Fotografia realistica di un'unità di terapia intensiva affollata e con risorse limitate in una zona di guerra, medici e infermieri al lavoro con attrezzature essenziali, luce fioca, obiettivo prime 35mm, bianco e nero con forte contrasto, stile reportage.

Sopravvivere a Gaza: I Modelli Prognostici Sotto il Fuoco Incrociato della Guerra

Amici, oggi voglio parlarvi di qualcosa che mi tocca profondamente, un tema che intreccia la fredda logica della scienza medica con la cruda realtà di uno dei contesti più difficili al mondo: la Striscia di Gaza. Immaginate di essere un medico in terapia intensiva (TI), dove ogni secondo conta, e di dover prendere decisioni vitali con risorse limitatissime, mentre fuori infuria un conflitto. Come si fa a capire chi ha più probabilità di farcela? Come si possono allocare al meglio le poche risorse disponibili? Ecco, è qui che entrano in gioco i modelli prognostici.

Recentemente, ho avuto modo di approfondire uno studio prospettico davvero illuminante, condotto proprio nel cuore pulsante e sofferente di Gaza, tra ottobre e dicembre 2024. L’obiettivo? Valutare l’efficacia di due noti sistemi di punteggio prognostico, l’MPM III (Mortality Probability Models III) e il SAPS III (Simplified Acute Physiology Score III), in un sistema sanitario messo a durissima prova dalla guerra e dalla cronica carenza di mezzi.

La Sfida: Terapie Intensive al Limite

Prima di tuffarci nei numeri, lasciatemi dipingere un quadro della situazione. La Striscia di Gaza, come sapete, è da decenni una zona di conflitto, con un sistema sanitario che definire “sull’orlo del baratro” è un eufemismo, anche prima dell’escalation del 2023. La guerra ha portato questo sistema al collasso: un flusso incessante di feriti da trauma, attacchi diretti a strutture sanitarie e personale medico, una carenza drammatica di tutto, dai farmaci alle bende, e una pressione insostenibile sui pochi medici e infermieri rimasti.

In Palestina, studi precedenti sulla validazione di questi modelli in terapia intensiva erano praticamente inesistenti. Questo studio, quindi, non solo colma un vuoto, ma ci offre uno spaccato incredibile sulla performance delle TI locali e sull’adattabilità di strumenti pensati, diciamocelo, per contesti ben più agiati e pacifici.

Lo Studio: Un’Analisi sul Campo

I ricercatori hanno incluso nello studio 101 pazienti ammessi nelle unità di terapia intensiva di tre dei quattro ospedali principali ancora operativi a Gaza in quel periodo: l’Al-Ahli Baptist Hospital, l’Al-Aqsa Hospital e il Nasser Medical Complex. Pensate, queste TI avevano un tasso di occupazione del 100% per tutto il periodo di raccolta dati! Per ogni paziente, sono stati raccolti dati sociodemografici, clinici, fisiologici e di laboratorio, oltre all’evoluzione clinica e all’esito in TI.

I modelli MPM0-III e SAPS-III sono stati scelti perché, rispetto ad altri come l’APACHE, sono più facili da calcolare e meno dipendenti da test di laboratorio complessi, un vantaggio non da poco quando i laboratori stessi faticano a funzionare. Il MPM0-III, ad esempio, si basa sull’età e su 15 parametri clinici e fisiologici misurati al momento del ricovero o entro un’ora. Il SAPS-III ne considera 20, includendo anche dettagli sull’ammissione e variabili di laboratorio (anche se, per necessità, il bilirubina, mancante in tutti e tre gli ospedali, è stata codificata come “normale”).

I Risultati: Cosa Ci Dicono i Numeri di Gaza?

Allora, cosa è emerso? Innanzitutto, un dato che fa riflettere: il tasso di mortalità in TI è stato del 30,69%. La maggioranza dei casi (72,27%) erano chirurgici, spesso provenienti direttamente dal pronto soccorso (58,41%), e questi pazienti avevano una degenza media in TI significativamente più lunga (6 giorni contro i 2 dei casi medici).

Quali fattori erano associati a una maggiore mortalità? Eccone alcuni:

  • Un basso punteggio sulla Scala di Coma di Glasgow (GCS) all’ammissione.
  • La presenza di ustioni.
  • Valori elevati di leucociti e piastrine.
  • Una bassa pressione parziale di ossigeno (PPO2).
  • Aritmie cardiache.
  • Effetto massa intracranico (segno di grave danno cerebrale).
  • La necessità di ventilazione meccanica o di cateterizzazione venosa centrale.

