Un ritratto filosofico di Friedrich Nietzsche pensieroso, in bianco e nero, con un bicchiere d'acqua in primo piano e sullo sfondo una libreria antica. Prime lens, 35mm, black and white film, Depth of field.

Acqua Basta: Nietzsche, l’Ebbrezza e il Coraggio di Amare il Proprio Destino

Un Paradosso Nietzscheano: Acqua contro Dioniso?

Sapete, quando si pensa a Friedrich Nietzsche, vengono subito in mente concetti come la volontà di potenza, il superuomo, l’eterno ritorno… e, naturalmente, Dioniso. Il dio greco dell’ebbrezza, del caos creativo, della vitalità straripante. Eppure, spulciando tra le sue opere, in particolare nel suo testamento autobiografico Ecce Homo, ci si imbatte in una frasetta che, lì per lì, ti lascia un po’ spiazzato: “L’acqua basta“. Ma come? Il filosofo del martello, il profeta di Dioniso, che si accontenta di un bicchier d’acqua? Sembra quasi un controsenso, una nota stonata in una sinfonia dirompente. E se vi dicessi che proprio in questa apparente contraddizione si nasconde una delle chiavi più affascinanti per comprendere il suo pensiero, e in particolare il suo celebre amor fati, l’amore per il destino?

“L’Acqua Basta”: Una Provocazione o una Rivelazione?

Troviamo questa frase nel capitolo “Perché sono così intelligente” di Ecce Homo. Nietzsche sta parlando delle sue abitudini alimentari, delle “piccole cose” che, a suo dire, sono fondamentali. Ora, uno potrebbe pensare: “Ma che c’entra la dieta con la grande filosofia?”. Beh, con Nietzsche, le “piccole cose” diventano spesso gigantesche. Non sto qui a farvi un trattato di dietetica nietzscheana, né a psicanalizzare le sue scelte. Il punto è un altro, molto più profondo. Come conciliare questo elogio della sobrietà acquatica con l’ideale dionisiaco, che per definizione include l’ebbrezza, il Rausch?

L’ebbrezza dionisiaca è caos, creatività orgiastica, vita traboccante. Bere solo acqua, al contrario, fa pensare a un Kant, a un filosofo tutto sobrietà e raziocinio. È un ideale ascetico quello che risuona qui? O c’è dell’altro? La questione, credetemi, è meno banale di quanto sembri e ci porta dritti al cuore della sua “rivalutazione di tutti i valori”.

La Virtù del Corpo: Il Segreto dell’Amor Fati

La risposta, amici miei, sta nello sviluppo di quella che Nietzsche chiama la “virtù corporea“. Un concetto che ribalta la prospettiva. Non si tratta di un ascetismo che nega il mondo, ma di un “dionisismo ascetico” pienamente aperto alla vita. Per Nietzsche, la filosofia non è un esercizio intellettuale disinteressato, ma un dialogo corporeo e graduale con il mondo, una trasformazione personale che va di pari passo con la trasformazione della nostra comprensione del mondo. E qui entra in gioco l’amor fati. L’amore per il destino, l’accettazione gioiosa di tutto ciò che è, è stato e sarà. Ma come si arriva a questa grandezza d’animo?

Nietzsche ci dice, in sostanza, che per amare il destino, per dire “sì” alla vita in tutta la sua pienezza, contraddizioni incluse, serve forza. E questa forza, questa “virtù”, ha radici profonde nel nostro essere corporeo. La “casistica dell’egoismo”, come la chiama lui, ovvero la cura per l’alimentazione, il clima, l’ambiente, il riposo, non è un dettaglio marginale. È la base. L’interpretazione stessa, per Nietzsche, non è un atto puramente mentale, ma una performance fisica, un’apertura corporea al mondo. Quanto più potere si ha, quanta più energia corporea si gestisce saggiamente, tanto più “potente” sarà la nostra interpretazione della realtà – capace di trasformare un fallimento in un’opportunità, una perdita in un dono.

Un primo piano di un bicchiere d'acqua cristallina su un tavolo di legno rustico, con libri antichi e appunti filosofici sparsi intorno. Luce naturale soffusa che entra da una finestra. Macro lens, 60mm, high detail, controlled lighting.

Pensateci: “Come devi nutrirti tu per raggiungere il tuo massimo di forza, di virtú in stile rinascimentale, virtù senza moralina?”. Questa è la domanda che Nietzsche si pone, e che ci pone. E la sua risposta, per sé, è che l’alcool, per esempio, ha un effetto degradante sul suo campo energetico. Quindi, “l’acqua basta”. Non per ascetismo fine a se stesso, ma per preservare la lucidità e l’energia necessarie a compiti più alti.

Ecce Homo: Diventare Ciò Che Si È

Ecce Homo, con il suo sottotitolo “Come si diventa ciò che si è“, è cruciale. Non è solo un’autobiografia, ma un testamento in cui Nietzsche interpreta se stesso e la sua opera. Certo, è un libro pieno di auto-esaltazione, a tratti megalomane, che ha fatto storcere il naso a molti. “Non voglio essere un santo, preferirei essere un buffone”, scrive. E l’ironia è una lente importante per leggerlo. Ma al di là di questo, c’è un messaggio potente: la filosofia nasce dalla “volontà di salute, di vita”.

