Fratture del Bacino in Pazienti Obesi: Meglio una Placca Sinfisaria o Due? La Scienza Dice la Sua!
Amici appassionati di scienza e medicina, oggi vi porto nel cuore pulsante della traumatologia ortopedica, un campo dove ogni decisione può fare la differenza tra una lunga degenza e un rapido ritorno alla vita di tutti i giorni. Parliamo di un osso fondamentale, il bacino, e di quelle brutte fratture che possono metterlo KO, specialmente quando ci sono di mezzo traumi ad alta energia. Immaginatevi un incidente stradale o una caduta da un’altezza importante: ecco, il bacino può risentirne parecchio, con fratture che i medici classificano con sigle un po’ astruse come “Tile C1-2” e “Tile C1-3”. Si tratta di lesioni instabili verticalmente, roba seria insomma.
Ora, la sfida si complica ulteriormente quando il paziente è obeso (parliamo di obesità di classe I, con un Indice di Massa Corporea – BMI – tra 30 e 35). Perché? Beh, un maggior peso corporeo può mettere a dura prova gli impianti chirurgici usati per stabilizzare la frattura. E qui sorge il dilemma che ha tenuto banco tra noi chirurghi per un po’: per la sinfisi pubica (la parte anteriore del bacino che si apre in queste fratture, creando quella che chiamiamo diastasi), è meglio usare una singola placca metallica, posizionata superiormente, o raddoppiare con una seconda placca anteriore per dare più “forza” all’impianto?
Il Dilemma: Una o Due Placche per la Sinfisi?
Vedete, la placca singola superiore è considerata un po’ il gold standard, il metodo più efficace. Però, soprattutto nei pazienti con qualche chilo in più, si sono visti tassi di fallimento dell’impianto che ci hanno fatto storcere il naso. Da qui l’idea: e se aggiungessimo una seconda placca, anteriormente, sempre sulla sinfisi? Potrebbe ridurre questi fallimenti? Questa è la domanda che ci siamo posti in uno studio recente, un trial clinico randomizzato e controllato, condotto con tutti i crismi in un centro traumatologico di primo livello.
Abbiamo arruolato 36 pazienti con queste specifiche fratture pelviche (Tile C1-2 e C1-3) e obesità di classe I, tra febbraio 2022 e maggio 2023. Li abbiamo divisi in due gruppi, come si fa in questi casi per avere un confronto serio:
- Gruppo A (18 pazienti): trattati con una singola placca sinfisaria superiore.
- Gruppo B (18 pazienti): trattati con la placca superiore PIÙ una placca anteriore aggiuntiva.
Tutti i pazienti, ovviamente, hanno ricevuto anche la fissazione posteriore dell’anello pelvico, perché queste fratture coinvolgono sia la parte anteriore che quella posteriore del bacino.
Cosa volevamo scoprire? Principalmente tre cose: i risultati radiologici (cioè come appariva la frattura guarita nelle lastre), i risultati funzionali (come stavano i pazienti, se avevano dolore, se riuscivano a muoversi bene) e, ovviamente, il tasso di fallimento degli impianti.
I Risultati: Sorprese e Conferme
Dopo un follow-up medio di circa 13 mesi e mezzo per entrambi i gruppi, ecco cosa abbiamo tirato fuori. E tenetevi forte, perché i risultati sono interessanti!
Partiamo dal tempo in sala operatoria. Il Gruppo A (placca singola) ha avuto un tempo chirurgico significativamente più breve, con una differenza media di ben 30 minuti rispetto al Gruppo B (p<0.001). E non è poco, perché meno tempo sotto i ferri significa meno rischi anestesiologici e meno stress per il paziente.
Ma la vera sorpresa, o forse la conferma che cercavamo, riguarda i tassi di reintervento. Il Gruppo A ha avuto bisogno di meno nuove operazioni (p=0.03). Questo è un dato importantissimo, perché ogni reintervento è un ulteriore disagio per il paziente e un costo per il sistema sanitario.