E i modelli prognostici? Qui la cosa si fa interessante. Le mortalità previste dai modelli erano del 16,63% per l’MPM0-III e del 16,82% per il SAPS-III. Confrontandole con la mortalità osservata (il 30,69%), si calcola il cosiddetto Standardized Mortality Ratio (SMR). Valori di SMR di 1.85 per MPM0-III e 1.83 per SAPS-III ci dicono una cosa importante: entrambi i modelli tendevano a sottostimare la mortalità reale, specialmente nei pazienti a più alto rischio. È come se dicessero “questo paziente ha X probabilità di morire”, ma la realtà sul campo, con tutte le sue complicazioni, rendesse quella probabilità quasi doppia.

Fotografia realistica di un'unità di terapia intensiva affollata e con risorse limitate in una zona di guerra, medici e infermieri al lavoro con attrezzature essenziali, luce fioca, obiettivo prime 35mm, bianco e nero con forte contrasto, stile reportage.

Nonostante questa sottostima, i modelli hanno mostrato una capacità di discriminazione da accettabile a buona. Cosa significa “discriminazione”? È la capacità del modello di distinguere correttamente tra i pazienti che sopravvivranno e quelli che non ce la faranno. L’AUROC (Area Under the Receiver Operating Characteristic curve), che misura questa capacità, era di 0.79 per l’MPM0-III (accettabile) e di 0.87 per il SAPS-III (buona). Più questo valore si avvicina a 1, meglio è.

Anche la “calibrazione” – ovvero quanto bene le previsioni del modello si allineano con i tassi di mortalità effettivi nei diversi gruppi di rischio – è risultata buona per entrambi, secondo il test di Hosmer-Lemeshow (che, per farla semplice, se dà un risultato non significativo, indica una buona calibrazione).

Cosa Implica Tutto Questo?

La prima cosa che salta all’occhio è che, nonostante la guerra, la predominanza di casi traumatici e la deplezione delle risorse sanitarie, i risultati delle TI a Gaza durante il periodo studiato sembrano paragonabili a quelli di altri ospedali in Cisgiordania e in altri paesi a basso e medio reddito (LMIC) senza conflitti attivi. Questo è, a mio parere, un tributo incredibile alla resilienza e alla dedizione del personale sanitario locale.

Lo studio suggerisce che il modello SAPS-III, che include parametri di laboratorio, ha una performance leggermente migliore. Tuttavia, nelle condizioni di guerra e di scarsità di risorse, dove i test di laboratorio possono essere un miraggio, l’MPM-III (che si basa solo su dati clinici e fisiologici) emerge come un’alternativa fattibile e valida. Avere strumenti validati, anche se non perfetti, è cruciale. Possono aiutare a migliorare le performance delle TI, a ottimizzare l’uso delle risorse (che, vi assicuro, a Gaza significa decidere tra la vita e la morte con mezzi irrisori) e a informare le strategie di trattamento.

Certo, lo studio ha i suoi limiti: il campione era relativamente piccolo, una TI non è stata inclusa, e non si sono potuti valutare modelli più complessi. Inoltre, i risultati potrebbero non riflettere i periodi più violenti della guerra, specialmente i primi mesi. E non dimentichiamo che si parla di esiti in TI; cosa succede dopo la dimissione dalla terapia intensiva, in un sistema ospedaliero al collasso, è un’altra storia, spesso tragica.

Un medico, con espressione stanca ma determinata, consulta un tablet che mostra dati e grafici in un ambiente di terapia intensiva scarsamente illuminato e con attrezzature visibilmente usurate. Obiettivo 35mm, stile film noir, duotone seppia e blu scuro per accentuare la drammaticità e la resilienza.

Guardando al Futuro (con Speranza?)

Questo studio è un pugno nello stomaco, ma anche un faro. Ci dice che sì, anche nell’inferno di una guerra, la scienza può fornire strumenti per provare a fare meglio. Ci invita a rafforzare le infrastrutture dati nelle TI di Gaza, per facilitare il monitoraggio, la ricerca e il miglioramento continuo. Incorporare criteri di ammissione in TI chiari e modelli prognostici sensibili al contesto nella pratica quotidiana può davvero fare la differenza.

L’MPM-III e il SAPS-III, con i loro pregi e difetti, si sono dimostrati strumenti validi nelle circostanze uniche di Gaza. Ma la ricerca non deve fermarsi. Studi futuri dovrebbero includere gli esiti ospedalieri post-TI per avere un quadro più completo e per identificare le barriere sistemiche al recupero.

In conclusione, mentre i numeri ci danno un’idea della “performance” di un sistema, non dobbiamo mai dimenticare le persone dietro quei numeri: i pazienti che lottano per la vita e gli eroici operatori sanitari che combattono al loro fianco con mezzi quasi inesistenti. Questo studio, per me, è un omaggio alla loro incredibile umanità e un appello a non dimenticare Gaza e la sua gente.

Fonte: Springer

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