Foto panoramica grandangolare (18mm) di un gruppo eterogeneo di giovani neozelandesi (età mista 16-25) seduti su gradini all'aperto in un campus o parco urbano, alcuni interagiscono tra loro in piccoli gruppi, altri guardano lontano con espressioni miste (pensierose, stanche, connesse ma preoccupate), luce naturale diffusa del giorno, messa a fuoco nitida sul gruppo in primo piano, sfondo leggermente sfocato per enfatizzare i soggetti.

Viviamo in un Mondo Non Fatto Per Noi: La Voce dei Giovani sulla Crisi della Salute Mentale

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di una cosa che mi sta molto a cuore, e che riguarda tantissimi di noi: la salute mentale dei giovani. Sapete, c’è questa sensazione diffusa, quasi un’eco costante nelle nostre vite, che il mondo in cui stiamo crescendo… beh, non sia stato esattamente progettato pensando a noi. E non lo dico io a caso, lo dicono proprio i ragazzi e le ragazze, come emerge da una ricerca affascinante fatta in Aotearoa, Nuova Zelanda.

Hanno ascoltato 176 giovani tra i 16 e i 25 anni, provenienti da contesti diversi, sia città che campagne, per capire cosa, secondo loro, sta mettendo a dura prova il nostro benessere psicologico. E quello che è venuto fuori è potente, fa riflettere. La frase simbolo? “Viviamo in un mondo che non è stato costruito per noi”. Forte, vero? Ma cerchiamo di capire meglio cosa intendono.

Il Mondo in Cui Viviamo: Un Futuro Incerto e Pieno di Fratture

Una delle prime cose che salta all’occhio è questa sensazione di vivere in un’epoca… complicata. Parliamo di crisi economiche, di un costo della vita che sale alle stelle, della difficoltà a immaginarsi una casa propria. C’è un’incertezza palpabile sul futuro lavorativo. “Nessuno sa se troverà un lavoro dopo la scuola o come andrà”, diceva uno dei ragazzi. E non è solo l’economia a preoccupare.

Ci sono le grandi minacce globali, come il cambiamento climatico o le guerre lontane ma sempre presenti sui nostri schermi. Queste cose generano ansia, un senso di pessimismo diffuso, quasi la sensazione che il mondo stia andando a rotoli. “Fa paura pensare di avere figli”, confessava qualcuno. È come se fossimo costantemente bombardati da notizie negative, da problemi enormi che ci fanno sentire piccoli e impotenti.

E poi ci sono le fratture sociali. La polarizzazione, le disuguaglianze. I ragazzi vedono chiaramente le ingiustizie, il razzismo, il sessismo, le difficoltà che affrontano i gruppi marginalizzati, come i Māori indigeni o le comunità Pasifika in Nuova Zelanda. C’è frustrazione verso le generazioni precedenti, accusate a volte di averci “lasciato in eredità un mondo rotto” e di non capire le nostre difficoltà. “Pensano che siccome siamo giovani, non sappiamo niente”, si sfogava un partecipante. Questo divario generazionale crea un muro, una difficoltà a comunicare e a sentirsi compresi.

Ritratto fotografico di un adolescente neozelandese (17 anni) seduto da solo su una panchina in un parco urbano, espressione pensierosa e leggermente ansiosa guardando verso l'orizzonte, luce del tardo pomeriggio, profondità di campo ridotta che sfoca lo sfondo urbano, obiettivo 35mm, toni duo blu e grigio per accentuare la malinconia.

La Pressione Costante: Essere Sempre al Top

Oltre al peso del mondo esterno, c’è una pressione interna, fortissima. La sentiamo a scuola, a casa, sui social. È la pressione di dover “fare”, di dover “riuscire”, di costruire un futuro di successo. Sembra che non ci sia spazio per sbagliare, per prendersi una pausa. “La paura di fallire è così comune”, ammetteva uno dei ragazzi.

Le aspettative arrivano da tutte le parti:

  • Scuola: Voti alti, carichi di lavoro pesanti, la costante minaccia delle ripercussioni se non si tiene il passo.
  • Famiglia: Soprattutto per chi viene da famiglie immigrate o che hanno fatto sacrifici, c’è il peso di dover “ripagare” i genitori, di renderli orgogliosi. A volte, sembra quasi che il nostro successo serva più all’ego dei genitori che a noi stessi.
  • Società (e Social Media): Quella che chiamano la “cultura della produttività”. Vediamo online gente che si sveglia alle 5 del mattino, va in palestra, fa mille cose… e ci sentiamo inadeguati se non facciamo lo stesso. “Più lo guardi, più ti senti una persona di m***a perché non lo fai”, diceva una ragazza.

Questa pressione non tiene conto delle difficoltà reali che molti affrontano: traumi passati, disabilità, la necessità di lavorare tante ore per mantenersi o aiutare la famiglia, magari prendendosi cura anche dei fratelli minori. C’è un senso di ingiustizia nel vedere che le opportunità non sono uguali per tutti. E il risultato? Stanchezza, esaurimento. Molti desiderano solo un po’ di “spazio”, di tempo per respirare, invece di correre sempre verso il “prossimo passo”.

