Un paesaggio agricolo europeo rigoglioso al tramonto, con campi coltivati che si estendono fino all'orizzonte e un singolo albero solitario. Obiettivo grandangolare 16mm, lunga esposizione per nuvole setose, colori caldi e saturi, messa a fuoco nitida su tutto il paesaggio.

PAC: Soldi agli Agricoltori o all’Ambiente? La Verità Nascosta nei Criteri di Aiuto!

Eccoci qua, amici lettori, a sviscerare un tema che tocca le corde profonde della nostra Europa, della nostra tavola e, non da ultimo, del nostro pianeta: la Politica Agricola Comune, meglio nota come PAC. Un gigante che muove circa un terzo del bilancio UE e che, da oltre sessant’anni, cerca di barcamenarsi tra obiettivi a volte apparentemente inconciliabili. Ma siamo sicuri che lo faccia nel modo giusto? E soprattutto, i criteri con cui vengono distribuiti i famosi pagamenti diretti disaccoppiati (DDP) giocano un ruolo in questa complessa partita? Beh, mettetevi comodi, perché ho fatto un po’ di ricerca e quello che ho scoperto potrebbe sorprendervi.

Un po’ di storia: come siamo arrivati qui?

Partiamo dalle basi. La PAC nasce con l’obiettivo nobilissimo di garantire un “tenore di vita equo per la comunità agricola”, principalmente sostenendo i redditi degli agricoltori. Questo è scritto nero su bianco fin dal Trattato di Roma. Col tempo, però, a questo pilastro se ne sono aggiunti altri, figli delle nuove consapevolezze e urgenze della nostra società. Pensiamo alla sostenibilità, alla cura dell’ambiente, alla lotta ai cambiamenti climatici. Obiettivi sacrosanti, intendiamoci, ma che hanno reso il puzzle della PAC ancora più intricato.

All’inizio, l’impronta era fortemente “produttivista”: bisognava garantire l’autosufficienza alimentare. Missione compiuta, tanto che poi ci siamo trovati a gestire le eccedenze! Da lì, una serie di riforme, spinte anche da accordi internazionali come il GATT, hanno cercato di cambiare rotta. La riforma MacSharry ha segnato una svolta, introducendo i pagamenti diretti, e poi la riforma Fischler ha fatto un ulteriore passo avanti con il “disaccoppiamento”: gli aiuti non più legati ai prodotti, ma direttamente ai produttori. L’idea era quella di ridurre le distorsioni del mercato e dare agli agricoltori la libertà di produrre in base alle reali esigenze dei consumatori. Bello, no? Peccato che il disaccoppiamento abbia portato con sé anche qualche ombra, come l’aumento degli affitti dei terreni e una distribuzione non sempre equa degli aiuti, spesso ancorati proprio alla terra. E qui casca l’asino, perché chi possiede la terra non è sempre chi la lavora.

Il dilemma: reddito vs. ambiente, e la terra di mezzo

Negli ultimi vent’anni, la PAC ha cercato sempre più di tenere insieme questi due mondi: il sostegno al reddito e l’incentivo a pratiche agricole sostenibili. La riforma 2014-2020, ad esempio, ha introdotto pagamenti specifici come il “greening”. E l’ultima riforma, quella per il 2023-2027, è stata pesantemente influenzata dal Green Deal europeo e dalle strategie “From Farm to Fork” (F2F) e “Biodiversità”. Si parla di eco-schemi, di condizionalità rafforzata… insomma, un sacco di belle parole. Ma la domanda cruciale resta: questi strumenti, e soprattutto i criteri con cui vengono erogati i pagamenti diretti, riescono davvero a far convergere gli obiettivi di reddito e quelli ambientali? O finiscono per creare più problemi di quanti ne risolvano?

