Piogge Estreme Sotto la Lente: Come i Modelli Max-Stable Non Stazionari Stanno Rivoluzionando le Previsioni
Avete presente quelle piogge torrenziali che sembrano uscite da un film catastrofico? Eventi come l’alluvione che ha colpito la Germania nell’estate del 2021, coinvolgendo decine di migliaia di persone, ci ricordano quanto sia cruciale capire e prevedere questi fenomeni estremi. E con il riscaldamento globale che, a detta di molti studi, promette un aumento delle precipitazioni intense, la sfida si fa sempre più pressante. Noi scienziati ci rompiamo la testa da anni per sviluppare strumenti sempre più precisi, e oggi voglio parlarvi di un approccio che, lasciatemelo dire, sta aprendo scenari davvero interessanti: i modelli max-stable non stazionari.
Cosa sono questi “Max-Stable” e perché ci servono?
Immaginate di voler capire non la pioggia media, ma quella “da record”, l’evento estremo che può mettere in ginocchio un’intera regione. I processi max-stable sono i nostri migliori alleati in questo. Sono, in un certo senso, il limite matematico a cui tendono i massimi di una serie di osservazioni (come le piogge massime giornaliere in un anno). Pensateli come la “forma” statistica definitiva degli eventi estremi. All’interno di questa grande famiglia, due “vip” indiscussi sono i processi Brown–Resnick e i processi extremal-t. Sono diventati popolarissimi per modellare gli estremi spaziali, cioè quegli eventi che colpiscono più luoghi contemporaneamente.
Il problema? Finora, gran parte della ricerca si è concentrata su modelli con strutture di dipendenza stazionarie. “Stazionario” significa che il modo in cui la pioggia in un punto è correlata a quella in un altro punto dipende solo dalla loro distanza e direzione, ma non dalla loro posizione assoluta. È come dire che la “ricetta” della dipendenza è la stessa ovunque. Ma la realtà, ahimè, è spesso più complicata. Pensate alla differenza tra una pianura e una catena montuosa: è logico aspettarsi che la pioggia si comporti diversamente e che la sua dipendenza spaziale cambi, no?
L’Ingrediente Segreto: le Covariate e la Non-Stazionarietà
Ecco dove entriamo in gioco noi con un’idea che, lasciatemelo dire, è piuttosto brillante. Abbiamo pensato: perché non rendere i nostri modelli più “intelligenti” facendogli considerare delle informazioni aggiuntive, quelle che noi chiamiamo covariate? Una covariata può essere l’altitudine, la distanza dal mare, il tipo di suolo… insomma, qualsiasi caratteristica geografica o ambientale che possa influenzare le precipitazioni.
Nel nostro lavoro, abbiamo proposto un nuovo approccio non stazionario che funziona sia per i processi Brown–Resnick che per quelli extremal-t. L’idea di base è includere queste covariate direttamente nelle funzioni che descrivono la dipendenza spaziale: il variogramma (per i Brown–Resnick) e la funzione di correlazione (per gli extremal-t). In pratica, diciamo al modello: “Guarda che la dipendenza qui non è la stessa di laggiù, perché qui c’è una montagna e laggiù una valle!”.
Questo approccio è una sorta di generalizzazione di idee precedenti, come quella di Blanchet e Davison (2011) che applicavano modelli stazionari a uno “spazio climatico” più ampio che includeva, oltre alle coordinate geografiche, anche altre covariate. Noi abbiamo cercato di rendere la cosa ancora più flessibile, permettendo alle covariate di interagire in modi più complessi e individuali.
Una cosa interessante è che questi modelli max-stable con covariate deterministiche (cioè fisse, come l’altitudine di un punto specifico) ereditano molte delle belle proprietà dei classici modelli max-stable. Ma non ci siamo fermati qui!
Quando le Covariate Diventano “Random”: Ancora Più Flessibilità!
E se le covariate non fossero fisse, ma fossero esse stesse dei processi casuali? Pensate a variabili che cambiano nel tempo e nello spazio. Abbiamo esplorato anche questa frontiera, studiando le proprietà teoriche dei modelli max-stable condizionati a covariate casuali. E qui la sorpresa: questi modelli possono risultare sia asintoticamente dipendenti (cioè c’è una probabilità positiva che eventi estremi si verifichino simultaneamente in luoghi diversi, anche molto distanti, se la soglia di “estremo” è alta) sia asintoticamente indipendenti (questa probabilità tende a zero). Questa è una manna dal cielo, perché significa che i modelli condizionati sono molto più flessibili dei classici modelli max-stable, che di solito sono solo asintoticamente dipendenti.
