Immagine macro ad alta definizione di una sezione ossea umana complessa, la base cranica, illuminata da una luce laterale controllata che ne evidenzia la struttura porosa e intricata, focale precisa, obiettivo macro 100mm.

Odissea Diagnostica: Finalmente Terra! Il Caso Incredibile di un’Osteomielite della Base Cranica

Ciao a tutti! Oggi voglio raccontarvi una storia che ha dell’incredibile, un vero e proprio viaggio tortuoso nel mondo della diagnosi medica. Parliamo di osteomielite della base cranica (OBC), una brutta bestia. Non solo perché può progredire rapidamente ed essere letale, ma anche perché scovare la causa e curarla è spesso un percorso lungo e frustrante. Pensate che in oltre il 30% dei casi, il microbo responsabile resta un fantasma, impossibile da identificare!

L’OBC spesso colpisce chi ha le difese immunitarie un po’ giù, quindi bisogna tenere gli occhi aperti anche per infezioni “opportunistiche”, quelle causate da germi un po’ strani che normalmente non danno problemi. Per affrontare un nemico così sfuggente, serve una squadra affiatata: chirurghi che puliscono l’area infetta, patologi che analizzano i campioni, microbiologi a caccia del colpevole e medici pronti con la terapia antibiotica giusta. È un lavoro di squadra, non c’è dubbio.

L’inizio di un lungo viaggio

La nostra storia inizia nel 2014, con una paziente di 58 anni che si presenta da noi con un’osteomielite bilaterale della base cranica. Un quadro già complesso, reso ancora più difficile da una storia clinica pesante: soffriva di ipogammaglobulinemia (un deficit di anticorpi) dopo essere guarita da una leucemia linfatica cronica a cellule B (B-CLL) recidivante. Aveva già subito diversi interventi chirurgici altrove, senza successo.

Immaginate la scena: sintomi fastidiosi come perdita d’udito bilaterale, secrezioni purulente dall’orecchio (otorrea) e dolore (otalgia), preceduti da varie polmoniti. La sua immunodeficienza secondaria (SID), con una carenza quasi totale di IgA nonostante le infusioni regolari di immunoglobuline (IVIG), complicava ulteriormente le cose.

Abbiamo subito messo in campo un approccio interdisciplinare, coinvolgendo reumatologi, ortopedici, emato-oncologi e microbiologi per escludere una miriade di possibili cause. Ma niente, il patogeno restava introvabile. Abbiamo provato una terapia antibiotica “alla cieca” (calcolata) con Ampicillina/Sulbactam e anche l’ossigenoterapia iperbarica (OTI), ma quest’ultima ha dovuto essere interrotta per il peggioramento delle condizioni generali della paziente. Per un po’, la situazione sembrava stabile, tanto che la paziente ha rifiutato ulteriori interventi.

Una nuova tempesta all’orizzonte

Ma nel 2019, la tempesta è tornata: di nuovo perdita d’udito progressiva e otorrhea. Le immagini radiologiche mostravano un peggioramento della distruzione ossea. Siamo intervenuti chirurgicamente sull’orecchio destro (petrosectomia subtotale) per cercare di riabilitare l’udito con un impianto cocleare (in due tempi) e, soprattutto, per ottenere nuovi campioni da analizzare. Ancora una volta, nonostante tutte le precauzioni e le discussioni pre-operatorie, il microbo si è nascosto bene. Niente da fare. Almeno, l’analisi istopatologica ha escluso altre malattie gravi come recidive tumorali, tubercolosi o micosi invasive.

Pochi mesi dopo, ecco comparire vertigini e un peggioramento dell’udito anche dall’altro lato. Le scansioni confermavano l’avanzata dell’osteolisi nell’osso temporale sinistro. Altro giro, altra corsa: nuova chirurgia a sinistra, questa volta inserendo anche un elettrodo “segnaposto” nella coclea. Nuovi campioni, stessa delusione: colture batteriche aerobiche e anaerobiche negative, colture per micobatteri negative, test PCR “universali” (Pan-PCR) per batteri e funghi negativi. L’unica novità, un piccolo indizio: l’istologia ha mostrato per la prima volta delle formazioni granulomatose, un segnale che poteva far pensare a un’infezione.

Fotografia in bianco e nero stile film noir di una provetta da laboratorio tenuta da una mano guantata, messa a fuoco selettiva sulla provetta, sfondo sfocato di attrezzature mediche, profondità di campo ridotta, obiettivo 35mm.

Quando il gioco si fa duro… e i nervi cedono

Nonostante i primi buoni risultati con l’impianto cocleare a destra, sei mesi dopo l’ultimo intervento, la capacità di comprendere le parole è peggiorata. Le immagini radiologiche confermavano la progressione dell’infezione su entrambi i lati, particolarmente aggressiva a sinistra. Per salvare il salvabile (l’udito residuo a destra) e tentare ancora una volta di stanare il nemico, abbiamo eseguito un’altra revisione chirurgica a sinistra (la terza, contando anche quelle fatte altrove). Aggrappandoci a ogni speranza, abbiamo riprovato anche con l’ossigenoterapia iperbarica dopo l’intervento.

Dopo sei settimane di apparente calma piatta, ecco il colpo di scena peggiore: una paralisi dei nervi cranici inferiori (IX, X, XI) a sinistra. La lingua deviava, il palato molle era paralizzato da un lato, così come una corda vocale. La radiologia confermava che l’osteomielite si era estesa fino al forame giugulare sinistro. Eravamo di fronte a un muro, con una malattia che avanzava inesorabilmente e una causa ancora sconosciuta.