Il punto è che, nonostante le buone intenzioni, il legame con la terra persiste. Il Sostegno di Base al Reddito per la Sostenibilità (BISS), per esempio, pur con le sue condizionalità ambientali, rimane un aiuto basato sulla superficie. E stiamo parlando di una fetta enorme della torta: il 51% del bilancio del Fondo Europeo Agricolo di Garanzia!
Un campo agricolo europeo diviso a metà: da un lato rigoglioso e verde con pratiche sostenibili visibili (es. fasce fiorite), dall'altro un terreno più sfruttato con macchinari pesanti. Obiettivo prime 50mm, luce del mattino diffusa, profondità di campo che mostra entrambi i lati, duotone verde e marrone.
Molti studi, e anche la Corte dei Conti Europea, hanno sollevato dubbi sull’efficacia di questo sistema. Si parla di “capitalizzazione” degli aiuti nei valori fondiari (cioè, i soldi della PAC fanno aumentare il prezzo della terra, arricchendo i proprietari più che gli agricoltori), di una distribuzione iniqua che favorisce le grandi aziende, e di un’efficienza nel trasferimento del reddito non sempre ottimale. Insomma, c’è il rischio che una bella fetta di questi aiuti non arrivi a chi ne ha davvero bisogno o a chi si impegna di più per l’ambiente.

La nostra indagine: i criteri di allocazione sotto la lente

Proprio per capirci qualcosa di più, mi sono immerso in un’analisi basata sui dati FADN (Farm Accountancy Data Network), una miniera d’oro di informazioni microeconomiche sulle aziende agricole di 28 paesi europei (incluso il Regno Unito, per il periodo analizzato 2015-2017). L’idea era semplice ma, credo, potente: vedere se e come la scelta dei criteri per allocare i pagamenti diretti disaccoppiati possa impattare sulla loro efficacia nel raggiungere sia gli obiettivi di reddito che quelli ambientali. In altre parole, la coerenza della PAC.

Abbiamo ipotizzato uno scenario di pagamenti “flat rate” nazionali, dove i DDP seguono direttamente la distribuzione dei parametri di allocazione. E poi abbiamo misurato, con un’analisi di correlazione di Spearman (non spaventatevi, è solo un modo statistico per vedere quanto due cose vanno a braccetto), l’associazione tra diversi possibili criteri di allocazione e due variabili chiave: il livello di reddito agricolo e la spesa per fertilizzanti e pesticidi (un indicatore, seppur imperfetto, dell’impatto ambientale, in linea con gli obiettivi F2F).
I criteri di allocazione che abbiamo testato includono:

  • La Superficie Agricola Utilizzata (SAU) – lo status quo, la terra.
  • Il Lavoro (espresso in Unità di Lavoro Annuo, ULA).
  • Il Valore Aggiunto (VA).
  • Combinazioni come Lavoro per Superficie (ULA/SAU) e produttività del lavoro e della terra.

Cosa abbiamo scoperto? Preparatevi a qualche sorpresa!

A livello aggregato EU-28, i risultati sono stati illuminanti.
Partiamo dalla terra (SAU), il criterio attualmente dominante. Beh, abbiamo trovato una correlazione positiva con il reddito agricolo (rs = 0.320) e una correlazione forte e positiva con la spesa per fertilizzanti e pesticidi (rs = 0.583). Tradotto: i pagamenti basati sulla terra tendono ad andare ad aziende con redditi più alti e che usano più input chimici. Non proprio il massimo della coerenza con gli obiettivi di equità e sostenibilità, vero?

E gli altri criteri? Usare il Valore Aggiunto (VA) come criterio mostrerebbe una correlazione fortissima e positiva con il reddito (rs = 0.827) e ancora positiva e forte con la spesa per input chimici (rs = 0.522). Simile discorso per la produttività del lavoro (VA/ULA) e, in misura minore, per la produttività della terra (VA/SAU), anche se quest’ultima mostra una correlazione quasi nulla con la spesa chimica.
Usare il Lavoro (ULA) come criterio? Correlazione positiva sia con la spesa chimica (rs = 0.387) che con il reddito (rs = 0.356).

Ma ecco la sorpresa: il criterio Lavoro per Superficie (ULA/SAU). Qui le cose cambiano radicalmente. Abbiamo trovato correlazioni negative sia con la spesa per input chimici (rs = -0.414) sia, seppur più debole, con il reddito agricolo (rs = -0.162). Questo significa che un criterio basato sull’intensità di lavoro per ettaro tenderebbe a premiare le aziende con redditi più bassi (quindi più bisognose di sostegno) e che utilizzano meno input chimici (quindi più sostenibili). Bingo!

Un diagramma cartesiano stilizzato che mostra quattro quadranti. Un punto etichettato 'Terra (SAU)' si trova nel quadrante in alto a destra (alto reddito, alto uso chimico). Un altro punto etichettato 'Lavoro/Superficie (ULA/SAU)' si trova nel quadrante in basso a sinistra (basso reddito, basso uso chimico). Lente macro 60mm, illuminazione da studio precisa, alta definizione dei dettagli grafici.

