Immagine fotorealistica di un gatto che riceve cure veterinarie, con un focus sui test diagnostici come prelievi di sangue, obiettivo da 35mm, stile documentaristico, illuminazione da clinica, per evidenziare la speranza nella ricerca sulla PIF.

PIF Felina: Nuovi Orizzonti Terapeutici e Marcatori Infiammatori Sotto la Lente!

Amici gattofili e colleghi veterinari (o aspiranti tali!), oggi voglio parlarvi di una malattia che per anni ha rappresentato un vero incubo per noi amanti dei felini e per la professione veterinaria: la Peritonite Infettiva Felina, o più comunemente conosciuta come PIF. Una diagnosi di PIF, fino a poco tempo fa, suonava quasi come una condanna a morte, con tassi di mortalità che sfioravano il 100%. Ma, come spesso accade nella scienza e nella medicina, la ricerca non si ferma mai, e negli ultimi anni si è aperto uno spiraglio di luce, anzi, un vero e proprio portone di speranza!

Cos’è la PIF, in parole povere?

Prima di addentrarci nelle novità, rinfreschiamoci un attimo la memoria. La PIF è una malattia infettiva subdola, causata da una mutazione del Feline Coronavirus (FCoV). Attenzione, non tutti i gatti che contraggono il FCoV sviluppano la PIF! La maggior parte supera l’infezione senza sintomi o con lievi disturbi gastrointestinali o respiratori. Solo in una piccola percentuale di casi (fino al 10%), il virus “impazzisce”, muta e cambia il suo bersaglio preferito: da cellule intestinali (enterociti) passa ad attaccare i monociti/macrofagi, cellule chiave del sistema immunitario. Questo scatena una reazione infiammatoria sistemica devastante (vasculite) che può colpire molteplici organi.
Esistono due forme cliniche principali: la forma umida o effusiva, caratterizzata da versamenti addominali (ascite), toracici o pericardici, e la forma secca o non effusiva, più difficile da diagnosticare, con lesioni piogranulomatose sparse in vari organi. I sintomi iniziali sono spesso vaghi: letargia, anoressia, febbre che non risponde agli antibiotici, perdita di peso. Possono esserci anche sintomi neurologici o oculari.

La svolta: GS-441524, una speranza concreta

Fino al 2019, le opzioni terapeutiche erano praticamente nulle. Poi, la svolta: ricercatori della UC Davis pubblicarono uno studio rivoluzionario su un farmaco antivirale sperimentale, il GS-441524, un analogo nucleosidico. I risultati furono sbalorditivi: un tasso di efficacia dell’80% su 31 gatti infetti naturalmente! Immaginate l’entusiasmo!
Il problema? Il farmaco non era (e in molti paesi non è ancora) registrato per uso veterinario. Questo ha portato a un fenomeno unico, il cosiddetto “crowd-sourced antiviral GS-441524-like therapy”, ovvero terapie basate su formulazioni “simili” al GS-441524, spesso reperite tramite canali non ufficiali. Nonostante la produzione non controllata, diversi studi recenti hanno confermato l’efficacia di questi trattamenti, con tassi di remissione che arrivano fino al 94%. Una vera rivoluzione!

L’obiettivo dello studio: capire meglio per curare meglio

Con una terapia finalmente efficace a disposizione, è diventato cruciale identificare dei parametri affidabili per predire il successo del trattamento e monitorarne l’andamento. Ed è qui che entra in gioco lo studio che voglio commentare oggi, pubblicato su BMC Veterinary Research, dal titolo “Evaluation of selected inflammatory markers in cats with feline infectious peritonitis before and after therapy”. L’obiettivo dei ricercatori era proprio quello di valutare alcuni parametri clinico-patologici, con un focus sui marcatori infiammatori, prima e dopo la terapia a base di GS-441524.
Pensateci: la PIF e il COVID-19, entrambe causate da coronavirus, condividono alcune similitudini. In entrambe, l’infezione può portare a forme lievi o a malattie sistemiche fatali. Per il COVID-19, conosciamo diversi fattori predittivi per le forme gravi, come il rapporto neutrofili/linfociti (NLR), il rapporto linfociti/monociti (LMR), il rapporto piastrine/linfociti (PLR), l’indice infiammatorio sistemico (SII), l’attività dell’enzima lattato deidrogenasi (LDH), e le concentrazioni di citochine e proteine di fase acuta. Poteva essere lo stesso per la PIF?