Connessioni Vitali (e Complicate): Tra Amici, Famiglia e Online

Le relazioni sono fondamentali, lo sappiamo tutti. Gli amici, il gruppo, la comunità possono essere un’ancora di salvezza incredibile. Offrono supporto, divertimento, uno spazio sicuro per parlare. Durante i lockdown del COVID-19, molti hanno sofferto proprio la mancanza di queste connessioni.

Ma anche le relazioni non sono semplici. C’è la pressione a conformarsi, a “entrare” nel gruppo giusto. Ci sono le amicizie “tossiche”, i conflitti, lo stress di dover gestire continuamente le dinamiche sociali, sia offline che online. A volte, socializzare diventa quasi un lavoro: “Assicurarsi di avere un bell’aspetto, di non sembrare strano… è piuttosto opprimente”.

E poi c’è il capitolo social media. Da un lato, sono uno strumento pazzesco per connettersi, soprattutto per chi si sente isolato o vuole parlare di cose delicate. Dall’altro, possono aumentare il senso di solitudine. È difficile capire cosa sia “reale” e cosa “finto” online. Si finisce per confrontarsi, per sentirsi disconnessi anche quando si è virtualmente insieme a tanti. “È strano sedersi su un autobus accanto a qualcuno e non guardarlo nemmeno… entrambi sui propri telefoni”, rifletteva un partecipante.

La famiglia resta un punto di riferimento importante, nel bene e nel male. Può essere una fonte enorme di supporto, ma anche di stress, conflitti, incomprensioni. Spesso, i ragazzi sentono di non poter parlare apertamente dei loro problemi, percependo un divario generazionale e culturale, specialmente riguardo alla salute mentale, che in alcune culture è ancora un tabù. “Mia madre mi ha chiamato pazza e ha detto che non era normale”, raccontava una ragazza.

Primo piano macro di uno smartphone appoggiato su un tavolo di legno scuro, lo schermo mostra un feed di social media colorato ma sfocato con volti sorridenti stilizzati e icone di 'like', luce controllata e drammatica che illumina solo il telefono, obiettivo macro 90mm, alta definizione per i dettagli del telefono contrastanti con lo sfondo scuro.

Trovare la Propria Strada: La Sfida dell’Identità

Infine, c’è la grande avventura, a volte faticosa, di capire chi siamo. Avere un’identità chiara e positiva è visto come uno scudo per la salute mentale. Ma costruirla non è una passeggiata. È un “viaggio”, come dicono molti, ma pieno di ostacoli.

C’è la pressione a “essere autentici”, a “conoscere se stessi”, ma allo stesso tempo ci si sente limitati dalle regole, dalle aspettative, dalla paura di sbagliare identità. “E se ti sbagli? Sei sicuro?”, sono domande che risuonano. Si finisce per presentare una versione “ben orchestrata” di sé, che non corrisponde a come ci si sente dentro.

In una società come quella neozelandese, apparentemente tollerante ma ancora piena di pregiudizi, affermare la propria identità (culturale, di genere, sessuale) può essere una lotta. Razzismo, sessismo, omofobia, transfobia sono esperienze reali per molti giovani, che si manifestano anche come bullismo o microaggressioni. Anche per i giovani Māori, nonostante le tutele formali, far riconoscere la propria cultura è una sfida continua.

I social media, ancora una volta, complicano le cose. Creare un'”immagine di marca” online può portare a sentirsi alienati da se stessi. “Sto costruendo una seconda personalità… sono davvero la persona che sono online?”. C’è poi tutta la questione dell’immagine corporea, esacerbata dai continui confronti. Le ragazze, in particolare, parlano di sentirsi sessualizzate e di interiorizzare uno sguardo maschile critico sul proprio corpo.

Cosa Possiamo Imparare?

Questa ricerca ci dice una cosa fondamentale: i problemi di salute mentale dei giovani non nascono dal nulla. Sono profondamente intrecciati con il contesto sociale, economico, culturale e digitale in cui viviamo. I ragazzi ne sono consapevoli, hanno una visione sistemica e complessa delle cause.

I social media non sono “il” problema, ma un potente amplificatore di tutto il resto, nel bene e nel male. Amplificano l’ansia per il futuro, ma possono anche dare voce all’attivismo. Amplificano la pressione a performare, ma offrono anche spazi di connessione.

La sensazione di non essere capiti dalle generazioni precedenti è un tema ricorrente e doloroso. Sentirsi ascoltati, validati, presi sul serio potrebbe già essere terapeutico. Forse, il primo passo è proprio questo: smettere di pensare di avere tutte le risposte e iniziare ad ascoltare davvero la loro voce, le loro paure, le loro speranze.

Per affrontare questa crisi, non bastano interventi individuali. Serve un’azione a livello di sistema, che affronti le cause profonde legate alle disuguaglianze, alle pressioni sociali, all’incertezza economica. Ma serve anche dare ai giovani strumenti concreti per navigare la complessità del mondo moderno, per costruire connessioni significative e per trovare e affermare la propria, unica identità. È una sfida enorme, ma ascoltando chi la vive ogni giorno, forse possiamo iniziare a costruire un mondo un po’ più “fatto per noi”.

Fonte: Springer

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