Immagine simbolica di una rete digitale astratta con nodi luminosi che rappresentano ricercatori connessi tramite identificativi unici come ORCID. Colori blu e bianco high-tech, focus nitido su alcuni nodi, stile fotorealistico.

ORCID: Perché i Ricercatori lo Usano (o lo Ignorano)? Scoprilo con Me!

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che forse avete incrociato nel labirintico mondo della ricerca accademica: l’ORCID. Sembra un nome strano, vero? Eppure, questo “Open Researcher and Contributor Identifier” è nato poco più di dieci anni fa con un’idea semplice ma potente: dare un codice identificativo unico e digitale a ogni ricercatore nel mondo. Pensateci, quanti Mario Rossi o Zhang Wei ci sono là fuori che pubblicano ricerche? Distinguerli può diventare un incubo! L’ORCID serve proprio a questo: a fare chiarezza, a collegare in modo inequivocabile un ricercatore alle sue pubblicazioni, affiliazioni e contributi, anche se cambia università o ente finanziatore.

Ma funziona davvero? La grande domanda sull’adozione

Qui le cose si fanno interessanti. L’ORCID è fondamentale per le analisi bibliometriche, per le università che vogliono monitorare la produttività dei loro ricercatori, e potenzialmente utilissimo per i ricercatori stessi (più visibilità, meno confusione). Eppure, convincere tutti ad adottarlo non è stato facile. Studi passati parlavano di tassi di adozione molto variabili, a volte bassissimi (dal 3% al 42%).

Recentemente, però, mi sono imbattuto in un nuovo studio americano che ha fatto un sondaggio su larga scala in 31 università di ricerca statunitensi. E i risultati mi hanno sorpreso: hanno trovato un tasso di adozione complessivo del 72%! Un balzo notevole. Ma attenzione, questo è un dato medio. Se andiamo a vedere nel dettaglio, le differenze tra discipline accademiche sono enormi. Si va da un misero 17% nelle arti visive e performative a un incredibile 93% nelle scienze biologiche e biomediche. Praticamente tutti in biologia ce l’hanno, quasi nessuno nelle arti. Questo mi fa pensare molto a come la “cultura” della disciplina influenzi queste scelte.

Perché sì? La spinta delle riviste (e non solo)

Allora, cosa spinge un ricercatore a crearsi questo benedetto ORCID? Lo studio è chiarissimo su questo punto: la ragione principale, per quasi un terzo degli intervistati (29%), è che molte riviste accademiche lo richiedono obbligatoriamente per poter sottomettere un manoscritto. Senza ORCID, niente pubblicazione. Semplice ed efficace, direi! Infatti, oltre la metà dei ricercatori ha dichiarato di aver sentito parlare per la prima volta dell’ORCID proprio durante il processo di pubblicazione, come autore (42%) o come revisore (10%).

Ma non è solo una questione di obbligo. Un buon 25% ha creato l’ORCID perché crede che porti benefici professionali. E quali sarebbero questi benefici percepiti da chi lo usa?

  • Permettere agli altri di trovare più facilmente le mie ricerche (circa 1/3 lo ritiene moderatamente o molto utile).
  • Trovare più facilmente le mie stesse ricerche nei database citazionali (29%).
  • Tracciare le mie attività di peer review (19%).
  • Trovare più facilmente gli articoli di altri ricercatori (19%).

Insomma, sembra che l’ORCID inizi a essere visto anche come uno strumento utile per la visibilità e la gestione della propria “identità” scientifica. Anche le comunicazioni istituzionali (tipo quelle delle biblioteche universitarie) sembrano avere un certo peso, indicate dal 10% come fonte di informazione. Meno rilevante, invece, l’obbligo per le richieste di finanziamento (citato solo dal 9% come motivo principale e dal 6% come prima fonte di informazione).

Primo piano di una ricercatrice sorridente, circa 40 anni, in un laboratorio moderno e luminoso, mentre aggiorna il suo profilo ORCID su un laptop. Luce controllata, obiettivo prime 35mm, profondità di campo ridotta per sfocare leggermente lo sfondo.

Perché no? I dubbi e le resistenze

E chi invece non ce l’ha? Qui le motivazioni sono altrettanto interessanti e fanno riflettere. Tra chi era a conoscenza dell’ORCID ma ha scelto di non farlo, le ragioni principali sono:

  • Non ne vedo i benefici (42%): La percezione di utilità è ancora bassa per molti.
  • Sono abbastanza avanti nella carriera da non averne bisogno (20%): Tipico dei professori ordinari, che magari sentono meno la pressione della “promozione”.
  • Lavoro in un campo accademico dove non serve (16%): Questo spiega le basse percentuali in discipline umanistiche e artistiche.
  • Preoccupazioni per la privacy e la raccolta dati (12%): Un timore legittimo nell’era digitale.

C’è anche un 27% che ha dato risposte “altre”, che includono cose come: non capire bene cosa sia o come funzioni, essere troppo occupati, avere un nome unico e quindi non sentire il bisogno di disambiguazione, o una certa resistenza alla “digitizzazione” e classificazione degli studiosi. È interessante notare che tra chi ha risposto “non so se ho un ORCID”, ben il 67% ne aveva comunque sentito parlare, suggerendo che forse alcuni ce l’hanno ma se ne sono dimenticati o non lo usano attivamente. Al contrario, tra chi ha detto “no”, solo il 32% ne aveva sentito parlare, indicando che una grossa fetta di non-adottanti semplicemente non è informata.

Disparità e tendenze future

Lo studio evidenzia anche altre differenze. I professori assistenti (più giovani e in cerca di tenure) sono più propensi ad avere un ORCID (80%) rispetto agli associati (67%) e agli ordinari (71%). C’è anche una differenza razziale: solo il 64% dei ricercatori afroamericani ha un ORCID, rispetto a circa il 75% degli altri gruppi. Questo suggerisce la necessità di sforzi mirati per raggiungere specifici gruppi.

Cosa ci dice tutto questo per il futuro? L’ORCID sta prendendo piede, spinto soprattutto dalle riviste, ma c’è ancora strada da fare. Per aumentare l’adozione, sembra fondamentale comunicare meglio i benefici reali (trovare ricerche, tracciare attività, networking) e forse sottolineare quanto sia facile iscriversi. Bisogna raggiungere le discipline e i gruppi meno coinvolti, come le arti, le scienze umane e i ricercatori afroamericani.

Un gruppo eterogeneo di accademici (diverse età, etnie, generi) discute animatamente attorno a un tavolo in una sala riunioni universitaria. Alcuni sembrano scettici, altri interessati. Obiettivo zoom 24-70mm per catturare l'interazione, luce naturale dalla finestra.

Non possiamo però ignorare le preoccupazioni etiche. L’obbligatorietà solleva questioni di libertà accademica, e i timori sulla privacy e sull’uso dei dati per sorveglianza o valutazione non vanno sottovalutati. Inoltre, la qualità dei dati stessi è un problema: molti profili restano vuoti o incompleti (“profili fantasma”), e c’è persino chi crea profili falsi! Questi aspetti limitano l’utilità reale del sistema.

Nonostante queste sfide, io credo che l’ORCID abbia un potenziale enorme per rendere la comunicazione scientifica più trasparente ed efficiente. Il fatto che sia quasi onnipresente tra i giovani ricercatori suggerisce che la tendenza sia verso un’adozione sempre più diffusa. Staremo a vedere come evolverà, ma di sicuro è uno strumento da tenere d’occhio!

Fonte: Springer

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