E i risultati clinici e radiologici finali? Qui la cosa si fa ancora più intrigante: entrambi i gruppi hanno mostrato risultati finali simili (p=0.44 per i clinici e p=0.78 per i radiologici). Anche i tassi di fallimento dell’impianto, alla fine dei conti, non erano statisticamente differenti tra i due gruppi (p=0.18), sebbene nel gruppo B (doppia placca) si sia osservato un numero maggiore di fallimenti della placca anteriore (5 casi, 27.8%) rispetto al fallimento della placca superiore nel gruppo A (1 caso, 5.6%).

Quindi, cosa ci dice tutto questo? Che usare una singola placca sinfisaria di alta qualità è un metodo efficace per trattare la diastasi sinfisaria in queste brutte fratture pelviche instabili verticalmente, anche nei pazienti con obesità di classe I. E non solo è efficace, ma riduce anche la morbilità, grazie a tempi operatori più brevi e a minori tassi di reintervento. L’aggiunta di una seconda placca anteriore, almeno nel nostro studio, non ha portato a un miglioramento dei risultati radiologici e clinici finali.
Dentro lo Studio: Metodologia e Dettagli
So cosa state pensando: “Interessante, ma come avete fatto a essere sicuri?”. Beh, la gestione di queste lesioni da “vertical shear” (taglio verticale) ad alta energia è una bella gatta da pelare anche per i chirurghi più esperti. Il trattamento iniziale è complesso e dipende da tanti fattori: lo stato fisiologico del paziente, il BMI, eventuali lesioni associate a organi interni, e ovviamente il tipo di frattura.
Prima di tutto, questi pazienti necessitano di manovre d’urgenza: un bendaggio pelvico, rianimazione, e spesso una trazione scheletrica per ripristinare il più possibile la stabilità verticale. Poi, una volta stabilizzati, si pianifica l’intervento definitivo. Per questo, sono fondamentali le immagini diagnostiche, come radiografie e TAC multistrato, per capire bene dove e come intervenire.
Esistono vari metodi di fissazione per la parte anteriore del bacino: placche sinfisarie, fissatori esterni, fissazione percutanea e, più di recente, il fissatore interno sottocutaneo anteriore (INFIX). Non c’è un consenso unanime su quale sia il migliore in assoluto, ma molti studi biomeccanici supportano l’uso delle placche sinfisarie per un adeguato ripristino della stabilità, specialmente in pazienti con BMI elevato.
Il nostro studio è stato il primo a valutare prospetticamente questi risultati in pazienti obesi con questo tipo specifico di frattura. L’ipotesi di partenza era che l’aggiunta di una placca anteriore avrebbe garantito una fissazione più rigida e meno complicazioni, il tutto senza aumentare la morbilità per il paziente, visto che si usa la stessa incisione chirurgica (la cosiddetta incisione di Pfannenstiel, un taglio orizzontale basso, simile a quello del cesareo).
Abbiamo seguito un protocollo rigoroso: tutti i pazienti hanno dato il consenso informato, sono stati sottoposti a screening clinico e radiologico completo. Il BMI è stato calcolato con precisione. Abbiamo escluso pazienti con altre lesioni viscerali o urogenitali, precedenti operazioni addominali, gravi comorbidità mediche non controllate, fratture dei rami pubici, fratture esposte o fratture “vecchie” di più di due settimane. La randomizzazione è stata fatta al computer, e sia i partecipanti che i valutatori dei risultati erano “ciechi” rispetto al tipo di trattamento assegnato (metodologia single-blind per i valutatori, anche se il testo originale dice “double-blinded” per partecipanti e outcome assessors, il che è più corretto per un RCT di questo tipo).
Dopo l’intervento, il protocollo riabilitativo prevedeva un carico parziale per sei settimane (50% del peso corporeo con le stampelle), seguito da esercizi di mobilizzazione passiva e attiva assistita dell’anca già dalla seconda settimana. Dalla sesta settimana, via al carico completo assistito e esercizi di rinforzo muscolare, con l’obiettivo di tornare al pieno carico e alla completa articolarità, e magari al lavoro, entro la fine del terzo mese. Valutazioni radiologiche e cliniche sono state fatte a 6 mesi e a 1 anno.