Fotografia ritratto di un veterinario attento che esamina un gatto soriano su un tavolo da visita in acciaio inossidabile, in una clinica veterinaria ben illuminata. Il veterinario indossa un camice blu e guanti. Sullo sfondo, attrezzature mediche. Obiettivo da 35mm, profondità di campo per mettere a fuoco il gatto e il veterinario, luce soffusa ma chiara.

Cosa hanno misurato i ricercatori?

Lo studio ha coinvolto 35 gatti con diagnosi confermata di PIF, di cui 32 sono stati trattati con GS-441524. I ricercatori hanno raccolto campioni di sangue prima dell’inizio della terapia e a 4, 8 e 12 settimane dall’inizio del trattamento. Hanno analizzato:

  • Parametri ematologici: emocromo completo con conta differenziale dei globuli bianchi. Da questi dati, hanno calcolato i famosi marcatori infiammatori derivati dall’emocromo: NLR, LMR, PLR e SII.
  • Parametri biochimici: un pannello completo che includeva proteine totali, albumina, globuline, bilirubina, urea, creatinina, ALT, ecc. In alcuni casi, è stata eseguita anche l’elettroforesi delle proteine sieriche.
  • Lattato deidrogenasi (LDH): misurata retrospettivamente su campioni di siero congelati.
  • Proteine di fase acuta (APP) e citochine pro-infiammatorie: su un sottogruppo di campioni conservati, hanno misurato con test ELISA le concentrazioni di aptoglobina, ferritina, interleuchina-6 (IL-6), fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e interleuchina-1β (IL-1β).

Per avere un termine di paragone, hanno incluso anche un gruppo di controllo di 28 gatti sani.

I risultati chiave: un quadro che cambia con la terapia

E qui viene il bello! Lo studio ha dimostrato che il trattamento efficace della PIF porta a cambiamenti altamente significativi nella maggior parte dei parametri clinico-patologici.
Prima del trattamento, i gatti con PIF mostravano, come ci si aspetterebbe:

  • Alterazioni ematologiche: leucocitosi moderata (aumento dei globuli bianchi), neutrofilia (aumento dei neutrofili), linfopenia (diminuzione dei linfociti) e anemia.
  • Marcatori infiammatori derivati dall’emocromo: NLR, PLR e SII significativamente più alti rispetto ai gatti sani, mentre LMR era più basso.
  • Alterazioni biochimiche: iperproteinemia (aumento delle proteine totali), ipoalbuminemia (diminuzione dell’albumina), ipergammaglobulinemia (aumento delle gammaglobuline), e iperbilirubinemia (aumento della bilirubina).

Dopo il trattamento, la situazione si è ribaltata! La maggior parte di questi parametri si è normalizzata, tornando a valori comparabili a quelli dei gatti sani. L’anemia è migliorata notevolmente, i neutrofili sono diminuiti e i linfociti sono aumentati significativamente. Anche i marcatori infiammatori derivati dall’emocromo (NLR, PLR, SII) sono rientrati nella norma, con la sola eccezione del LMR che è rimasto più alto rispetto ai controlli sani (probabilmente a causa del significativo aumento dei linfociti).
Un altro dato importante: i gatti trattati hanno mostrato un significativo aumento di peso, indipendentemente dall’età, e questo non era dovuto ad accumulo di liquidi, dato che l’ascite si risolveva rapidamente con la terapia. Un semplice parametro come il peso può quindi essere un utile strumento di monitoraggio!

Marcatori ematologici derivati: un’alternativa smart?

Una delle scoperte più interessanti, secondo me, riguarda proprio i marcatori infiammatori derivati dall’emocromo (NLR, PLR, SII, LMR). Questi indici, facilmente calcolabili da un normale emocromo, si sono dimostrati significativamente alterati nei gatti con PIF e si sono normalizzati con la terapia. Questo suggerisce che potrebbero rappresentare un’alternativa semplice, economica e prontamente disponibile alle proteine di fase acuta (come SAA o AGP), che sono più costose o meno accessibili per il monitoraggio della terapia della PIF.
Inoltre, lo studio ha rilevato che i gatti con la forma effusiva di PIF avevano valori pre-trattamento di NLR e SII significativamente più alti rispetto a quelli con forma non effusiva. Questo potrebbe riflettere la natura più acuta e la risposta infiammatoria sistemica più pronunciata tipica della forma umida.

Fotografia macro di provette di sangue con etichette, posizionate in un rack all'interno di un laboratorio di analisi cliniche. Illuminazione da laboratorio, precisa e controllata, obiettivo macro da 60mm per evidenziare i dettagli delle provette e del sangue. Sfondo sfocato con altre attrezzature da laboratorio.

