Un cervello stilizzato con connessioni luminose che si diramano verso icone rappresentanti diverse lingue e coppie volto-nome, simboleggiando la memoria associativa potenziata dal plurilinguismo. Lente prime 24mm, duotone blu e argento, profondità di campo.

Ti ricordi il mio nome? Il plurilinguismo è la chiave per collegare memoria associativa e apprendimento

Vi è mai capitato di conoscere qualcuno a una festa, scambiare due chiacchiere e, un attimo dopo, il suo nome è già svanito nel nulla? O magari di faticare a memorizzare nuove parole in una lingua straniera, nonostante l’impegno? Tranquilli, non siete soli! Questi piccoli “tradimenti” della memoria sono all’ordine del giorno. Ma se vi dicessi che parlare più lingue potrebbe dare una marcia in più proprio a queste capacità? Sembra quasi fantascienza, eppure uno studio recente, intitolato “Remember my name? Plurilingualism is key in relating associative memory subtypes: vocabulary learning and face-name association memory”, ha gettato una luce affascinante su questo legame.

Da un po’ di tempo, noi ricercatori ci interroghiamo sulla natura dell’attitudine linguistica. È un talento innato, una specie di superpotere con cui si nasce, o qualcosa che si può coltivare e migliorare con l’esperienza? Beh, la visione sta cambiando. Se prima si pensava fosse una dote quasi esclusivamente specifica per le lingue, oggi la consideriamo sempre più un insieme flessibile di abilità cognitive più generali. E tra queste, la memoria gioca un ruolo da protagonista, soprattutto quella che chiamiamo memoria associativa.

Ma cos’è questa “attitudine linguistica”? Un dono o si impara?

All’inizio, la ricerca sull’attitudine linguistica la vedeva come una capacità quasi “innata” di imparare nuove lingue velocemente e senza troppa fatica. Alcuni studi sembravano confermarlo, mostrando correlazioni tra lo sviluppo precoce della lingua madre e le successive capacità di apprendimento di una seconda lingua. Pensate, persino l’abilità di decodificare le parole nella propria lingua madre da ragazzi sembrava predire quanto si sarebbe stati bravi con le lingue straniere al liceo!

Però, piano piano, il concetto ha iniziato a evolversi. Oggi si tende a vedere l’attitudine linguistica come un cocktail di abilità cognitive molto più ampio, che non riguarda solo le lingue ma è più “generale” e flessibile. Si è iniziato a guardare all’impatto di fattori come la motivazione, l’ansia, la musicalità, l’intelligenza generale e, appunto, la memoria di lavoro. Addirittura, anche chi sosteneva la visione più tradizionale ha ammesso che abilità specifiche per il linguaggio e abilità cognitive generali probabilmente coesistono e interagiscono. Un bel rompicapo, vero? Ma è proprio per questo che esplorare la relazione tra attitudine linguistica e capacità cognitive è così stimolante!

Entra in gioco la memoria associativa: il collante del nostro cervello

Quando parliamo di memoria, spesso pensiamo alla memoria di lavoro, quella che ci permette di tenere a mente e manipolare informazioni per brevi periodi, tipo risolvere un problema o prendere una decisione. Ha anche delle “sotto-componenti”, come il loop fonologico per le informazioni verbali e uditive. Molti studi hanno sottolineato la sua importanza nell’apprendimento delle lingue.

Tuttavia, c’è un altro tipo di memoria, la memoria dichiarativa (quella a lungo termine per fatti ed esperienze), che sembra essere cruciale, specialmente una sua componente: la memoria associativa. Questa è la nostra abilità di collegare due informazioni inizialmente slegate, creando un’associazione tra loro. Pensateci: imparare una nuova parola significa associare un suono (la forma fonologica) a un significato. E ricordare il nome di una persona? Significa associare un volto a un nome. Compiti che, a ben vedere, hanno molto in comune!

La memoria associativa è fondamentale in tantissime situazioni. Vi è mai capitato di riconoscere un volto ma di non riuscire assolutamente a ricordare il nome? Succede perché i nomi, spesso, non hanno un legame semantico diretto con i volti; sono associazioni arbitrarie che il nostro cervello deve creare e recuperare. Proprio come quando impariamo che “gatto” si dice “cat” in inglese: all’inizio, sono solo due suoni senza un legame ovvio.

Un gruppo eterogeneo di persone che interagiscono durante un evento sociale. Alcune sembrano concentrate, cercando di ricordare nomi, mentre altre chiacchierano fluentemente. L'immagine dovrebbe avere una profondità di campo ridotta per mettere a fuoco i volti in primo piano, con uno sfondo leggermente sfocato. Lente prime 35mm, illuminazione da studio con toni caldi per un'atmosfera accogliente.

Lo studio: monolingui vs. plurilingui alla prova della memoria

Ed eccoci al cuore della ricerca che mi ha tanto incuriosito. Gli scienziati hanno voluto vedere se la capacità di associare volti a nomi potesse predire l’abilità nell’imparare nuovi vocaboli. Hanno coinvolto 65 madrelingua inglesi, alcuni monolingui e altri plurilingui (cioè, persone che parlano più di una lingua, indipendentemente da come o quando le abbiano imparate).

Ai partecipanti è stato chiesto di fare due test principali:

  • Un test di associazione volto-nome: dovevano memorizzare una serie di volti abbinati a nomi e poi riconoscerli.
  • Un test di apprendimento di vocaboli (una parte del famoso MLAT, il Modern Language Aptitude Test): dovevano imparare parole inventate (pseudo-curde) e i loro equivalenti in inglese.

L’idea era di misurare la loro capacità di memoria associativa in due contesti diversi: uno più visuo-verbale (volti e nomi) e uno prettamente verbale (nuove parole). E poi, ovviamente, confrontare le performance dei monolingui con quelle dei plurilingui.