L’intuizione decisiva: cercare l’insolito

A questo punto, serviva un cambio di strategia radicale. Un’altra riunione interdisciplinare ha portato a una decisione cruciale: basta cercare solo i “soliti sospetti”. Era ora di dare la caccia a patogeni atipici, quelli che sfuggono ai test standard, come Toxoplasma gondii e, soprattutto, Mycoplasma pneumoniae. Perché proprio lui? Perché i micoplasmi sono batteri particolari, piccolissimi, senza parete cellulare (il che li rende invisibili alle colorazioni standard come Gram o Ziehl-Neelsen e resistenti a molti antibiotici comuni come le penicilline). Sono dei veri maestri del mimetismo, a volte si comportano quasi come virus, nascondendosi persino all’interno delle nostre cellule.

Abbiamo quindi utilizzato una tecnica di biologia molecolare più mirata e sensibile: una PCR Real-Time specifica (basata sulla tecnologia TaqMan) che andava a cercare direttamente il DNA di questi due microrganismi nei campioni prelevati durante l’ultimo intervento (guidato dalla navigazione per essere il più precisi possibile).

Terra! Il nemico ha un nome

Ed ecco la svolta, il momento “Terra!” della nostra odissea: i test sono risultati positivi per Mycoplasma pneumoniae in ben quattro dei cinque campioni analizzati! Finalmente avevamo un nome, un bersaglio. Il fatto che le precedenti Pan-PCR fossero negative si può spiegare: o erano meno sensibili della PCR specie-specifica, o i campioni prelevati in precedenza, in un’area chirurgica complessa e “riempita” con grasso addominale, non contenevano abbastanza DNA del batterio.

Ma perché proprio il Mycoplasma? Questo batterio è noto soprattutto per causare polmoniti atipiche (“community-acquired pneumonia”, CAP), ma può dare anche manifestazioni extra-polmonari (MpEPDs), specialmente in persone immunocompromesse, spesso dopo un’infezione respiratoria… proprio come nel caso della nostra paziente! La sua immunodeficienza, in particolare la carenza di IgA, e i meccanismi di evasione immunitaria del Mycoplasma stesso, potrebbero spiegare perché l’infezione sia diventata così grave e persistente, e perché i test sierologici (ricerca di anticorpi specifici IgM, IgG, IgA) sarebbero stati comunque poco affidabili in questo caso, data anche la terapia sostitutiva con immunoglobuline. La diagnosi molecolare (PCR) era davvero l’unica strada percorribile.

Immagine macro ad altissima definizione di una doppia elica di DNA stilizzata o di un gel di elettroforesi con bande luminose, illuminazione controllata e precisa, sfondo scuro, obiettivo macro 90mm.

La rotta verso la guarigione

Una volta identificato il nemico, abbiamo potuto finalmente pianificare una terapia mirata. Consultandoci ancora una volta nell’ambito dell’Antibiotic Stewardship (ABS) – quel concetto fondamentale di usare gli antibiotici in modo razionale e mirato – abbiamo iniziato una terapia antibiotica a lungo termine con una combinazione di azitromicina e doxiciclina. Questi sono antibiotici efficaci contro i micoplasmi (a differenza dei beta-lattamici che agiscono sulla parete cellulare, qui assente). Non potendo fare un antibiogramma (test di sensibilità) per mancanza di coltura, abbiamo scelto una combinazione robusta data la gravità e la lunga storia della malattia.

E i risultati? Lentamente ma inesorabilmente, la situazione ha iniziato a migliorare. Le immagini radiologiche mostravano una regressione dell’infezione, con sclerosi delle aree di osteomielite. La paralisi dei nervi cranici ha iniziato a regredire, con il recupero della mobilità della corda vocale e dell’arco palatino, supportato anche dalla logopedia. Dopo 6 mesi abbiamo sospeso l’azitromicina (per effetti collaterali gastrointestinali) e dopo 9 mesi la doxiciclina. A distanza di 12 mesi dalla diagnosi, i reperti erano stabili e clinicamente la paziente stava molto meglio. Continua a essere monitorata attentamente, e ad oggi, la regressione dei sintomi è confermata.

Lezioni da un’odissea

Questo caso è, per quanto ne sappiamo, la prima descrizione di un’osteomielite della base cranica causata da Mycoplasma pneumoniae come infezione extra-polmonare. È un esempio lampante della complessità diagnostica e terapeutica di queste malattie. Ci insegna tanto:

  • L’importanza cruciale di un approccio interdisciplinare: chirurghi, microbiologi, immunologi, radiologi, infettivologi devono parlare e collaborare costantemente.
  • La necessità di pensare “fuori dagli schemi”, considerando patogeni atipici, specialmente in pazienti con sistema immunitario compromesso.
  • Il ruolo fondamentale delle tecniche diagnostiche avanzate come la PCR specie-specifica quando i metodi standard falliscono.
  • L’importanza di una gestione oculata degli antibiotici (Antibiotic Stewardship).
  • I limiti di alcuni test: la coltura per i micoplasmi è difficile, la sierologia può essere inaffidabile in caso di immunodeficienza.
  • Anche terapie adiuvanti come l’OTI possono avere un’efficacia limitata contro patogeni intracellulari come il Mycoplasma.

Insomma, questa odissea diagnostica, durata oltre 8 anni, si è conclusa con la scoperta del colpevole e una terapia efficace. Un successo reso possibile solo dalla perseveranza, dalla collaborazione tra specialisti e dall’uso di diagnostica avanzata in un centro specializzato. Un faro di speranza per altri casi complessi come questo.

Fonte: Springer

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