La “magia” dipende molto dal comportamento delle “code” delle distribuzioni delle covariate. Per esempio, se le covariate hanno code “leggere” (distribuzione di Pareto con parametro α tra 0 e 1), il processo risultante tende all’indipendenza asintotica. Se invece hanno code “pesanti” (α > 1), si tende alla dipendenza asintotica. Il caso α=1 è più sfumato e dipende da quanto velocemente si indebolisce la dipendenza nel processo max-stable sottostante.
Mettiamo alla Prova i Modelli: Simulazioni e Dati Reali Tedeschi
Naturalmente, le belle teorie vanno verificate. Abbiamo condotto esperimenti numerici per vedere come si comportano i nostri nuovi modelli non stazionari. Abbiamo simulato dati da vari tipi di processi extremal-t e Brown–Resnick, sia con covariate fisse che casuali, e poi abbiamo cercato di “recuperare” i parametri originali usando tecniche statistiche. In particolare, dato che calcolare la “verosimiglianza completa” (una misura di quanto bene il modello si adatta ai dati) è un incubo computazionale anche per poche stazioni, ci siamo affidati alla verosimiglianza pairwise, che considera solo le coppie di stazioni. È un trucco molto usato e funziona bene!
Per confrontare i modelli, abbiamo usato il Criterio di Informazione di Takeuchi (TIC), che bilancia la bontà dell’adattamento ai dati con la complessità del modello (modelli più complessi vengono penalizzati, a parità di adattamento). I risultati delle simulazioni sono stati incoraggianti: nella maggior parte dei casi, il TIC ci ha aiutato a scegliere il modello corretto da cui avevamo simulato i dati.
Ma la prova del nove è sempre l’applicazione a dati reali. Abbiamo analizzato i dati delle precipitazioni giornaliere estreme (massimi annuali dei mesi estivi) dal 1951 al 2019 per due regioni della Germania: una al sud, più montuosa, e una al nord, più pianeggiante. Per ogni stazione, avevamo le coordinate geografiche e l’altitudine, che abbiamo usato come covariata nei nostri modelli non stazionari.
Prima di tutto, abbiamo trasformato i dati in modo che seguissero marginalmente una distribuzione di Fréchet unitaria (uno standard per i modelli max-stable) e abbiamo verificato che l’ipotesi di usare modelli asintoticamente dipendenti fosse ragionevole guardando i cosiddetti coefficienti estremali empirici.
I risultati? Per la regione della Germania meridionale, tutti i modelli non stazionari hanno battuto quelli stazionari in termini di TIC. Il migliore è risultato un modello non stazionario (chiamato M1 nel nostro studio) che teneva conto dell’altitudine. Questo ha senso: in una regione con una topografia varia, è logico che la dipendenza spaziale delle piogge estreme non sia uniforme.
Per la regione settentrionale, invece, più piatta, il modello stazionario isotropo (quello più semplice, dove la dipendenza dipende solo dalla distanza) è risultato il migliore. Anche questo è intuitivo: dove il paesaggio è omogeneo, un modello più semplice può bastare.
Confrontando i processi extremal-t e Brown–Resnick, i primi sembrano funzionare leggermente meglio per entrambe le regioni in questo specifico caso studio. È interessante notare che una generalizzazione che avevamo proposto per i modelli Brown–Resnick, che permetteva variogrammi sia limitati che illimitati (modello M3), non ha portato miglioramenti significativi, suggerendo che per questi dati i variogrammi illimitati fossero più appropriati. Tuttavia, avere questa flessibilità in più è sempre utile.
Cosa ci portiamo a casa e direzioni future
Il nostro lavoro propone un modo nuovo e flessibile per costruire modelli max-stable non stazionari, sia per i processi Brown–Resnick che extremal-t, includendo covariate nelle loro strutture di dipendenza. Questo è un passo avanti rispetto ad approcci precedenti, permettendo di catturare meglio la complessità dei fenomeni naturali.
L’introduzione di covariate casuali apre poi un mondo di possibilità, permettendo di modellare situazioni in cui si osserva un indebolimento della dipendenza a livelli estremi, cosa che i modelli max-stable classici non riescono a fare. Questo li rende candidati interessanti anche in contesti dove prima si pensava che i max-stable non fossero adatti.
Certo, c’è ancora lavoro da fare. L’ottimizzazione dei parametri di questi modelli può essere un po’ delicata e sensibile ai valori iniziali, quindi servono procedure robuste. E poi, questi modelli si basano sui massimi per blocco (es. massimi annuali), che spesso sono una composizione di diversi eventi. Si potrebbe pensare di estendere approcci simili per modellare direttamente singoli eventi estremi nello spazio, usando i cosiddetti processi di Pareto associati.
In conclusione, speriamo che il nostro contributo aiuti la comunità scientifica a fare un altro passo avanti nella comprensione e previsione degli eventi meteorologici estremi. Perché, diciamocelo, essere preparati è sempre meglio che essere sorpresi da un diluvio!
Fonte: Springer