La Ciliegina sulla Torta: Come si Negozia la Diversità per Entrare a Sciences Po
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa di affascinante e, per certi versi, un po’ spinoso: come funziona davvero l’accesso a una delle istituzioni più prestigiose della Francia, Sciences Po, soprattutto per chi proviene da contesti considerati “svantaggiati”. Parliamo del famoso programma CEP (*Conventions éducation prioritaire*), nato per aprire le porte dell’élite accademica a studenti meritevoli ma con background diversi. Ma come si traduce in pratica questo obiettivo di “diversità”? È davvero un’apertura totale o c’è un gioco più sottile in corso?
Vedete, fin dalla metà degli anni 2000, molte università francesi hanno iniziato a usare i concetti di merito e diversità come due facce della stessa medaglia per promuovere le pari opportunità. Sciences Po è stata una pioniera con il suo programma CEP. Ma come vivono questa esperienza i diretti interessati, i ragazzi e le ragazze che partecipano ai workshop preparatori nei licei, ad esempio quelli della Seine-Saint-Denis, un’area spesso associata a difficoltà socio-economiche e a background migratori?
Il Profilo Ideale: Un Equilibrio Delicato
Quello che emerge da uno studio approfondito, basato su osservazioni dirette e interviste, è che il profilo del candidato CEP ideale è frutto di un equilibrio delicatissimo. Da un lato, deve distinguersi, portare quella “diversità” tanto cercata; dall’altro, deve assomigliare il più possibile allo studente d’élite “immaginato”, quello che tradizionalmente popola le aule di Sciences Po. È un po’ come camminare su un filo teso.
Questa dualità crea situazioni complesse. A seconda delle proprie identità intersecate (origine, genere, classe sociale, religione…), i candidati si trovano di fronte a vantaggi e ostacoli diversi lungo tutto il percorso di ammissione. Le strategie che mettono in campo per navigare questo processo rivelano aspettative paradossali: devono negoziare la loro diversità in un contesto che si dichiara formalmente “color-blind”, cioè cieco alle differenze di origine etnica o razziale, ma che allo stesso tempo sembra sia reificare (cioè rendere concrete, quasi stereotipate) che negare queste stesse differenze.
Pensateci: da un lato ti dicono “sii te stesso, porta la tua unicità”, dall’altro “ma non troppo, conformati allo standard”. È un bel rompicapo, no? La politica di Sciences Po, basata su criteri territoriali (cioè provenire da certe aree considerate prioritarie), permette sì agli studenti di valorizzare aspetti diversi del loro background, ma allo stesso tempo scarica su di loro un fardello non indifferente: quello di dover gestire stereotipi, aspettative e attribuzioni intersezionali durante tutta la selezione.
L’Aneddoto di Bichara: L’Esperienza Personale è la “Ciliegina sulla Torta”?
Vi racconto un episodio significativo. Durante una simulazione di colloquio online, una candidata, Bichara (nome di fantasia), presenta il suo profilo: stage all’Assemblea Nazionale, obiettivo di entrare all’ENA (la scuola della pubblica amministrazione francese), impegno femminista. Le chiedono quali figure femministe la ispirano. Lei nomina sua madre, descrivendo come, nata in un piccolo villaggio delle Comore, abbia sfidato le aspettative sociali. La reazione della commissione fittizia? Unanime: la candidata è rimasta troppo ancorata all’esperienza personale, non ha dimostrato una prospettiva ampia. Un mentore spiega: citare la madre è toccante, dà sostanza all’impegno, ma in un colloquio troppo emotivo e poco basato sulla conoscenza, diventa un punto debole. L’esperienza personale va bene, ma solo come “la ciliegina sulla torta”. Il consiglio finale per Bichara? “Meno coinvolgimento emotivo, meno elementi personali”. Deve sì riconoscere e valorizzare la sua identità minoritaria, ma allo stesso tempo deve invocare i simboli della nazione francese e un femminismo universalista per dimostrare di meritare Sciences Po. Capite il paradosso?

