Il Paradosso Nascosto: Perché i Paesi Pacifici Spesso Inquinano di Più?
Ragazzi, devo confessarvi una cosa. Mi sono imbattuto in una ricerca che mi ha fatto davvero riflettere, mettendo in discussione alcune idee che davo quasi per scontate. Viviamo in un’epoca in cui sentiamo parlare ogni giorno di due grandi crisi globali che sembrano avanzare a braccetto: i conflitti e i rischi ambientali. Sembra logico pensare che, se queste due cose negative sono collegate, allora anche i loro opposti – pace e sostenibilità ecologica – dovrebbero andare d’accordo, no? Ecco, la ricerca che ho letto suggerisce… beh, esattamente il contrario. E questa cosa mi ha lasciato un po’ spiazzato.
Pace e Sostenibilità: Amiche o Nemiche?
Prima di addentrarci, capiamoci un attimo sui termini. Quando parliamo di “pace”, non intendiamo solo l’assenza di guerre (quella che gli esperti chiamano pace negativa). C’è anche la pace positiva: quell’insieme di atteggiamenti, istituzioni e strutture che creano società davvero pacifiche, dove c’è più uguaglianza, accesso alla sanità, all’istruzione, giustizia sociale. Insomma, le condizioni che permettono alle persone e alle comunità di fiorire davvero.
Dall’altra parte abbiamo la “sostenibilità ecologica”. Qui il discorso si fa complesso, perché non basta guardare all’inquinamento dentro i propri confini. Bisogna considerare l’impatto complessivo che un paese ha sul pianeta, incluso il consumo di risorse e le emissioni generate lungo tutta la filiera produttiva, anche se parte di quell’impatto avviene altrove (il concetto di scambio ecologicamente ineguale).
Alcuni studi recenti, basandosi su certi indici, avevano suggerito che sì, pace (soprattutto quella positiva) e sostenibilità fossero correlate positivamente. Sembrava intuitivo: società più giuste e stabili dovrebbero essere anche più attente all’ambiente. Logico, no?
Il Nocciolo del Problema: Come Misuriamo la Sostenibilità?
Ed è qui che la nuova ricerca entra in gioco, mettendo il dito nella piaga. Il problema, a quanto pare, sta proprio negli strumenti usati per misurare la “sostenibilità” in quegli studi precedenti. Spesso si usava l’Environmental Performance Index (EPI), un indice robusto per la salute ambientale *interna* a un paese, ma che non cattura l’intera storia. L’EPI, nelle analisi precedenti, non teneva conto in modo completo:
- Delle emissioni totali di gas serra attribuibili a un paese.
- Dell’impronta ecologica e materiale derivante dal consumo interno, considerando l’intero ciclo di vita dei prodotti.
In pratica, si rischiava di trascurare l’impatto “esternalizzato” dei paesi più ricchi, quelli che spesso ottengono punteggi alti sia in termini di pace positiva (al loro interno) sia nell’EPI, ma che basano il loro benessere su un enorme consumo di risorse provenienti da altre parti del mondo, spesso dal Sud globale. Per avere un quadro reale, dicono i ricercatori, dobbiamo usare misure “forti” di sostenibilità, come le emissioni di CO2 pro capite, l’impronta ecologica (quanta superficie terrestre e marina serve per sostenere i consumi) e l’impronta materiale (la quantità totale di materie prime estratte).
I Nostri Risultati: Una Realtà Scomoda
E allora, cosa succede quando si usano queste misure più complete? I risultati, pubblicati su Springer Nature, sono stati una doccia fredda per l’intuizione comune. Analizzando i dati globali a livello nazionale dal 2010 al 2022, è emersa una correlazione significativamente negativa tra gli indicatori fondamentali di sostenibilità ecologica e la pace, sia negativa che positiva.
In parole povere:
- I paesi con le più alte emissioni di CO2 pro capite, la maggiore impronta ecologica e la maggiore impronta materiale tendono ad essere quelli che godono di maggiori livelli di pace (soprattutto positiva) al loro interno.
- Al contrario, i paesi più vulnerabili ai rischi ambientali (come il cambiamento climatico) e che spesso vivono situazioni di conflitto interno, sono generalmente quelli che contribuiscono meno al problema ecologico globale con i loro consumi.
