Immagine fotorealistica che mostra tre volti parzialmente visibili di persone con diverse tonalità di pelle (chiara, media, scura) che si guardano reciprocamente con espressioni complesse e difficili da interpretare, luce soffusa, obiettivo 35mm, profondità di campo media, a simboleggiare la complessità della percezione interrazziale delle microaggressioni.

“È Perché Sono Nero?” Ecco Come la Razza di Chi Parla Cambia Tutto nelle Microaggressioni

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa di sottile, quasi invisibile a volte, ma che lascia un segno profondo: le microaggressioni razziali. Sapete, quelle frasi, quei comportamenti, quelle piccole “punture” quotidiane che, magari senza un’intenzione apertamente ostile, comunicano comunque un pregiudizio, un messaggio negativo legato all’appartenenza a un gruppo minoritario.

Mi sono imbattuto in uno studio affascinante che si pone una domanda cruciale: la nostra percezione di una microaggressione cambia a seconda della razza di chi la commette? In altre parole, una frase detta da una persona bianca ha lo stesso peso di quella detta da una persona ispanica o da un’altra persona afroamericana, per chi la riceve (in questo caso, persone afroamericane)? Lo studio si intitola proprio così, in modo diretto: “Is It Because I’m Black?”: A Study of the African American Perception of Microaggression Depending on Aggressor Race. E le risposte, beh, sono tutt’altro che scontate e ci aprono gli occhi sulla complessità del razzismo oggi.

Cosa sono esattamente le Microaggressioni?

Prima di tuffarci nello studio, capiamoci un attimo. Le microaggressioni non sono gli insulti razzisti sfacciati o la discriminazione palese. Sono più subdole. Pensate a commenti come “Parli molto bene l’italiano!” detto a una persona di seconda generazione, o a una donna a cui viene costantemente spiegato qualcosa che sa già fare (mansplaining, che spesso si intreccia con pregiudizi razziali o di genere). Come hanno teorizzato studiosi come Sue e colleghi, spesso queste azioni nascono da pregiudizi inconsci, non da una volontà deliberata di ferire. Ma attenzione: il fatto che non siano intenzionali non significa che non facciano male. Anzi, l’esposizione continua a queste “punture” è stata collegata a stress fisiologico, ansia e depressione. Mica poco, eh?

L’Esperimento: Chi Dice Cosa Fa la Differenza?

I ricercatori hanno fatto una cosa molto interessante. Hanno mostrato a partecipanti afroamericani dei video. In questi video, c’era una scena standard: un ricercatore (l’attore che commetteva la microaggressione) dava istruzioni a un partecipante allo studio (anch’esso un attore afroamericano). La microaggressione era sempre la stessa, una frase del tipo: “Sei sicuro di aver capito le istruzioni? Non preoccuparti se fai fatica, molti neri hanno difficoltà”. Abbastanza pesante, vero? La vera variabile era la razza dell’attore-ricercatore: in alcuni video era bianco, in altri ispanico, in altri ancora afroamericano come il partecipante.

Dopo aver visto il video, ai partecipanti reali veniva chiesto:

  • Ti sei sentito offeso/a da questo scambio?
  • Quanto ti è sembrato culturalmente prevenuto il ricercatore?
  • Quanto ti è sembrato simpatico/antipatico?
  • Come ti sei sentito/a emotivamente guardando il video (turbato, indifferente, felice)?

Fotografia ritratto di profilo di un uomo afroamericano che osserva attentamente uno schermo, luce laterale drammatica, obiettivo 50mm, bianco e nero stile film noir, che simboleggia la partecipazione allo studio e la valutazione soggettiva di un'interazione.

I Risultati: La Teoria dell’Identità Sociale Colpisce Ancora

E qui viene il bello. I risultati hanno confermato l’ipotesi dei ricercatori, basata sulla Teoria dell’Identità Sociale. Questa teoria, in parole povere, dice che tendiamo a definire parte di noi stessi attraverso i gruppi a cui apparteniamo (il nostro “in-group”) e tendiamo a favorire il nostro gruppo rispetto agli altri (“out-group”).

Cosa è emerso?