Diversità alla Francese: Tra Universalismo e Strategie Territoriali
La Francia ha questo approccio particolare, il “color-blindness”, che storicamente nasce come garanzia di uguaglianza davanti alla legge, rifiutando il riconoscimento di caratteristiche di gruppo. È un pilastro dell’universalismo repubblicano francese. Tuttavia, dagli anni ’80, si sono sviluppate strategie territoriali che, pur usando una retorica apparentemente neutra, finiscono per targettizzare indirettamente persone di origine immigrata. Accanto a questo, è emerso il paradigma della “diversità”, soprattutto nel mondo del lavoro, che vede le caratteristiche individuali come competenze che portano un “beneficio collettivo”.
Questo concetto di diversità ha preso piede in Francia proprio per la sua flessibilità e ambiguità, in un contesto dove parlare apertamente di razza o etnia è problematico. Ma attenzione, molti studiosi criticano questo approccio: rischia di mascherare le dinamiche di potere sottostanti e di riformulare la discriminazione in una luce positiva. Sciences Po, come altre *grandes écoles*, ha adottato queste iniziative sulla diversità, parlando di “talenti”, “potenziali”, “personalità”, presentandole sia come responsabilità morale sia come risposta alla chiusura sociale e alle esigenze delle aziende che cercano futuri leader.
L’Intersezionalità: Una Lente per Capire
Per capire davvero come gli studenti vivono questo processo, serve una lente particolare: quella dell’intersezionalità. Questo approccio ci aiuta a vedere come diverse categorie sociali (razza, genere, classe, religione) si sovrappongono e interagiscono, influenzando le esperienze individuali. Non siamo definiti da una sola etichetta, giusto? L’intersezionalità ci mostra come, anche se la politica CEP è formalmente basata sul territorio e si dichiara “color-blind”, per avere successo i candidati devono mettere in atto strategie specifiche in risposta a queste categorizzazioni incrociate.
Il punto cruciale è che questa politica, pur spostando l’attenzione sulla “personalità” dello studente (cosa spesso accolta positivamente dai candidati), finisce per rimodellare le dinamiche intersezionali di inclusione ed esclusione. Mette sulle spalle degli studenti la responsabilità di gestire stereotipi e aspettative che li colpiscono in modo diseguale. Ci fa vedere tutte le contraddizioni delle politiche basate sulla diversità in un contesto che, almeno formalmente, rifiuta le distinzioni razziali.
Come si Impara a “Giocare” il Gioco della Diversità
Ma come imparano i candidati a interpretare questi criteri? Qui entrano in gioco insegnanti e mentori. Sono loro gli intermediari che aiutano gli studenti a rafforzare le candidature, basandosi sulla loro comprensione dei criteri di Sciences Po e, nel caso dei mentori (spesso ex studenti CEP), sulla loro esperienza personale. Gli insegnanti, a volte, si sentono a disagio nel dover “allenare” gli studenti a enfatizzare aspetti della loro identità legati alla personalità e alla diversità, vedendo questo come un conflitto con il loro ruolo universalista. Un insegnante confessava via email: “Questi criteri di personalità… è tutto ciò di cui parlano [a Sciences Po]… Che stupidi ci sentiamo ad allenarli durante le simulazioni: ‘Ah, hai la doppia nazionalità, bene, puoi parlarne…'”.
I mentori delle associazioni studentesche, invece, spesso vedono i criteri basati sulla personalità come un’opportunità per candidati con profili accademici meno brillanti. “Almeno con questa scuola, possono essere sicuri che qualcosa oltre ai voti verrà considerato. È una chance in più per loro”, mi diceva uno studente membro di Ambition Campus.

Nonostante le diverse prospettive, insegnanti e mentori concordano su un punto: non basta “giocare la carta della diversità”. I candidati di maggior successo sono quelli che riescono a bilanciare differenza e conformità all’immagine dello studente d’élite. Devono padroneggiare sia i codici espliciti che quelli impliciti. Come diceva un mentore: “I più furbi ce la fanno meglio. Sono quelli che riconoscono (…) la necessità di incarnare sia l’immagine di un candidato classico aggiungendo, direi, la ‘spezia CEP’, nella giusta proporzione”.
