli altri test risultano negativi. Al terzo giorno di ricovero, si aggiunge oseltamivir e, il giorno dopo, doxiciclina, pensando a patogeni atipici. Ma la febbre non accenna a diminuire. Siamo di fronte a un vero rompicapo.
È chiaro che i metodi diagnostici convenzionali non stanno portando a una soluzione. C’è qualcosa che sfugge. E quando le armi tradizionali falliscono, bisogna ricorrere all’artiglieria pesante della diagnostica.
La svolta tecnologica: l’mNGS svela l’arcano
Il 3 gennaio 2024, si decide di procedere con una broncoscopia. Durante l’esame, si osserva una piccola quantità di secrezione biancastra nel lobo inferiore destro, ma nulla di eclatante. Il vero tesoro, però, è il liquido di lavaggio broncoalveolare (BALF) prelevato durante la procedura. Questo campione viene inviato per un’analisi super avanzata: il sequenziamento metagenomico di nuova generazione (mNGS).
L’mNGS è una tecnica potentissima che permette di analizzare tutto il materiale genetico presente in un campione, identificando così anche i microrganismi più rari o difficili da coltivare con i metodi standard. E, finalmente, l’mNGS dà un nome al colpevole: Fusobacterium necrophorum (con un numero di sequenze pari a 6421, un dato significativo!) e, come previsto, il virus dell’influenza A (con solo 1 sequenza, indicando probabilmente una fase calante dell’infezione virale o residui virali).
Viene subito esclusa la sindrome di Lemierre, una grave complicanza a volte associata al F. necrophorum, grazie a un’ecografia Doppler delle vene giugulari interne e a emocolture negative. Ora, con un nemico identificato, si può finalmente pianificare una strategia mirata.
Finalmente la cura giusta: la vittoria sul batterio
La terapia viene immediatamente aggiustata: si introduce l’ornidazolo, un antibiotico efficace contro i batteri anaerobi come il nostro Fusobacterium, mantenendo l’imipenem (o piperacillina-tazobactam). E come per magia (ma in realtà è scienza!), la febbre scompare e gli indicatori infiammatori iniziano a normalizzarsi. Una nuova TAC toracica mostra un netto miglioramento delle lesioni polmonari. Dopo 17 giorni di ospedale, il paziente viene finalmente dimesso, con una terapia orale di amoxicillina-acido clavulanico e ornidazolo da proseguire per quattro settimane.
Chi è questo Fusobacterium necrophorum? Un batterio da non sottovalutare
Ma chi è questo Fusobacterium necrophorum? È un bacillo Gram-negativo, anaerobio obbligato (cioè vive solo in assenza di ossigeno) e non sporigeno. Sorprendentemente, fa parte della normale flora batterica del tratto respiratorio superiore di esseri umani e animali. Allora come fa a causare un’infezione così grave?
Qui entra in gioco l’influenza. L’infezione virale può indebolire il sistema immunitario, danneggiare l’epitelio respiratorio e compromettere i normali meccanismi di pulizia delle vie aeree. Questo crea una sorta di “autostrada” per batteri come il F. necrophorum, permettendogli di migrare dal tratto respiratorio superiore a quello inferiore, dove può scatenare l’inferno, causando polmoniti necrotizzanti, cioè che distruggono il tessuto polmonare.
Come dicevo, è il principale responsabile della sindrome di Lemierre, una tromboflebite settica della vena giugulare interna, ma può anche causare osteiti. Tuttavia, è considerato una causa rara di polmonite acquisita in comunità, e il fatto che non cresca con i normali metodi di coltura aerobica spesso porta i medici a trascurarlo. L’uso di antibiotici inappropriati, come la moxifloxacina inizialmente somministrata al nostro paziente (che non copre il F. necrophorum), può prolungare la degenza ospedaliera e, nei casi più gravi, portare a insufficienza multiorgano e persino alla morte se la diagnosi e il trattamento non sono tempestivi.
Il trattamento standard per le infezioni da F. necrophorum dovrebbe includere un ciclo prolungato di antibiotici beta-lattamici per via endovenosa in combinazione con metronidazolo (o, come nel nostro caso, ornidazolo, che appartiene alla stessa famiglia).
L’arma segreta: il sequenziamento metagenomico di nuova generazione (mNGS)
Questo caso sottolinea in modo lampante il valore dell’mNGS. Questa tecnologia si sta rivelando una promessa incredibile nella diagnosi delle malattie infettive. È rapida, accurata e, cosa fondamentale, può rilevare anche il DNA di microrganismi non vitali. Questo è particolarmente utile per i pazienti che, come il nostro, hanno già ricevuto terapie antibiotiche prolungate che potrebbero aver compromesso la possibilità di isolare il patogeno con le colture tradizionali.
Certo, al momento i costi e la disponibilità dell’mNGS ne limitano l’uso su larga scala, ma è fondamentale considerarlo quando le colture convenzionali sono negative ma c’è un forte sospetto di infezione, specialmente se la terapia antibiotica empirica non sta dando i risultati sperati.
Cosa ci insegna questa storia? Lezioni preziose per il futuro
La vicenda di questo giovane paziente ci lascia alcuni insegnamenti importanti. Innanzitutto, il Fusobacterium necrophorum, sebbene raro, deve essere preso in considerazione come potenziale colpevole nelle polmoniti acquisite in comunità, specialmente in adulti precedentemente sani, quando le colture standard sono negative e c’è un forte sospetto clinico di infezione. Questo è ancora più vero se la terapia anti-infettiva iniziale non sortisce l’effetto desiderato.
In secondo luogo, la co-infezione con l’influenza può giocare un ruolo cruciale nel predisporre a queste superinfezioni batteriche. Quindi, mai abbassare la guardia, anche dopo una diagnosi di influenza, se i sintomi persistono o peggiorano.
Infine, l’avanzamento tecnologico, rappresentato in questo caso dall’mNGS, ci offre strumenti sempre più potenti per risolvere enigmi diagnostici complessi. È un invito a noi medici a rimanere aggiornati e a considerare tutte le opzioni disponibili per arrivare a una diagnosi precisa e a un trattamento efficace.
Certo, questo studio ha una limitazione: il patogeno non è stato confermato tramite coltura anaerobica. Tuttavia, la forza dei dati dell’mNGS e la risposta clinica alla terapia mirata lasciano pochi dubbi sull’identità del nostro “nemico nascosto”.
Una storia a lieto fine, dunque, che ci ricorda come la medicina sia un campo in continua evoluzione, dove l’osservazione attenta, il sospetto clinico e l’uso intelligente della tecnologia possono fare davvero la differenza tra un mistero irrisolto e una vita salvata.
Fonte: Springer