Proteine di fase acuta e citochine: segnali contrastanti?

Passiamo ora alle proteine di fase acuta e alle citochine. Qui i campioni analizzati erano meno numerosi, quindi i risultati vanno presi con un po’ più di cautela, ma sono comunque stimolanti.

  • Aptoglobina: era significativamente più alta prima della terapia rispetto ai controlli sani e si è ridotta significativamente dopo il trattamento, avvicinandosi ai livelli dei gatti sani. Un’altra potenziale candidata per il monitoraggio!
  • Ferritina: non ha mostrato cambiamenti significativi.
  • TNF-α (Fattore di Necrosi Tumorale alfa): qui la sorpresa! La sua concentrazione è aumentata significativamente dopo la terapia. Il TNF-α è un potente mediatore dell’infiammazione e contribuisce alla patogenesi della PIF (causando, ad esempio, l’apoptosi dei linfociti). Ci si aspetterebbe una sua diminuzione con la guarigione. Tuttavia, un aumento simile è stato osservato anche in pazienti umani con COVID-19 grave trattati con antivirali. Gli autori ipotizzano che ciò potrebbe essere dovuto all’incapacità della terapia antivirale di sopprimere completamente la risposta infiammatoria sistemica, nonostante il miglioramento clinico. Chiaramente, serve più ricerca qui!
  • IL-1β e IL-6 (Interleuchina-1β e Interleuchina-6): le loro concentrazioni sono diminuite durante la terapia, ma il cambiamento non è stato statisticamente significativo, né differivano significativamente dai controlli.

LDH: un possibile campanello d’allarme?

Un altro parametro che ha attirato la mia attenzione è la Lattato Deidrogenasi (LDH). Nello studio, l’analisi statistica complessiva non ha rivelato cambiamenti significativi nei livelli di LDH prima e dopo la terapia. Tuttavia, andando a vedere i casi singoli, è emerso un dato interessante: i due pazienti che hanno avuto una ricaduta e l’unico gatto che purtroppo è deceduto pochi giorni dopo l’inizio della terapia avevano valori di LDH marcatamente elevati al momento della diagnosi. Questo suggerisce che l’LDH potrebbe essere un fattore prognostico promettente, come già osservato in pazienti umani con COVID-19 e in altre patologie feline. Un LDH molto alto potrebbe indicare un danno cellulare più esteso o una risposta infiammatoria particolarmente severa. Anche in questo caso, sono necessari studi più ampi per confermarlo.

Limiti dello studio e prospettive future

Come ogni studio scientifico, anche questo ha delle limitazioni, che gli stessi autori riconoscono onestamente. La principale è la natura del trattamento: il GS-441524 utilizzato era di produzione non autorizzata e non controllata, quindi non si può essere certi dell’esatta quantità di principio attivo ricevuta dai gatti. Inoltre, non tutti i parametri sono stati disponibili per tutti i gatti in tutti i momenti, data la natura retrospettiva dello studio, e il numero di campioni per l’analisi di citochine e APP era limitato.
Nonostante ciò, i risultati sono estremamente incoraggianti!

Fotografia di un gatto dall'aspetto sano e sereno, magari un Ragdoll o un Maine Coon (razze menzionate nello studio), che riposa comodamente su una coperta morbida in un ambiente domestico accogliente. Luce naturale dalla finestra, teleobiettivo zoom 100mm per un ritratto delicato, espressione pacifica per simboleggiare la guarigione.

In conclusione: un passo avanti importante

Questo studio ci dice chiaramente che il trattamento efficace della PIF con terapie basate su GS-441524 porta a un notevole miglioramento della maggior parte dei parametri ematologici e biochimici. Per la prima volta, si dimostra che i marcatori infiammatori derivati dall’emocromo seguono un pattern simile e potrebbero diventare strumenti diagnostici e di monitoraggio preziosi, economici e accessibili. L’aptoglobina si normalizza con il trattamento, mentre l’aumento del TNF-α post-terapia merita ulteriori indagini. L’LDH si profila come un potenziale nuovo fattore prognostico.
Certo, la strada è ancora lunga, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità di farmaci autorizzati e la comprensione di alcuni meccanismi fini della risposta infiammatoria. Ma ogni studio come questo aggiunge un tassello fondamentale al puzzle, avvicinandoci sempre di più a trasformare la PIF da una malattia quasi sempre fatale a una condizione gestibile e, in molti casi, curabile. E questa, amici miei, è una notizia meravigliosa per i nostri amati compagni felini!

Fonte: Springer

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