Essere “Marcati” ma Universali: La Sfida per Studenti Non Bianchi e di Classe Popolare
Per gli studenti non bianchi e provenienti da contesti socio-economici modesti, la sfida è complessa. Devono capire che il loro punto di vista “minoritario” può essere una risorsa, ma solo se tradotto nel linguaggio valorizzato da Sciences Po. Ad esempio, un background migratorio non europeo può essere usato per costruire un progetto professionale orientato all’internazionalità. Parlare turco o arabo può segnalare versatilità, la capacità di essere un “mediatore culturale”.
Tuttavia, devono stare attenti a non apparire “limitati”. Una studentessa nera, Mila, interessata a lavorare sulle elezioni in Costa d’Avorio, è stata avvertita da un insegnante: “Hai origini ivoriane? (…) È importante mostrare che hai anche interessi più ampi”. Il rischio? Essere ridotti a una singola identità da una commissione che si presume adotti una prospettiva universale. Alla fine, Mila ha cambiato argomento. Molti studenti percepiti come non bianchi scelgono temi non comunemente associati ai residenti delle *banlieues* (es. ambiente, diplomazia con il Perù), forse per contrastare inconsciamente questa possibile etichettatura.
Un’altra sfida è segnalare la propria “marcatezza” senza infrangere i limiti del “color-blindness”. Meriem, durante una simulazione, parla della sua passione per l’arrampicata, che le dà “apertura mentale” e le permette di “incontrare persone di altre etnie”. L’insegnante ironizza: “Che tipo di gruppi etnici hai incontrato arrampicando?”. Lei spiega che erano “francesi di Francia”, diversi da lei (che ha origini africane), menzionando pratiche come bere alcol. L’insegnante conclude: “È meglio parlare di differenze culturali allora”. Meriem usa l’etnicità per affermare il suo impegno verso l'”indifferenza alla differenza”, ma finisce per tracciare un confine simbolico che dovrebbe essere negato. E il riferimento alla razza deve rimanere implicito.
Questi esempi mostrano che i criteri di personalità e diversità offrono nuove opportunità, ma richiedono di rimanere nel regno della “differenza produttiva”, senza inquadrare la razza come discriminazione strutturale e mitigando la distanza sociale percepita.

Quando il Profilo “Tipico” della Banlieue Non Corrisponde: Il Caso degli Studenti Bianchi e di Classe Media
E se uno studente proviene sì da una *banlieue* prioritaria, ma è bianco e di classe media? Qui il paradosso si inverte. Luc si presenta alla simulazione con l’uniforme del nonno ferroviere (SNCF), simbolo di servizio pubblico e resistenza alla privatizzazione. Il suo aspetto, la sua disinvoltura nel parlare, il suo interesse per la politica di sinistra lo avvicinano più all’immagine dello studente parigino engagé che a quella stereotipata del ragazzo della *banlieue*. Un insegnante gli consiglia di non enfatizzare troppo l’amore per la SNCF per non essere etichettato come “sporco sinistroide”.
Sam, un altro studente bianco ex candidato CEP, ricorda un consiglio simile: gli dissero che “non aveva il profilo CEP” e doveva adattare la sua candidatura. Nonostante vivesse in un comune svantaggiato, non proveniva da difficoltà estreme o da background migratorio, e i suoi interessi erano “classici”. Si è sentito ingiustamente escluso dalla categoria per cui concorreva. Ha dovuto quindi “modellare” la sua presentazione, enfatizzando sì la sua crescita in quartieri difficili, ma sentendosi in una posizione scomoda.
Le loro esperienze suggeriscono che una posizione dominante nelle relazioni razziali e di classe, unita a sicurezza e fluidità verbale (spesso associate alla mascolinità), può quasi “cancellare” l’ancoraggio territoriale alla *banlieue*. E rivela che la *banlieue*, come categoria territoriale, serve principalmente a identificare individui razzializzati di classi popolari, contraddicendo l’idea che sia una categoria neutra. Paradossalmente, questi studenti possono essere svantaggiati nel colloquio perché non “tipici”, ma avvantaggiati dai criteri accademici grazie al loro capitale culturale.