C’è una correlazione inversa fortissima (in media -0.84 con la vulnerabilità e -0.81 con la pace positiva, usando l’impronta ecologica e materiale). In pratica, chi inquina di più sembra stare meglio ed essere meno a rischio, mentre chi subisce di più le conseguenze ambientali e i conflitti, spesso ha un’impronta ecologica molto più leggera. Un paradosso bello e buono, che è rimasto stabile per oltre un decennio, nonostante gli accordi internazionali sul clima.
Conflitti Interni ed Esterni: Un’Altra Sfaccettatura
Scavando ancora più a fondo, emerge un’altra distinzione interessante. La relazione cambia a seconda del tipo di conflitto:
- Conflitti Intrastatali (interni): Sono più fortemente associati a paesi con basse emissioni e bassi tassi di consumo. Cioè, i paesi con minore impronta ecologica sperimentano più spesso conflitti interni.
- Conflitti Interstatali (esterni): La partecipazione a conflitti fuori dai propri confini è più associata a paesi con alte emissioni e alti tassi di consumo.
Prendiamo tre esempi dall’anno 2015 per capirci meglio:
- Stati Uniti: Nessun conflitto interno, ma attivamente coinvolti in conflitti all’estero. Impronta ecologica, materiale e di CO2 enormemente al di sopra delle soglie di sostenibilità. Alto punteggio di pace positiva (interna).
- Repubblica Democratica del Congo: Conflitto interno. Impronta ecologica, materiale e di CO2 bassissime, ben al di sotto delle soglie di sostenibilità. Bassissimo punteggio di pace positiva.
- Svizzera: Nessun conflitto interno né esterno. Impronta ecologica, materiale e di CO2 molto alte, non sostenibili. Altissimo punteggio di pace positiva.
Questi esempi mostrano la complessità. Paesi “pacifici” come USA e Svizzera hanno impronte ecologiche insostenibili, ma divergono sulla partecipazione a conflitti esterni. La RDC, pur essendo ecologicamente “virtuosa” secondo queste metriche, soffre di conflitti interni e bassa pace positiva. Sembra quasi che per partecipare a guerre lontane serva una base logistica (energia, materiali) più pesante.
Il Paradosso del Benessere e la Strada da Trovare
Questo ci riporta al grande dilemma, noto come il “paradosso benessere-consumo”: come possiamo garantire una vita dignitosa a tutti senza sforare i limiti del nostro pianeta? I risultati di questo studio sembrano dire che, al momento, non ci stiamo riuscendo. I paesi che stanno meglio, che hanno più pace positiva, sono anche quelli che consumano e inquinano di più, spesso superando di gran lunga la loro “giusta quota” di risorse planetarie.
È importante sottolineare che questa correlazione inversa non è una legge di natura. Non è scritto da nessuna parte che per stare in pace dobbiamo per forza distruggere l’ambiente. La ricerca non dice che un basso consumo *causi* conflitti, ma evidenzia una relazione attuale che dobbiamo assolutamente affrontare.
Esistono esempi virtuosi? Forse. Prendiamo la Costa Rica: nel 2015 era vicina alla sostenibilità su tutti e tre gli indicatori chiave (CO2, impronta ecologica e materiale), non aveva conflitti interni o esterni (ha abolito l’esercito da decenni!) e si classificava bene per la pace positiva. Quindi, una pace sostenibile è possibile.
La sfida è capire come replicare e diffondere modelli simili. Questa ricerca è un primo passo fondamentale: identificare il problema, riconoscere che l’intuizione iniziale era sbagliata (o almeno, non rispecchia la realtà attuale). Ora serve più ricerca per capire i meccanismi esatti e trovare percorsi concreti per costruire una pace che sia davvero sostenibile per tutti, senza che il benessere di alcuni si basi sul rischio ambientale e sul conflitto altrove.
In un mondo dove i rischi ambientali e i conflitti continuano ad aumentare, ignorare questo paradosso sarebbe semplicemente pericoloso. Dobbiamo affrontarlo, se vogliamo davvero un futuro di pace e sostenibilità globale.
Fonte: Springer