Salute Mentale: Le Parole Giuste per Chiedere Aiuto (E Farsi Capire Davvero)
Parlare di salute mentale, ammettiamolo, non è mai una passeggiata. Quante volte ci siamo sentiti incompresi, o abbiamo faticato a trovare le parole giuste per descrivere quel groviglio che avevamo dentro? Ecco, non siamo soli. Recentemente mi sono imbattuto in uno studio qualitativo davvero illuminante che ha esplorato proprio come noi pazienti comunichiamo i nostri problemi di salute mentale e cosa, nel bene e nel male, influenza questa delicata conversazione, specialmente quando si tratta di passare dal medico di base agli specialisti.
Immaginate la scena: siete lì, davanti al vostro medico, e dovete spiegare perché sentite di aver bisogno di un aiuto più specifico per la vostra testa. Non è facile, vero? Lo studio, intitolato “Conveying the need for mental healthcare – a qualitative study of how patients communicate mental health challenges”, ha intervistato dieci adulti che avevano appena iniziato un percorso in strutture specializzate di salute mentale. L’obiettivo? Capire, dalla nostra viva voce, come ce la caviamo a esprimere questo bisogno.
Tre Modi di Chiedere Aiuto: Qual è il Tuo?
Dalle interviste sono emersi tre “stili” principali con cui noi pazienti ci approcciamo alla richiesta d’aiuto. È affascinante perché, pensandoci bene, potremmo riconoscerci in uno di questi, o magari in un mix.
- Mente Aperta e Passiva: In questo gruppo rientrano persone che descrivono i loro problemi senza troppi filtri, sono aperte ai suggerimenti dei medici su quale potrebbe essere il trattamento migliore, ma spesso hanno bisogno di una spinta, di un supporto esterno, per cercare attivamente aiuto. Magari sono altri che fanno notare loro che potrebbero beneficiare di un supporto, e c’è una certa incertezza sui propri bisogni, unita a un’accettazione delle cure proposte. Questo stile, però, può evolvere: magari, con il tempo e una maggiore consapevolezza, si diventa più attivi nel chiedere.
- Mente Aperta e Attiva: Qui troviamo chi prende un’iniziativa più decisa. Si parla apertamente dei problemi e si è ricettivi ai pareri degli esperti. Spesso queste persone hanno già discusso delle loro difficoltà con amici o familiari, affinando la comprensione dei propri bisogni. Come ha detto un partecipante, parlare tanto delle proprie sfide aiuta a “cogliere tutti i piccoli dettagli… vedere linee leggermente più chiare tra tutto, mettere più parole alle cose specifiche che possono essere un problema”. Attenzione però: una risposta negativa o sminuente da parte del medico può bloccare tutto, portando a chiudersi e a tentare di arrangiarsi da soli.
- Determinato e Attivo: Questo è lo stile di chi ha le idee molto chiare sul tipo di aiuto di cui necessita. Di conseguenza, le informazioni fornite al medico o allo specialista sono mirate, quasi “filtrate”, per ottenere esattamente quella cura o quel rinvio. C’è meno apertura alle opinioni alternative dei curanti. L’obiettivo è convincerli del proprio bisogno. “Fortunatamente, ho riconosciuto i segnali di pericolo, ho puntato i piedi e ho assolutamente urlato: ‘Devi indirizzarmi ora!'”, ha raccontato un partecipante, sottolineando come l’esperienza pregressa o la conoscenza delle proprie condizioni possa fare la differenza.
La cosa interessante è che questi approcci non sono scolpiti nella pietra. Cambiano, si evolvono in base alle nuove consapevolezze, al contesto, alle risposte che riceviamo dai professionisti. È un processo dinamico, e questo mi sembra fondamentale.
Cosa Rende Difficile (o Facile) Parlare? I Fattori in Gioco
Lo studio ha identificato sei temi principali che influenzano la nostra capacità di comunicare i bisogni di salute mentale. Eccoli, perché credo siano cruciali per capire meglio le dinamiche:
- Le caratteristiche dei servizi sanitari: Come percepiamo il “funzionamento” del sistema sanitario gioca un ruolo enorme. Il tempo limitato con il medico di base, ad esempio, ci costringe a prepararci, magari scrivendo appunti. Alcuni vedono il medico di base solo come un “trampolino di lancio” verso lo specialista, e questo può portarli ad adattare le informazioni fornite, a volte omettendo dettagli importanti perché “tanto non è lui che mi curerà”. Un partecipante ha ammesso: “Non volevo entrare nei dettagli con [il medico di base] su tutto”. Questo, a volte, può portare a informazioni “sbagliate” nella lettera di rinvio, come diagnosi non corrette messe lì solo per “aumentare le chance di entrare” nel servizio specialistico, come ha candidamente riportato un altro intervistato.
- Le risposte degli altri: Sentirsi presi sul serio è fondamentale. Un atteggiamento negativo da parte del medico, o la sensazione di non essere ascoltati, può farci chiudere a riccio, impedendoci di spiegare la situazione o addirittura di menzionare i problemi di salute mentale. Chi si sente sminuito, spesso non chiede più aiuto, prova a cavarsela da solo o cambia medico. Al contrario, un medico che ascolta attivamente, che fa domande pertinenti, che compie passi concreti (come prescrivere un esame del sangue contestualmente al rinvio), ci fa sentire capiti e facilita la comunicazione.
