Pneumococco Post-COVID: Cronaca di un Ritorno Annunciato e le Insidie delle Coinfezioni
Ragazzi, parliamoci chiaro. La pandemia di COVID-19 ha stravolto le nostre vite in modi che ancora stiamo cercando di capire fino in fondo. Ma vi siete mai chiesti che fine avessero fatto gli altri “cattivi”, quei batteri e virus che ci davano filo da torcere ben prima che il SARS-CoV-2 entrasse in scena? Io sì, e mi sono imbattuto in uno studio affascinante che getta luce su uno di questi protagonisti: lo Streptococcus pneumoniae, meglio noto come pneumococco, il principale responsabile della polmonite batterica.
Questo studio, condotto a Hong Kong su un arco temporale che va dal 2015 fino all’agosto 2024, ha analizzato migliaia di ricoveri ospedalieri dovuti proprio allo pneumococco, dividendoli in tre fasi cruciali: il periodo pre-pandemia (che chiameremo “baseline”), il pieno della pandemia (2020-2022) e il periodo successivo, quello che stiamo vivendo ora (“post-pandemia”). L’obiettivo? Capire come l’arrivo del COVID-19 e le misure che abbiamo adottato (mascherine, distanziamento) abbiano influenzato l’incidenza di questa malattia, le sue caratteristiche e, soprattutto, i suoi esiti. E non solo: hanno indagato anche il pericoloso “ménage à trois” tra pneumococco, influenza e COVID-19.
Un’altalena inaspettata: l’incidenza dello pneumococco
La prima cosa che salta all’occhio è quasi ovvia, ma vederla nero su bianco fa sempre effetto. Durante gli anni clou della pandemia (2020-2022), i ricoveri per malattie da pneumococco sono crollati drasticamente. Meno contatti sociali, mascherine ovunque… sembra che queste misure abbiano funzionato non solo contro il COVID, ma abbiano dato una bella batosta anche allo pneumococco. L’incidenza annuale è passata da una media di 11 casi ogni 100.000 persone nel periodo pre-pandemia a circa 4-6 casi durante la pandemia.
Ma, come spesso accade, la quiete non è durata per sempre. Dal marzo 2023, con l’allentamento delle restrizioni, abbiamo assistito a una risalita graduale ma costante. Nel 2023 l’incidenza è tornata a 8,7 casi per 100.000, e le stime per il 2024 la danno quasi ai livelli pre-pandemici (circa 9,9 casi). Insomma, lo pneumococco è tornato a farsi sentire, anche se forse un po’ più lentamente rispetto a quanto osservato in altri paesi, probabilmente perché molti qui a Hong Kong hanno continuato a usare le mascherine anche dopo la fine dell’emergenza.
Un dato interessante riguarda la distinzione tra forme invasive (quando il batterio si trova in siti normalmente sterili come sangue o liquido cerebrospinale) e non invasive (la classica polmonite diagnosticata con test specifici come quello antigenico urinario, UAT). Lo studio ha notato che il rapporto tra polmonite non invasiva (NIPP) e polmonite invasiva (IPP) è aumentato durante e dopo la pandemia. Se prima era circa 5-8 a 1, è schizzato a 16-21 a 1 durante la pandemia, per poi assestarsi su 10-12 a 1 dopo. Questo potrebbe essere dovuto anche a una maggiore disponibilità e utilizzo del test UAT, che permette di diagnosticare più casi di polmonite pneumococcica che altrimenti sfuggirebbero. Questo suggerisce che il carico reale della polmonite da pneumococco potrebbe essere sottostimato.

Il ballo a tre: Pneumococco, Influenza e COVID-19
Qui le cose si fanno ancora più intricate. Lo studio ha analizzato le coinfezioni, cioè quando un paziente ricoverato per pneumococco risultava positivo anche per l’influenza o per il COVID-19. I risultati sono illuminanti.
C’è una correlazione fortissima tra l’attività influenzale stagionale e i ricoveri per pneumococco. In pratica, quando circola l’influenza, aumentano anche i casi di pneumococco. Non a caso, durante il periodo pandemico, con l’influenza quasi scomparsa grazie alle misure anti-COVID, anche le coinfezioni pneumococco-influenza sono crollate (praticamente zero da aprile 2020 a dicembre 2022). Ma appena l’influenza è tornata a circolare nel 2023, le coinfezioni sono schizzate di nuovo, raggiungendo livelli anche superiori al periodo pre-pandemico (14,3% nel post-pandemia contro l’11,5% pre-pandemia).