Analisi dei Dati: Numeri che Parlano
Abbiamo analizzato i dati con software statistici (SPSS versione 20.0), considerando statisticamente significativi valori di p inferiori o uguali a 0.05. L’età media dei pazienti era di circa 25.6 anni nel gruppo A e 33 anni nel gruppo B. La distribuzione dei tipi di frattura (C1-2 vs C1-3) era simile nei due gruppi.
Come dicevo, i risultati radiologici (valutati con i criteri di Matta e Tornetta) non hanno mostrato differenze significative: nel Gruppo A, il 66.7% dei casi è stato giudicato eccellente, il 22.2% buono e l’11.1% discreto. Nel Gruppo B, il 66.7% eccellente e il 33.3% buono. Anche la valutazione funzionale (con il Majeed pelvic score) è risultata comparabile, con un punteggio medio di 76.4 nel gruppo A e 73.8 nel gruppo B.
Per quanto riguarda le infezioni della ferita, si sono verificate in un caso nel gruppo A (5.6%) e in cinque casi nel gruppo B (27.8%). Sebbene la differenza non fosse statisticamente significativa (p=0.18), questa tendenza, insieme al maggior numero di fallimenti della placca anteriore nel gruppo B, ha contribuito al tasso di reintervento significativamente più alto nel gruppo B (44.4% contro l’11.1% del gruppo A).
La perdita di sangue media intraoperatoria è stata simile nei due gruppi, leggermente maggiore nel gruppo B (422.2 ml vs 416.7 ml nel gruppo A), senza significatività statistica. La qualità della riduzione ottenuta in sala operatoria (valutata sempre con i criteri di Matta) è stata anch’essa comparabile, con risultati anatomici o accettabili nella stragrande maggioranza dei casi in entrambi i gruppi.
Considerazioni Finali e Prospettive Future
Certo, il nostro studio ha delle limitazioni: il campione non era enorme, il che potrebbe aver influito sulla potenza statistica per alcune analisi, e il follow-up non è stato a lunghissimo termine. Inoltre, abbiamo usato una singola vite sacroiliaca per la fissazione posteriore, sebbene sia una tecnica valida; forse due viti avrebbero permesso una mobilizzazione ancora più precoce. C’era anche il potenziale per un “performance bias”, dato che un singolo team ha eseguito tutte le operazioni, e magari le ultime sono andate meglio delle prime per via dell’esperienza accumulata. Infine, non abbiamo quantificato l’entità dello spostamento verticale della frattura, il che potrebbe limitare un po’ il contesto clinico.
Nonostante ciò, questo è stato il primo studio a confrontare queste due strategie in modo prospettico e randomizzato per questo specifico tipo di lesioni in pazienti obesi. E i risultati, a mio avviso, parlano chiaro: una singola placca sinfisaria di buona qualità fa il suo lavoro egregiamente nelle fratture pelviche instabili verticalmente (Tile C1-2 e C1-3) in pazienti con obesità di classe I. Questo approccio riduce la morbilità abbassando i tempi operatori e minimizzando i tassi di reintervento. L’aggiunta di una seconda placca anteriore non solo non ha migliorato i risultati finali, ma è stata associata a tassi più alti (seppur non statisticamente significativi) di fallimento dell’impianto e infezione della ferita, che si sono tradotti in più reinterventi.
Cosa ci portiamo a casa? Che in chirurgia, a volte, “di più” non significa necessariamente “meglio”. La nostra intenzione è ora quella di affinare ulteriormente i protocolli di trattamento per queste lesioni complesse, magari con studi futuri su campioni più ampi e con periodi di follow-up più lunghi. La ricerca non si ferma mai, e l’obiettivo è sempre quello di offrire ai nostri pazienti le cure migliori e meno invasive possibili!
Fonte: Springer