- Paura del rifiuto e dell’incomprensione: Il timore che il rinvio venga respinto o di essere dimessi troppo presto dallo specialista può bloccare la comunicazione o, al contrario, spingere a condividere di più. Chi è stato respinto in passato perché “sembrava stare troppo bene” fisicamente, può avere paura a riprovarci. Altri, informati della possibilità di un rifiuto, si sentono spronati a essere chiarissimi con lo specialista. L’uso di questionari di autovalutazione o interviste strutturate è visto da alcuni come utile per evitare fraintendimenti, mentre altri li rifiutano, temendo che le risposte possano portare a giudizi affrettati.
- Alfabetizzazione sanitaria ed esperienza con la salute mentale: Saperne di più sulla salute e sui servizi sanitari spesso porta a una comunicazione più aperta e disinvolta. Aver identificato il trattamento migliore o il centro più adatto, come raccontato da un partecipante, rende più facile chiedere aiuto in modo specifico. Esperienze passate con trattamenti inefficaci possono spingere a chiedere qualcosa di diverso dallo “standard raccomandato”.
- Assumersi la responsabilità del proprio trattamento: Questo può migliorare la chiarezza della comunicazione. Ad esempio, leggere la propria cartella clinica online per assicurarsi che le informazioni siano corrette e comprese, o chiedere modifiche se si ritiene ci siano errori. “La psicologa ha persino scritto nella cartella clinica un sacco di cose che non sono affatto giuste… e ho fatto reclamo”, ha detto un paziente.
- Il problema di salute mentale stesso: I sintomi possono influenzare direttamente il modo in cui comunichiamo. Essere in crisi o sentirsi nel caos può renderci più “infantili” nell’esprimerci, come ha confessato un partecipante: “Appena le emozioni prendono il sopravvento, è come tornare ad avere dieci anni… e poi ti vergogni ancora di più”. Un altro ha descritto la consultazione per l’accesso alle cure specialistiche come un'”audizione” stressante, in cui ha faticato a descrivere la sua situazione a causa delle sue stesse difficoltà.
Il Ruolo Chiave del Medico di Base (e Non Solo)
Questo studio ci dice una cosa importante: la comunicazione tra noi e il nostro medico di base è cruciale. Se il medico non riceve le informazioni che noi riteniamo importanti, queste non finiranno nella lettera di rinvio, e questo può influenzare la successiva valutazione da parte dello specialista. Ecco perché a volte gli specialisti, dopo un colloquio diretto, cambiano idea sulla tempestività delle cure rispetto a quanto avevano dedotto dalla sola lettera.
Noi pazienti, a volte, “aggiustiamo il tiro” delle informazioni che diamo, per aumentare le chance di ottenere ciò che vogliamo o evitare un rifiuto. I medici dovrebbero essere consapevoli di questa possibilità e cercare di capire se qualcosa è stato omesso o modificato.
Piccole Grandi Verità Emerse dallo Studio
Mi ha colpito molto leggere come esperienze negative passate con altri professionisti sanitari possano alzare un muro, rendendo difficile persino iniziare a parlare dei propri problemi. La sensazione di non essere presi sul serio è un tema ricorrente e sottolinea quanto sia vitale un ascolto empatico e attivo. Non è solo una questione di “buone maniere”, ma un elemento che può facilitare o bloccare completamente il flusso di informazioni.
Pensiamoci: se un medico si sforza di creare una comprensione condivisa con noi, e basa le sue raccomandazioni su questa intesa, è più probabile che noi ci apriamo e forniamo un quadro completo. E questo è fondamentale, soprattutto se consideriamo che, come ha rilevato un altro studio, circa un quarto dei pazienti riceve tempi di attesa massimi più lunghi quando la valutazione si basa solo sulla lettera di rinvio rispetto a quando uno specialista fa una valutazione dopo un primo colloquio.
I diversi stili di comunicazione che abbiamo visto prima richiedono anche approcci diversi da parte dei professionisti. Chi ha un atteggiamento passivo potrebbe aver bisogno di essere incoraggiato e guidato più di chi cerca aiuto attivamente e senza filtri. D’altro canto, chi è molto determinato e poco incline a considerare alternative può “sfidare” il sistema di rinvio, e qui servirebbero ulteriori studi per capire come aiutare al meglio questi pazienti a ricevere le cure più appropriate.
Cosa Possiamo Imparare?
Questo studio, pur con i suoi limiti (campione piccolo, persone solo sopra i 18 anni e già inserite in un percorso, esclusione di chi è stato rifiutato), ci offre spunti preziosissimi. Ci ricorda che la comunicazione in ambito di salute mentale è una danza complessa, influenzata da chi siamo, da come stiamo, da chi abbiamo di fronte e dal sistema che ci circonda.
Per noi pazienti, forse, la consapevolezza di questi meccanismi può aiutarci a navigare meglio il sistema. Per i professionisti sanitari – medici di base, psicologi, specialisti – è un invito a essere ancora più attenti, empatici e flessibili. Devono essere consapevoli dei fattori che influenzano la comunicazione e dell’interazione tra questi e il nostro approccio individuale.
Facilitare la comunicazione significa creare un ambiente di fiducia, ascoltare attivamente, fare le domande giuste e, soprattutto, farci sentire visti e capiti. Perché solo così potremo davvero ricevere l’aiuto di cui abbiamo bisogno, nel modo più tempestivo ed efficace possibile. E chissà, magari un giorno parlare di salute mentale sarà davvero un po’ meno una scalata e un po’ più una passeggiata, seppur consapevole.
Fonte: Springer