Per visualizzare meglio, immaginate un grafico cartesiano. Sull’asse X mettiamo il reddito, sull’asse Y la spesa per chimica.

  • Il quadrante “peggiore” (in alto a destra) è quello degli aiuti che vanno a chi ha redditi alti e usa molta chimica. La terra (SAU), il VA, il VA/ULA e l’ULA si piazzano tristemente qui.
  • Il quadrante “migliore” (in basso a sinistra) è quello degli aiuti a chi ha redditi bassi e usa poca chimica. E indovinate chi troviamo qui? Proprio il nostro ULA/SAU!

Certo, c’è molta eterogeneità tra i vari Stati Membri, ma la tendenza generale a livello UE è questa. Ad esempio, l’ULA/SAU risulta il criterio migliore per ridurre l’uso di chimica in quasi tutti i paesi, specialmente in alcuni dell’Est Europa, ma anche nel Centro, Nord e Sud. Anche per una distribuzione più equa del reddito, l’ULA/SAU è spesso la soluzione migliore.

Implicazioni e raccomandazioni: non è solo accademia!

Questi risultati non sono solo numeri su un foglio, amici. Hanno implicazioni enormi.
Primo: il criterio di allocazione basato sulla terra non è affatto “neutrale”. Anzi, orienta gli aiuti in modo poco coerente con gli obiettivi dichiarati dalla PAC, favorendo aziende più ricche e meno attente all’ambiente. Questo conferma i timori di molti: la PAC attuale, legata alla terra, rischia di amplificare le disuguaglianze e di non incentivare abbastanza la transizione verde.

Secondo: attenzione a cercare alternative senza un’analisi approfondita! Criteri apparentemente sensati come il valore aggiunto o il lavoro preso singolarmente potrebbero non migliorare la situazione, anzi. Alcuni potrebbero addirittura peggiorare la coerenza.

Terzo: esiste almeno un criterio, tra quelli analizzati, che sembra promettente: il lavoro per ettaro (ULA/SAU). Questo criterio potrebbe indirizzare gli aiuti verso le aziende più bisognose e più sostenibili. Sarebbe facilmente gestibile, dato che i dati sul lavoro standard per ettaro per tipo di coltura o allevamento sono spesso già disponibili. Certo, bisogna valutare attentamente i potenziali effetti collaterali, come il rischio di favorire eccessivamente aziende hobbistiche o piccolissime con un uso intensivo di input. Non esistono soluzioni perfette, ma bisogna cercare la migliore possibile.

Verso una PAC più giusta ed efficace?

La sfida per la PAC è superare la sua “dipendenza dal sentiero” (path dependency), cioè la tendenza a perpetuare scelte passate anche quando non sono più ottimali. Cambiare il criterio di allocazione da terra a lavoro (o meglio, lavoro per unità di superficie) non sarà una passeggiata. Ci saranno resistenze, soprattutto da parte dei grandi proprietari terrieri con attività poco intensive in termini di manodopera.

Tuttavia, i tempi sembrano maturi per un cambiamento. Il “Dialogo Strategico sul Futuro dell’Agricoltura UE” e le recenti comunicazioni della Commissione Europea sottolineano la necessità di un sostegno pubblico più equo e mirato. Se la futura PAC 2028-2034 vuole davvero dare priorità a redditi equi e a una minore dipendenza dalla chimica, allora la terra non sembra il criterio più appropriato.

Certo, questo studio è un punto di partenza. Serviranno analisi più sofisticate, magari con i nuovi dati del Farm Sustainability Data Network (FSDN), che includano una gamma più ampia di indicatori di sostenibilità. Ma una cosa mi sembra chiara: per disegnare una PAC più coerente ed efficace, dobbiamo basarci sull’evidenza, essere coraggiosi nelle scelte e non aver paura di mettere in discussione lo status quo. Ne va del futuro dei nostri agricoltori, della qualità del nostro cibo e della salute del nostro pianeta. E io, da semplice osservatore e appassionato, continuerò a seguire la vicenda con grande interesse!

Un tavolo da conferenza con decisori politici, scienziati e rappresentanti degli agricoltori che discutono animatamente su grafici e documenti relativi alla PAC. Obiettivo prime 35mm, luce naturale da finestra laterale, profondità di campo media per mostrare le interazioni, atmosfera costruttiva.

Fonte: Springer

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