Il “diventare ciò che si è” non è seguire un copione, ma un processo di auto-creazione, di responsabilità personale. E qui, l’interpretazione gioca un ruolo chiave. Interpretare la propria vita, narrarsela, è un atto performativo. Ma questa interpretazione non è un atto di una mente disincarnata. È una performance situata, che esprime un “quantum di potenza” da una data prospettiva. Più potenza si ha, più “potente” sarà l’interpretazione. E questa potenza, ci insegna Ecce Homo, si coltiva anche attraverso la cura del proprio corpo, della propria “centrale energetica”.

Ebbrezza del Mondo Contro Auto-Ebbrezza Alienante

Torniamo all’ebbrezza. Nietzsche non la condanna in toto. C’è una distinzione sottile ma fondamentale. Un conto è l’ebbrezza dal mondo, quella che nasce da una pienezza vitale, da un’apertura totale alla realtà, una sorta di partecipazione cosciente alla dinamica auto-trascendente della vita. Un altro è l’auto-ebbrezza, quella cercata artificialmente con sostanze (come l’alcool, che Nietzsche vedeva come degradante per il suo campo energetico) o con forme di cultura popolare che stordiscono. Questa seconda ebbrezza, per lui, è una fuga, un modo per non affrontare la vita, che porta al risentimento, all’odium fati (l’odio per il destino), alla stanchezza del mondo.

In Aurora, per esempio, critica aspramente chi antepone l’ebbrezza al nutrimento, chi si rifugia in momenti di esaltazione per poi sprofondare nella miseria, incolpando il mondo esterno. Questi “ebbri selvaggi”, dice, seminano insoddisfazione e disprezzo per la vita. L’alcool, le “acque di fuoco spirituali”, rovinano l’umanità proprio come l’acquavite rovinava i “selvaggi”. L’ebbrezza indotta artificialmente, che sia da sostanze o da cultura di massa, è un surrogato inautentico della vita vera, che ci impedisce di diventare chi potremmo essere.

L’Amor Fati: Un “Sì” Che Richiede Forza

Ecco che il cerchio si chiude. “L’acqua basta” non è una rinuncia, ma una scelta strategica per preservare quella lucidità e quella forza interiore necessarie per l’amor fati. “La mia formula per la grandezza nell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né avanti, né indietro, né per tutta l’eternità. Non solo sopportare il necessario, ancor meno nasconderlo – ogni idealismo è menzogna di fronte al necessario – ma amarlo“. Amare il proprio destino, questo “fatum”, non è rassegnazione passiva. È amore attivo, che richiede di “essere saldi in se stessi, stare coraggiosamente su entrambi i piedi, altrimenti non si può amare”.

La cura del corpo, la “virtù corporea”, diventa quindi la condizione per questa affermazione universale del mondo. Ignorarla significa rischiare di scivolare nella negatività, nel risentimento. L’amor fati è simboleggiato dal cielo blu scuro, capace di accogliere anche gli aspetti tragici della vita. E questa capacità di accoglienza, questa forza, si coltiva anche scegliendo, per esempio, l’acqua invece di bevande che annebbiano lo “spirito” – inteso qui non in senso religioso, ma come movimento auto-trascendente della vita.

Una figura stilizzata in silhouette si erge su una montagna al tramonto, braccia aperte verso un vasto cielo stellato. Il cielo è di un blu profondo con accenni di arancio e viola all'orizzonte. Landscape wide angle, 10mm, long exposure, sharp focus.

Nietzsche stesso ammette che gli ci è voluto tempo per “imparare la ragione” da queste esperienze, per prendere sul serio la virtù corporea. Ma questa “semplicità cristallina” è parte integrante di una filosofia che vuole essere vicina alla vita.

Non Egoismo, Ma Preparazione al Compito

Qualcuno potrebbe obiettare: ma questa “casistica dell’egoismo” non è una forma di auto-centratura che ci chiude al mondo, agli altri? Non si tratta, in fondo, di qualcosa di più grande, dell’incontro con l’alterità che sfugge al nostro controllo? Nietzsche, credo, risponderebbe che il “diventare ciò che si è” non è realizzare un piano prestabilito. Anzi, il non sapere chi si è o chi si dovrebbe diventare è la condizione stessa per l’auto-realizzazione. Questo ci mantiene aperti a ciò che verrà, al compito inatteso che “improvvisamente sorge” davanti a noi, e solo per noi, al momento giusto.

Solo un essere “egoisticamente” ben disposto, cioè forte e lucido, potrà affrontare con successo questo compito. L’essere umano, oserei dire, è un servizio incarnato al proprio compito. La virtù corretta è una virtù che si dona, radiosa. E se “l’acqua basta” per questo, allora forse possiamo anche dire che “il mondo basta”, in una visione rigorosamente secolare dell’esistenza. La domanda non è cosa basta all’uomo, ma cosa l’uomo può diventare per il suo mondo. E la risposta, come abbiamo visto, passa anche attraverso la saggezza di un semplice bicchiere d’acqua. L’amore, ci ricorda Nietzsche, richiede forza.

Insomma, quella frasetta apparentemente banale, “L’acqua basta”, si rivela una piccola, luminosa tessera nel grande mosaico del pensiero di Nietzsche. Un invito a prenderci cura della nostra “centrale energetica” corporea, non per narcisismo, ma per avere la forza di abbracciare la vita con un “sì” totale e incondizionato. Un “sì” che è, forse, la forma più alta di ebbrezza: quella di essere pienamente, lucidamente, se stessi nel mondo.

Fonte: Springer

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