Ragazze Percepite come Musulmane: Navigare tra Stereotipi di Vulnerabilità e Sospetto
Le ragazze percepite come musulmane affrontano un’altra serie specifica di sfide intersezionali. Devono fare i conti con stereotipi che le vedono o come troppo timide e concentrate sulla scuola (la “brava studentessa”, figura meno premiata nelle *grandes écoles* rispetto ai ragazzi più sicuri di sé), o, se velate, come potenzialmente sottomesse o addirittura sospette nel contesto del secolarismo francese.
In Francia, la figura della donna musulmana velata è spesso inquadrata come vulnerabile, non autonoma, o come potenziale minaccia. Questi stereotipi colpiscono anche ragazze non praticanti ma categorizzate come musulmane per fenotipo o origine. Per navigare i criteri di Sciences Po, devono costruire la loro presentazione attorno a pratiche che segnalino agency ed emancipazione. Naima parla del pugilato che le permette di “affermarsi” e “affrontare i pregiudizi sulle donne”. Altre enfatizzano il femminismo.
Ma anche qui, la negoziazione è sottile. Zainab, di origini pakistane, teme che collegare le sue esperienze personali all’interesse per le questioni di genere possa rafforzare stereotipi di sottomissione. Si posiziona quindi come “osservatrice” delle disuguaglianze, non come vittima. Meriem (quella dell’arrampicata) si chiede se presentarsi come “musulmana femminista” o “femminista musulmana”. Sa che la seconda formulazione, nel contesto francese, potrebbe far apparire il suo femminismo secondario rispetto alla religione. L’insegnante le conferma che quella scelta esporrebbe a domande “scomode”. Impara così a dare priorità al genere sulla religione per fugare sospetti di slealtà repubblicana.

Questi casi mostrano come le ragazze categorizzate come musulmane debbano superare stereotipi di vulnerabilità o gestire contemporaneamente vulnerabilità e sospetto. Per costruire legittimità intersezionale, devono dimostrare assertività e una capacità di distaccarsi da legami familiari, comunitari o religiosi percepiti come problematici.
Conclusioni: Un Gioco di Equilibri con un Costo
Allora, cosa ci dice tutto questo? Che il programma CEP di Sciences Po, pur con le sue buone intenzioni, mette i candidati di fronte a un complesso gioco di equilibri. Devono affermare la loro differenza ma conformarsi all’ideale dello studente repubblicano francese. Le loro posizioni intersezionali (razza, classe, genere, religione) creano vantaggi e svantaggi specifici in questo processo di negoziazione.
- Chi ha un background non bianco e di classe popolare può trasformarlo in risorsa, ma deve evitare la “nicchia” e rimanere astratto sulla razza.
- Chi è bianco e di classe media in una *banlieue* deve quasi “performare” la sua appartenenza territoriale per compensare privilegi percepiti.
- Chi è percepita come ragazza musulmana deve dimostrare agency e allinearsi a una certa idea di femminilità repubblicana per contrastare stereotipi.
Queste politiche sulla diversità sono una fonte di speranza per molti studenti, offrendo la possibilità di valorizzare aspetti prima ignorati. Ma la capacità di giocare strategicamente questo ruolo non dipende solo dal merito o dalle attività extracurriculari. Dipende anche dalla capacità di gestire stereotipi intersezionali che colpiscono in modo diseguale.
Il punto non è criticare la necessità di queste politiche, ma evidenziare i loro effetti paradossali e sottolineare l’urgenza di ripensare le strutture sociali e l’ideologia dell’universalismo “color-blind” francese. Solo così le politiche per la diversità potranno davvero realizzare il loro potenziale trasformativo, senza che la “ciliegina sulla torta” diventi un peso troppo grande da portare per alcuni.
Fonte: Springer