  • Meno Offesa dall’In-Group: I partecipanti afroamericani hanno giudicato l’interazione significativamente meno offensiva quando la microaggressione proveniva dall’attore afroamericano, rispetto a quando proveniva dall’attore bianco o ispanico. Tra l’attore bianco e quello ispanico, invece, non c’era grande differenza nella percezione dell’offesa.
  • Bias Culturale Percepito: Allo stesso modo, l’attore afroamericano è stato percepito come meno culturalmente prevenuto rispetto agli altri due.
  • Simpatia e Umore: L’attore afroamericano è risultato più simpatico (soprattutto rispetto a quello bianco) e guardare il video con lui come “aggressore” ha causato meno turbamento emotivo (meno “negative affect”) nei partecipanti. Il massimo turbamento si è registrato con l’attore bianco.

In pratica, sembra che ci sia una sorta di “tolleranza” maggiore verso i membri del proprio gruppo. È come se, inconsciamente, si tendesse a pensare “se lo dice uno di noi, forse non intendeva ferire” o, come suggerisce la teoria, si cercasse di proteggere l’immagine positiva del proprio gruppo, minimizzando i comportamenti negativi interni. Pensate all’uso controverso della “N-word”: considerata un insulto gravissimo se usata da persone bianche (out-group), ma a volte usata all’interno della comunità afroamericana (in-group) senza la stessa connotazione offensiva (anche se è un tema dibattuto anche lì).

E il Genere? La Faccenda si Complica

Ma non è tutto qui. Lo studio ha anche rilevato una differenza interessante legata al genere. Ricordate che tutti gli attori erano uomini? Bene, le donne afroamericane partecipanti allo studio hanno trovato l’interazione significativamente più offensiva rispetto agli uomini, specialmente quando l’aggressore era bianco o ispanico. Questo suggerisce che l’intersezione tra razza e genere gioca un ruolo fondamentale. Le donne afroamericane, come evidenziato anche da altre ricerche (tipo quella di Sullivan et al., 2021), spesso affrontano una doppia discriminazione (razzismo e sessismo) e potrebbero essere più propense a riconoscere e reagire negativamente a comportamenti percepiti come discriminatori, soprattutto se provenienti da uomini.

Immagine concettuale che mostra l'intersezione di simboli di genere e simboli etnici diversi, con colori contrastanti, obiettivo macro 60mm, alta definizione, luce controllata, per rappresentare l'intersezionalità tra razza e genere nella percezione delle microaggressioni.

Cosa Ci Portiamo a Casa da Questo Studio?

Questo studio è importante perché ci dice chiaramente che le microaggressioni non sono un blocco monolitico. La percezione è complessa e influenzata da chi siamo noi e da chi è la persona dall’altra parte.

Punti chiave:

  • La razza dell’aggressore conta: Una microaggressione da un membro del proprio gruppo etnico può essere percepita come meno dannosa o offensiva.
  • La Teoria dell’Identità Sociale aiuta a spiegare: Il favoritismo verso l’in-group e la tendenza a proteggerne l’immagine possono influenzare il giudizio.
  • Il genere interseca la razza: Le esperienze e le percezioni possono differire significativamente tra uomini e donne all’interno dello stesso gruppo etnico.
  • Implicazioni pratiche: Questi risultati sono fondamentali per chi lavora in contesti clinici e sociali. Capire queste dinamiche aiuta a sviluppare interventi più efficaci contro il bias razziale e a supportare meglio le persone che subiscono microaggressioni, tenendo conto della complessità delle loro identità e delle relazioni intergruppo.

Certo, lo studio ha i suoi limiti (solo attori maschi, non si è misurata l’identità etnica dei partecipanti, si è usato un solo tipo di microaggressione, ecc.), ma apre una strada fondamentale. Ci ricorda che per capire davvero il razzismo nelle sue forme moderne e sottili, dobbiamo guardare alle dinamiche relazionali, all’identità, al contesto. Non basta analizzare la frase in sé, bisogna capire chi la dice, a chi, e in quale tessuto sociale si inserisce quella comunicazione.

Insomma, la prossima volta che assistiamo o subiamo qualcosa che ci “puzza” di microaggressione, forse vale la pena chiedersi non solo “Cosa è stato detto?”, ma anche “Chi l’ha detto e perché mi fa sentire così?”. La risposta potrebbe essere più complessa di quanto pensiamo.

Fonte: Springer

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