I risultati che ci fanno dire “Wow!”: cosa hanno scoperto?

E qui arriva il bello! I risultati sono stati davvero illuminanti. Prima di tutto, si è visto che, in generale per tutti i partecipanti, i punteggi nel test di associazione volto-nome erano in grado di predire significativamente i punteggi nel test di apprendimento dei vocaboli. Questo già ci dice che la memoria associativa è un pezzo importante del puzzle dell’apprendimento lessicale.

Ma la vera sorpresa è arrivata analizzando i dati più a fondo:

  • L’effetto era trainato dai plurilingui: la correlazione forte tra ricordare nomi e imparare parole era evidente soprattutto in chi parlava più lingue. Nei monolingui, questa correlazione era molto più debole, quasi inesistente.
  • I plurilingui erano più bravi a imparare i vocaboli: nel test MLAT-V, i partecipanti plurilingui hanno ottenuto risultati significativamente migliori dei monolingui.
  • Curiosamente, però, non c’era una differenza significativa tra i due gruppi nel test di associazione volto-nome. Entrambi i gruppi se la cavavano più o meno allo stesso modo nel ricordare le coppie faccia-nome.

Inoltre, un altro fattore predittivo per l’apprendimento dei vocaboli era il “livello di competenza cumulativo”, cioè una misura che teneva conto di quante lingue una persona parlava e quanto bene le parlava. Più lingue e maggiore padronanza significavano migliori risultati nel test dei vocaboli.

Perché i plurilingui sembrano avere una marcia in più?

Questi risultati suggeriscono qualcosa di molto affascinante: i partecipanti plurilingui potrebbero avere dei sottotipi di memoria associativa più “integrati”, forse grazie alla loro più ricca conoscenza linguistica. In pratica, la loro esperienza nel navigare costantemente tra più sistemi linguistici potrebbe aver affinato la loro abilità cognitiva generale di creare collegamenti associativi tra diversi tipi di informazioni.

Pensiamoci: chi parla più lingue è costantemente allenato a gestire, selezionare e passare da un codice linguistico all’altro. Questo “allenamento” potrebbe rendere il loro cervello più efficiente nel creare associazioni arbitrarie, non solo tra parole e significati, ma forse anche in altri domini. Anche se, in questo studio, l’effetto “boost” del plurilinguismo è emerso prepotentemente nell’apprendimento dei vocaboli (un compito verbale per eccellenza) e meno nel ricordo dei volti-nomi (un compito più visuo-verbale).

Questo potrebbe indicare una certa specificità: l’esperienza plurilingue sembra potenziare soprattutto la memoria associativa verbale, quella che si basa sul loop fonologico e sull’elaborazione linguistica, aree in cui i plurilingui sono, per definizione, più esperti. Il compito volto-nome, d’altro canto, si appoggia di più sulla memoria visiva/episodica, che sembra essere meno influenzata dal plurilinguismo in sé.

Visualizzazione astratta di un cervello umano con reti neurali interconnesse e luminose. Alcune connessioni sono più spesse o brillanti, a simboleggiare associazioni più forti. Intorno al cervello, icone stilizzate di volti, nomi e parole in diverse lingue. Macro lens, 60mm, high detail, illuminazione controllata per enfatizzare le connessioni e la complessità.

Certo, c’è sempre la domanda dell’uovo e della gallina: i plurilingui sono diventati tali perché avevano già un’attitudine linguistica e una memoria associativa più spiccate, che li ha motivati a imparare più lingue? Oppure è l’esperienza stessa dell’apprendimento di più lingue che ha potenziato queste abilità? Lo studio non può dare una risposta definitiva a questa domanda causale, ma i dati mostrano chiaramente una forte connessione tra il background linguistico e i punteggi nel test di apprendimento dei vocaboli. Potrebbero essere vere entrambe le strade: una “via dell’esperienza attraverso l’allenamento” e una “via dell’esperienza attraverso l’attitudine”.

Non è tutto oro quel che luccica: i limiti e le strade future

Come ogni studio scientifico, anche questo ha i suoi limiti. Il campione di partecipanti non era enorme, e c’era una certa variabilità nell’età e nel background educativo che potrebbe aver influito, anche se i ricercatori hanno cercato di tenerne conto. Inoltre, la valutazione della competenza linguistica si basava sull’autovalutazione dei partecipanti, che, sebbene utile, potrebbe non essere sempre precisissima.

Nonostante ciò, i risultati aprono scenari davvero interessanti. Ci dicono che la memoria associativa è un ingrediente cruciale per l’attitudine all’apprendimento dei vocaboli. E soprattutto, ci mostrano come l’esperienza plurilingue possa modulare queste capacità, forse rendendo i meccanismi di associazione più efficienti e flessibili, specialmente nel dominio verbale.

C’è ancora tanto da scoprire su come la memoria e l’attitudine linguistica interagiscano, specialmente considerando le differenze individuali. Capire meglio come ognuno di noi impara e memorizza i vocaboli potrebbe aiutarci a sviluppare strategie pedagogiche più personalizzate ed efficaci. E chissà, magari la prossima volta che dimenticherete un nome, penserete che forse è ora di rispolverare quel corso di spagnolo!

In conclusione, questo studio ci ricorda che il cervello è una macchina meravigliosamente complessa e interconnessa. Imparare una lingua non è solo accumulare parole e regole grammaticali, ma è un vero e proprio allenamento per le nostre capacità cognitive, con benefici che potrebbero estendersi ben oltre la semplice comunicazione. E questo, per me, è un motivo in più per essere affascinati dal mondo delle lingue e della mente umana.

Fonte: Springer

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