Con il COVID-19, la storia è un po’ diversa. La correlazione generale tra attività COVID e ricoveri per pneumococco è risultata più debole rispetto a quella con l’influenza. Tuttavia, durante i picchi delle ondate Omicron (febbraio-aprile 2022 e ottobre 2022-febbraio 2023), le coinfezioni pneumococco-COVID hanno raggiunto percentuali altissime (fino al 71%!). E anche dopo la fase acuta della pandemia, da marzo 2023 in poi, la coinfezione con il COVID-19 è rimasta una presenza costante, con una media mensile del 12,4%.
Chi ha pagato il prezzo più alto? Gli esiti clinici
E veniamo alla parte più critica: cosa succede a chi si ammala? Lo studio ha analizzato diversi esiti: mortalità durante il ricovero, necessità di terapia intensiva (ICU) e ventilazione meccanica invasiva (IMV).
I risultati sono preoccupanti. Durante il periodo pandemico (2020-2022), la mortalità per i pazienti ricoverati con pneumococco è stata significativamente più alta rispetto al periodo pre-pandemia (30,2% contro 18,1%). Fortunatamente, nel periodo post-pandemico, la mortalità è tornata ai livelli baseline (18,8%).
L’analisi multivariata, che cerca di isolare i fattori di rischio indipendenti, ha confermato alcuni sospetti e rivelato dettagli importanti:
- Età avanzata (sopra i 70 anni): associata a un rischio maggiore di morte.
- Comorbidità elevate (punteggio Charlson Comorbidity Index ≥ 4): anch’esse legate a una maggiore mortalità.
- Sesso maschile: associato a un rischio maggiore di finire in terapia intensiva.
- Forma invasiva della malattia (IPP e IPDWP – malattia invasiva senza polmonite): aumentano il rischio sia di morte che di ricovero in ICU.
- Coinfezione con Influenza: aumenta significativamente il rischio di ricovero in ICU.
- Coinfezione con COVID-19: aumenta il rischio sia di morte che di ricovero in ICU.
- Ricovero durante il periodo pandemico: associato a un rischio maggiore di morte, indipendentemente dagli altri fattori.
Questi dati sottolineano quanto sia pericolosa la combinazione di pneumococco con altri virus respiratori, specialmente in persone già fragili.

Identikit del nemico: i sierotipi dello pneumococco
Un’ultima nota sui “tipi” di pneumococco, i cosiddetti sierotipi. Ce ne sono oltre 100! Lo studio ha analizzato i sierotipi isolati in un sottogruppo di pazienti e ha scoperto che la loro distribuzione non è cambiata significativamente tra i tre periodi (pre, durante e post-pandemia). Il sierotipo 3 è rimasto il più diffuso (circa il 35-41% dei casi), seguito da altri come il 14, 19A, 19F, ecc. Questo è preoccupante perché il sierotipo 3 è noto per essere meno coperto dai vaccini coniugati attuali (come il PCV13) e associato a forme più severe (in questo studio, era legato a un maggior rischio di ricovero in ICU). Anche i nuovi vaccini (PCV15, PCV20) coprono alcuni sierotipi aggiuntivi, ma la sfida del sierotipo 3 rimane aperta.
Cosa ci portiamo a casa? Lezioni e l’importanza dei vaccini
Questo studio ci lascia alcuni messaggi chiave. Primo: le misure di sanità pubblica funzionano, ma quando si allentano, i vecchi nemici tornano. Secondo: la polmonite da pneumococco è ancora un problema serio, forse anche più diffuso di quanto pensiamo. Terzo, e fondamentale: le coinfezioni con virus come l’influenza e il COVID-19 peggiorano drasticamente gli esiti.
La morale della favola? Non possiamo abbassare la guardia. Diventa ancora più cruciale proteggere le popolazioni vulnerabili (anziani, persone con malattie croniche) con tutti gli strumenti a nostra disposizione. E quali sono questi strumenti? I vaccini! La vaccinazione contro lo pneumococco, l’influenza e il COVID-19 è la nostra arma migliore per ridurre il rischio di malattia grave e di queste pericolose coinfezioni. Lo studio lo ribadisce con forza: vaccinare, vaccinare, vaccinare! È un messaggio che non mi stancherò mai di ripetere.
Fonte: Springer
